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La morte di Greyson Tolliver
Sbalordito dalla piega che avevano preso gli eventi, Greyson fissava attonito l’agente Kreel.
«So che le spigolature non sono mai piacevoli né opportune» disse la donna, «ma anche noi dell’Interfaccia dell’Autorità non ne siamo immuni. Le falci possono spigolare chiunque scelgano, e noi non abbiamo voce in capitolo. È così che va il mondo.» Si interruppe per dare un’occhiata al tablet. «I nostri archivi indicano che lei è stato trasferito sotto la nostra giurisdizione appena un mese fa. Ne deduco che in realtà non ha avuto molto tempo per conoscere l’agente Traxler, e dunque non può sostenere di avere stretto con lui un rapporto tanto profondo. La sua scomparsa ci riempie di dolore, ma ce ne faremo una ragione, e anche lei.»
Lo guardò, in attesa di una qualche risposta, ma Greyson ne stava ancora cercando una. La donna interpretò il suo silenzio come un assenso e proseguì.
«La sua esibizione da acrobata sul ponte Mackinac ha provocato ventinove vittime, e deve rimborsare i costi delle rianimazioni. Dal suo trasferimento qui si è mantenuto grazie al Reddito Minimo Garantito.» Scosse la testa in segno di disapprovazione. «Si rende conto che un vero lavoro le darà uno stipendio più alto e le permetterà così di estinguere il debito in molto meno tempo? Perché non fissa un appuntamento al centro per l’impiego? Se vuole un lavoro, ne avrà uno che sono sicura le piacerà. Abbiamo il 100 per cento di occupati e il 93 per cento di soddisfatti, e tra questi ci sono anche i loschi estremi come lei!»
Alla fine, Greyson recuperò la voce. «Non sono Slayd Bridger» disse, e a udire le sue parole si sentì un traditore.
«Prego?»
«Intendo che ora sono Slayd Bridger… ma prima il mio nome era Greyson Tolliver.»
La donna batté sul tablet, navigando tra schermate e menu, da un file all’altro. «Qui non risulta nessun cambio di nome.»
«Ho bisogno di parlare con il suo superiore. Con qualcuno che ne sia al corrente.»
«I miei superiori hanno le stesse informazioni che ho io» rispose, lanciandogli un’occhiata sospettosa.
«Io… io sono un agente infiltrato. Lavoravo con Traxler… qualcuno deve per forza saperlo! Ci dev’essere un appunto da qualche parte!»
La donna scoppiò a ridere. Rideva proprio di lui.
«Oh, per favore! Siamo pieni dei nostri agenti. Non abbiamo bisogno di “infiltrati” e, anche se fosse, non assumeremmo mai un losco, soprattutto uno con un passato come il suo.»
«Mi sono inventato tutto!»
Il viso dell’agente Kreel s’indurì: doveva essere il tipo di espressione che riservava ai casi più difficili. «Ora ascolti bene, non mi prenderà certo in giro con il suo scherzo da losco! Siete tutti uguali! Pensate di avere il diritto di farvi beffe di noi solo perché abbiamo scelto una vita che ha un senso, una vita al servizio del mondo! Scommetto che dopo questo appuntamento se la riderà alle mie spalle con i suoi amici, e questo non mi piace!»
Greyson aprì la bocca. La richiuse. La riaprì. Nonostante tutti i suoi sforzi, non riuscì ad articolare una singola parola, perché sapeva che nulla avrebbe potuto convincerla. Mai. Si rese conto che non esistevano prove a sostegno della sua versione, perché nessuno gli aveva mai affidato ufficialmente la missione. Non lavorava per conto dell’IA. Come gli aveva spiegato l’agente Traxler il primo giorno, era un privato cittadino che agiva di sua spontanea volontà, perché solo un privato cittadino poteva superare la sottile linea di confine tra la Compagnia e il Thunderhead…
… Ora che l’agente Traxler era stato spigolato, non c’era nessuno, nessuno che sapesse quello che stava facendo. La copertura di Greyson era tale da averlo inghiottito del tutto, e nemmeno il Thunderhead avrebbe potuto tirarlo fuori.
«Allora, la facciamo finita con questo giochetto?» gli chiese l’agente. «Possiamo procedere all’incontro settimanale?»
Greyson inspirò a fondo ed espirò lentamente. «Bene» disse, e cominciò a fare il resoconto della settimana, omettendo le cose che avrebbe detto all’agente Traxler, e non fece più nessun cenno alla sua missione.
