26
Vorresti scuotere l’Olimpo?
«Devo sapere perché lo facciamo» chiese Greyson a Purity, a due giorni dalla loro missione elimina-falci.
«Lo fai per te stesso» gli rispose. «Lo fai perché vuoi incasinare il mondo, come me!»
Quella risposta servì solo ad alimentare la sua rabbia. «Se ci prendono, ci sostituiranno il cervello… lo sai questo, no?»
Lei gli rivolse quel suo solito sorrisetto malizioso. «Il rischio rende tutto più eccitante!»
Avrebbe voluto gridarle in faccia, scuoterla, finché non si fosse accorta di quanto era tutto sbagliato, ma sapeva che l’avrebbe resa solo più sospettosa. E non poteva proprio permettere che sospettasse di lui. La fiducia di Purity era tutto, per quanto fosse completamente immeritata.
«Ascoltami» disse Greyson, con la massima calma possibile. «È evidente che chiunque voglia farci eliminare quelle due falci preferisce mettere in pericolo noi invece di se stesso. Avrò perlomeno il diritto di sapere per chi lo facciamo.»
Purity alzò le mani al cielo e gli girò le spalle. «Che differenza fa? Se ti manca il coraggio, allora lascia stare. Non ho bisogno di te, in fin dei conti.»
Greyson sentì il cuore stringersi, ma cercò di non darlo a vedere.
«Non è che non voglio farlo, ma se non so per conto di chi agisco, vengo usato. Se invece lo so, e lo faccio comunque, sono io che uso chi mi usa.»
Purity ci rifletté su. Il ragionamento non era molto logico, Greyson ne era consapevole, ma contava sul fatto che lei non si basasse su ragionamenti logici. Era interamente in preda all’impulsività e al caos.
Era quello che la rendeva così attraente.
Infine si arrese. «Lavoro per un losco che si chiama Mange.»
«Mange? Vuoi dire il buttafuori del Mault?»
«Lui, sì.»
«Mi prendi in giro? Non è nessuno.»
«Vero. Ma riceve gli incarichi da un altro losco che probabilmente li riceve da qualcun altro. Non capisci, Slayd? È tutto un labirinto di specchi. Nessuno sa chi ci sia all’altro capo, chi proietti il primo riflesso. Allora, o scegli di entrare nella casa degli specchi o te ne vai.» Poi, divenne seria. «Allora, Slayd? Ci stai o no?»
Fece un respiro profondo. Non poteva ottenere altro da lei, non ne sapeva più di lui, e non le importava. Le importava solo per il brivido che poteva ricavarne, per la sfida. A Purity, non importava quale causa servisse, purché servisse anche la sua causa personale.
«Ci sto» disse Greyson, alla fine. «Ci sto. Al cento per cento.»
Lei gli assestò un colpetto gioioso sul braccio. «Tutto quello che posso dirti è che la persona che invia il primo riflesso è dalla tua parte.»
«Dalla mia parte? Che vuoi dire?»
«Chi credi che si sia sbarazzato del tuo irritante agente Nimbus?»
D’istinto, Greyson pensò che fosse una battuta ma, quando la guardò, capì che non lo era. «Di che parli, Purity?»
Lei alzò le spalle come se non avesse importanza. «Ho fatto girare la voce che avevi bisogno di un favore.» Gli si avvicinò e gli sussurrò all’orecchio: «Favore accordato».
Prima che potesse risponderle, lo abbracciò in quel suo modo che gli scioglieva le ossa trasformandolo in gelatina.
Più tardi, ripensando a quella sensazione, ci avrebbe visto come una specie di strana premonizione.
Se Purity era stata implicata nel primo attentato a Madame Curie e Madame Anastasia, non lo aveva detto, e Greyson preferì non chiedere. Se le avesse rivelato che era al corrente del primo attentato, la sua copertura sarebbe saltata.
Per questa missione, solo Mange e Purity conoscevano i dettagli. Mange perché la conduceva, e Purity perché il piano era suo.
«In effetti, l’idea mi è venuta la prima volta che ci siamo incontrati» disse a Greyson, ma non spiegò cosa volesse dire. Avrebbero imprigionato le falci prima di eliminarle? Era questo che intendeva? Finché non fosse stato a conoscenza del piano nei suoi minimi particolari, non avrebbe avuto i mezzi per sabotarlo. E oltretutto, doveva riuscire a sventarlo in un modo che lui e Purity potessero mettersi in salvo, e senza che lei venisse a sapere che era stato lui a mandarlo all’aria.
Alla vigilia dell’evento misterioso, Greyson fece una chiamata anonima agli uffici della Compagnia.
«Domani ci sarà un attentato contro Madame Curie e Madame Anastasia» bisbigliò al telefono, usando un filtro per distorcere la voce. «Prendete tutti i provvedimenti del caso.» Poi, riagganciò e gettò il telefono che aveva rubato per fare la chiamata. Il Thunderhead poteva rintracciare all’istante qualsiasi chiamata, ma la Compagnia non aveva le stesse risorse. Fino a poco tempo prima, le falci erano state una specie senza predatori naturali; ora, stavano ancora cercando il modo di proteggersi dalle aggressioni di cui erano oggetto.
Il mattino dell’evento, Greyson venne a sapere che l’operazione avrebbe avuto luogo in un teatro di Wichita. Si rese conto che lui e Purity facevano parte di una squadra più ampia. Era logico che un’operazione di quella portata non venisse lasciata nelle mani di due loschi discutibili. Invece, era nelle mani di dieci loschi discutibili. A Greyson non avevano mai comunicato i nomi degli altri e, a quanto pareva, lui non era nella lista di quelli che dovevano sapere.
Sapeva comunque alcune cose.
Anche se Purity non aveva idea di chi fossero le persone per cui lavoravano, lo aveva inconsapevolmente messo a parte di qualcosa di un valore inestimabile. Di un’informazione fondamentale. Di una notizia che avrebbe rallegrato parecchio l’agente Traxler.
Che ironia che la spigolatura di Traxler fosse stata la chiave per risalire a quell’informazione fondamentale… perché se Purity era riuscita a organizzare la spigolatura di un agente Nimbus, voleva dire una sola cosa: gli attentati contro Madame Curie e Anastasia non erano il risultato di un’azione civile. A capo dell’operazione doveva esserci una falce.
Madame Anastasia era pronta per lo spettacolo.
Per fortuna, la sua parte era una rapida comparsata. Cesare doveva essere accoltellato da otto cospiratori, di cui lei sarebbe stata l’ultima.
Sette lame erano retrattili e spruzzavano sangue finto. Quella di Citra era autentica, come il sangue che avrebbe sparso.
Con suo grande disappunto, Madame Curie insistette a voler assistere allo spettacolo.
«Per nulla al mondo mi perderei il debutto sulla scena della mia protetta» disse con un sorrisetto, anche se Citra conosceva il vero motivo. Era lo stesso per cui aveva presenziato alle sue due spigolature precedenti: non credeva che Maestro Costantino potesse proteggerla. Quella sera, Maestro Costantino pareva aver perso un pizzico del suo proverbiale distacco. Forse perché aveva dovuto rinunciare alla veste di falce per indossare uno smoking e confondersi tra la folla. Comunque, non aveva abbandonato del tutto la sua immagine pubblica. Il cravattino era dello stesso identico colore rosso sangue della sua veste di falce. Da parte sua, Madame Curie si era rifiutata categoricamente di dismettere la veste color lavanda. Cosa che non faceva altro che inasprire il furore di Costantino.
«Non dovrebbe stare in mezzo al pubblico» la ammonì. «Se proprio vuole restare, dovrà rimanere dietro le quinte!»
«Si calmi! Se Anastasia non è un’esca sufficiente, forse potrei esserlo io» replicò Madame Curie. «E in un teatro affollato, anche se riuscissero a uccidermi, non potrebbero eliminarmi definitivamente. Dovrebbero bruciare l’intero stabile, cosa che, considerando la presenza dei suoi agenti, è molto improbabile.»