Greyson Tolliver era morto. Peggio che morto, perché, per il mondo, Greyson Tolliver non era mai esistito.
Brahms!
Ora Rowan si sentiva doppiamente responsabile della spigolatura del padre. Quello era il prezzo della moderazione, la ricompensa per aver lasciato vivere Brahms. Avrebbe dovuto annientare quell’orribile ometto come aveva fatto con tutte le altre falci indegne di portare l’anello, ma aveva deciso di dargli un’opportunità. Che sciocchezza credere che un uomo come lui potesse meritarsi una seconda occasione.
Quella sera, dopo aver lasciato Senocrate ai bagni pubblici, Rowan aveva vagato per le strade di Fulcrum City senza meta, ma con un bisogno incontrollabile di muoversi. Non sapeva se stava cercando di fuggire dalla rabbia o se la stava rincorrendo. Forse, entrambe le cose. La collera gli era davanti, gli era alle spalle, non l’avrebbe mai lasciato in pace.
Il giorno dopo, decise di tornare a casa. La sua vecchia casa. Quella che aveva lasciato quasi due anni prima per diventare l’apprendista di una falce. Magari sperava in quel modo di trovare la forza di voltare pagina.
Una volta raggiunto il suo quartiere, controllò che nessuno lo stesse osservando, ma la strada era libera. Tranne per le onnipresenti telecamere del Thunderhead. Forse, dato che non aveva partecipato al funerale del padre, la Compagnia pensava che non si sarebbe fatto vedere da quelle parti. O forse era proprio come aveva detto Senocrate: adesso era passato in secondo piano.
Si avvicinò alla porta principale, ma all’ultimo momento non osò bussare. Non si era mai sentito tanto codardo. Era capace di sfidare senza timore uomini e donne addestrati a porre fine a una vita, ma affrontare la sua famiglia dopo la spigolatura del padre andava oltre le sue possibilità.
Quando la publicar fu a distanza di sicurezza, chiamò la madre.
«Rowan? Rowan, dove sei stato? Dove sei? Siamo stati così preoccupati!»
Era la reazione che si aspettava da sua madre. Non rispose alle sue domande.
«Ho saputo di papà. Mi dispiace, mi dispiace così tanto…»
«È stato terribile, Rowan. La falce si è seduta al piano. Ha suonato. Ci ha obbligato tutti ad ascoltare.»
Rowan fece una smorfia. Sapeva del rituale di spigolatura di Brahms. Non riusciva a immaginare quanto la sua famiglia avesse dovuto sopportare.
«Gli abbiamo detto che eri stato l’apprendista di una falce. Anche se non eri stato scelto, pensavamo che quello potesse fargli cambiare idea. Non è stato così.»
Non le rivelò che era stato per colpa sua. Avrebbe voluto confessarglielo, ma sapeva che l’avrebbe soltanto confusa e che gli avrebbe fatto altre domande a cui non poteva rispondere. O forse, si stava comportando ancora una volta da codardo.
«Come stanno tutti?»
«Ci facciamo coraggio. Abbiamo di nuovo l’immunità, almeno una piccola consolazione. Mi dispiace che tu non sia venuto. Se ci fossi stato, Maestro Brahms avrebbe concesso l’immunità anche a te.»
A quel pensiero, Rowan fu preso dalla rabbia e tirò un pugno sul cruscotto.
«Attenzione! Ogni comportamento violento e/o atto di vandalismo determinerà l’espulsione dal veicolo» lo avvertì la macchina. Rowan la ignorò.
«Ti prego, torna a casa, Rowan. Ci manchi tanto.»
Strano, non pareva che avessero mai sentito la sua mancanza durante l’apprendistato. In una famiglia numerosa come la sua, probabilmente non avevano nemmeno notato la sua assenza. Una spigolatura però poteva cambiare tutto, rifletté. Le persone colpite da un lutto si sentivano molto più vulnerabili e davano più valore agli altri.
«Non posso tornare a casa. E, per favore, non chiedermi perché, renderesti tutto più difficile. Ma voglio che tu sappia… che tu sappia che vi voglio bene e… e che mi farò sentire appena potrò.» Poi, riagganciò prima che la madre potesse dire altro.
Le lacrime gli offuscarono la vista, e sbatté di nuovo il pugno sul cruscotto, preferendo il dolore fisico alla sofferenza interiore.