Aveva ragione. Cesare poteva anche morire per un colpo di pugnale, le falci no. Lama, proiettile, forza bruta o veleno potevano solo ucciderle temporaneamente. Nel giro di uno o due giorni sarebbero state rianimate, e forse nella loro mente sarebbe rimasto impresso il viso dell’aggressore. In quel caso, una morte temporanea sarebbe stata un’efficace strategia per catturare i responsabili.
Costantino finì per rivelare il motivo del suo nervosismo. «Abbiamo ricevuto una soffiata in base alla quale questa sera ci sarà un attentato contro di voi» annunciò a Madame Curie e a Madame Anastasia, mentre il pubblico iniziava ad affluire in sala.
«Una soffiata? Da chi?» chiese Madame Curie.
«Non lo sappiamo. Ma la prendiamo molto seriamente.»
«Cosa devo fare?» domandò Citra.
«Quello che è venuta a fare. Ma si tenga pronta a difendersi.»
Cesare doveva morire nella prima scena del terzo atto. Nei successivi due atti, il suo fantasma sarebbe tornato a tormentare gli assassini. Anche se un altro attore avrebbe potuto recitare la parte del fantasma, Sir Albin Aldrich riteneva che avrebbe attenuato l’impatto della sua spigolatura. Si decise quindi che lo spettacolo sarebbe finito poco dopo la morte di Cesare, togliendo a un Bruto irritato la sua famosa orazione: “Amici, romani, concittadini, prestatemi orecchio”. Nessuno avrebbe gridato allo sterminio e sguinzagliato i mastini della guerra. Invece, in sala si sarebbero accese le luci, per lo sconcerto del pubblico. Il sipario non si sarebbe chiuso. Il corpo di Cesare sarebbe rimasto sul palco fino all’uscita dell’ultimo spettatore. Nell’istante finale Aldrich sarebbe stato totalmente impossibilitato a recitare.
«Mi può togliere l’immortalità fisica» disse a Madame Anastasia, «ma questa mia ultima esibizione resterà per sempre negli annali del teatro.»
Mentre la sala si riempiva di spettatori, Maestro Costantino le apparve alle spalle mentre aspettava dietro le quinte.
«Non abbia paura. Siamo qui per proteggerla.»
«Non ho paura» replicò lei. In realtà, ne aveva, ma la paura era sopraffatta dalla rabbia di essere stata presa di mira. Aveva anche un po’ di paura del palcoscenico, il che era stupido, lo sapeva, ma non riusciva a liberarsene. Recitare. Che cose orribili doveva sopportare in nome della sua professione.
Nel teatro tutto esaurito erano appostati più di venti agenti in incognito della Suprema Guardia. Il cartellone prometteva al pubblico uno spettacolo mai visto prima su un palcoscenico midmericano, e la gente, sebbene un po’ dubbiosa, ne era comunque incuriosita.
Mentre Madame Anastasia aspettava dietro le quinte, Madame Curie si sedette al suo posto lato corridoio in quinta fila. Trovò la poltrona scomodamente piccola. Lei era alta, e le ginocchia premevano contro lo schienale del posto davanti a lei. I suoi vicini, per la maggior parte, si tenevano stretti i loro libretti, terrorizzati alla prospettiva di dover passare la serata accanto a una falce, che, per quanto potevano immaginare, si trovava lì per spigolare uno di loro. Solo l’uomo che le sedeva di fianco era socievole. Più che socievole, era un gran chiacchierone. Aveva dei baffi a forma di bruco che si contorcevano quando parlava, e Madame Curie dovette sforzarsi per non scoppiargli a ridere in faccia.
«Che onore essere in compagnia della Signora della Morte» disse prima che le luci si spegnessero. «Spero non le dispiaccia se la chiamo così, eccellenza. Sono poche le falci in MidMerica, cosa dico, nel mondo, famose come lei, e non mi sorprende che sia un’estimatrice del teatro dell’era mortale. Solo i più illuminati lo sono!»
Madame Curie si chiese se l’uomo non fosse stato incaricato di assassinarla a colpi di lusinghe.