La macchina decelerò all’improvviso, e si accostò a un lato della strada. Lo sportello si aprì. «Prego, esca dal veicolo. È espulso per comportamento violento/atto di vandalismo. Le è proibito usare qualsiasi mezzo di trasporto pubblico per sessanta minuti.»
«Dammi un secondo» disse Rowan. Aveva bisogno di riflettere. Aveva due possibilità davanti a sé. Anche se sapeva che la Compagnia stava cercando attivamente di impedire un altro attacco contro Citra e Madame Curie, non credeva che potesse riuscirci. Non che lui avesse più probabilità, ma doveva provarci, lo doveva a Citra. D’altra parte, doveva rimediare al suo errore ed eliminare Maestro Brahms in modo definitivo. Come prima cosa, il suo lato oscuro gli ingiungeva di vendicarsi e di non perdere tempo… ma non gli prestò ascolto. Maestro Brahms sarebbe stato ancora in giro una volta che Citra fosse stata salvata.
«Prego, esca dal veicolo.»
Rowan scese e la macchina ripartì, lasciandolo in mezzo al nulla. Passò la sua ora di penitenza a camminare sul ciglio della strada, chiedendosi se fosse il solo in MidMerica a sentirsi così straziato.
Greyson Tolliver si chiuse nel suo appartamento, aprì le finestre e lasciò entrare il freddo, poi si trascinò a letto, rifugiandosi sotto le coperte pesanti. Quando era più giovane, era quello che faceva se non riusciva a sostenere il fardello del mondo. Spariva sotto il morbido piumone che lo proteggeva dal gelo che lo circondava. Erano anni che non sentiva più il bisogno di rifugiarsi nel suo universo di bambino. Ma ora aveva l’impellente necessità di far sparire il mondo, anche solo per qualche minuto.
Quando era bambino, il Thunderhead gli permetteva di nascondersi per circa una ventina di minuti. Poi, gli parlava con dolcezza. “Greyson, c’è qualcosa che non va? Ti va di raccontarmelo?” E lui puntualmente rispondeva: “No”, ma finiva sempre per dire che cosa lo turbava, e, ogni volta, il Thunderhead lo faceva sentire meglio. Perché lo conosceva più di chiunque altro.
Ma ora che il suo fascicolo era stata cancellato, che il suo vecchio sé era stato rimpiazzato da Slayd Bridger e dalle sue malefatte, il Thunderhead si ricordava ancora di chi era veramente? O anche lui pensava, come il resto del mondo, che fosse solo quello che il suo fascicolo diceva in proposito?
Possibile che il ricordo che il Thunderhead aveva di lui fosse stato sovrascritto? Che destino orribile, se lo stesso Thunderhead lo avesse creduto un losco impenitente che provava piacere a far morire la gente. Avrebbe quasi preferito che gli rimpiazzassero i ricordi. Il Thunderhead poteva trasformarlo in qualcun altro, non solo cambiargli il nome, ma anche l’animo. Slayd Bridger e Greyson Tolliver sarebbero scomparsi per sempre, nemmeno lui si sarebbe ricordato chi erano stati. Sarebbe stato tanto terribile, in fondo?
Decise che per ora il suo destino non era importante. Se ne sarebbe occupato al momento opportuno. Quello che era importante era salvare le due falci… e cercare di proteggere in qualche modo Purity.
E comunque la solitudine lo opprimeva. Mai come allora si era sentito così solo al mondo.
Sapeva che l’appartamento era pieno di telecamere. Il Thunderhead osservava senza giudicare. Guardava tutti i cittadini del mondo con profonda benevolenza, per meglio rispondere ai loro bisogni. Vedeva, sentiva, ricordava. Doveva dunque sapere di Greyson cose che non si trovavano nel suo fascicolo falsificato.
Gettò all’aria le coperte e gridò alla stanza vuota e gelata: «Ci sei? Mi senti? Ricordi chi sono? Chi ero? Ricordi chi stavo diventando prima che tu decidessi che ero “speciale”?».
Non sapeva nemmeno dove fossero le telecamere. Il Thunderhead ci teneva a non interferire troppo nella vita privata della gente, ma Greyson era consapevole che le telecamere erano lì. «Ti ricordi ancora di me, Thunderhead?»
Non ricevette risposta. Non era possibile. Il Thunderhead era ligio alle sue leggi. Slayd Bridger era un losco. Anche se avesse voluto, il Thunderhead non avrebbe potuto rompere il silenzio.