Madame Anastasia assisteva allo spettacolo da dietro le quinte. In tempi normali, il teatro dell’Era della Mortalità le era stato emotivamente incomprensibile, come alla maggior parte della gente. Le passioni, le paure, i trionfi, i lutti non avevano senso in un mondo senza bisogni, avidità e morte naturale. Ma da quando era falce, era arrivata a comprendere la mortalità meglio di tutti, e di sicuro ora capiva anche l’avidità e la brama di potere. Questi sentimenti, assenti nella maggior parte delle persone, prosperavano in seno alla Compagnia, uscendo dagli angoli bui e riversandosi sempre più nella corrente generale di pensiero.
Si alzò il sipario e lo spettacolo ebbe inizio. Sebbene lo scambio di battute le fosse quasi del tutto incomprensibile, le macchinazioni di potere la ipnotizzarono, ma non abbastanza da farle abbassare la guardia. Ogni movimento, ogni suono che percepiva era come una scossa sismica. Se c’era qualcuno che aveva intenzione di eliminarla, ne avrebbe sentito la presenza prima ancora che potesse entrare in azione.
«Dobbiamo tenere il Thunderhead all’oscuro il più a lungo possibile» disse Purity. «Non deve venire a conoscenza dell’attentato prima che esso si sia compiuto.»
Purity non stava tenendo all’oscuro solo il Thunderhead, ma anche Greyson.
«Hai la tua parte da svolgere, è tutto quello che devi sapere» gli disse, insistendo sul fatto che, meno persone sapevano, meno si rischiava che andasse tutto all’aria.
La parte di Greyson era così semplice da risultare offensiva. Doveva creare un diversivo all’imboccatura di un vicolo accanto al teatro, in un momento specifico. L’obiettivo era attirare l’attenzione di tre telecamere del Thunderhead per creare un angolo morto temporaneo. Mentre le telecamere erano occupate ad appurare le intenzioni di Greyson, Purity e diversi altri membri della squadra sarebbero penetrati furtivamente nel teatro dall’ingresso secondario. Per Greyson, il resto era un mistero.
Se avesse potuto avere la visione d’insieme, se avesse saputo che cosa Purity e la sua squadra andavano a fare lì dentro, avrebbe potuto valutare meglio le sue possibilità di sventare il complotto e di proteggere lei dal fallimento della missione. Ma, senza conoscere il piano, non poteva fare altro che aspettare l’esito e cercare di contenere i danni.
«Sembri nervoso, Slayd» commentò Purity quando uscirono dall’appartamento quella sera. Era armata solo di un telefono sconnesso dalla rete e di un coltello da cucina nascosto sotto il cappotto pesante, di sicuro non con l’intento di usarlo contro le falci, ma contro chiunque avesse trovato sulla sua strada.
«Tu non lo sei?» replicò Greyson.
Lei scosse la testa e sorrise. «Eccitata» rispose. «Ho i brividi dappertutto. Mi piace questa sensazione!»
«Sono solo i tuoi naniti che cercano di abbassare il livello di adrenalina.»
«Mettiamoli alla prova!»
Purity aveva ripetuto a Greyson che se la sarebbe cavata bene, anche se non era stata del tutto sincera, dato che avevano previsto un piano B. «Ricorda, Mange seguirà tutta l’operazione da un tetto» gli aveva detto. «Qualunque sia il diversivo che creerai, dovrà attirare l’attenzione di tutte e tre le telecamere. In caso contrario, Mange ti darà una mano.»
Mange aveva passato quasi un secolo a perfezionarsi nell’arte della fionda. All’inizio, Greyson aveva pensato che avrebbe semplicemente neutralizzato le telecamere se non si fossero messe a seguirlo, ma non gli sarebbe stato possibile, perché il Thunderhead avrebbe subito saputo che c’era qualcosa che non andava. In realtà, il piano B consisteva nel neutralizzare Greyson.
«Se non riesci a farlo da solo, Mange ti sparerà un sassolino di fiume nel cervello» gli aveva detto Purity, con un tono più soddisfatto che dispiaciuto. «Con tutto il sangue e la confusione, di sicuro le telecamere si gireranno verso di te!»
Greyson non ci teneva affatto a essere messo fuori combattimento nel momento cruciale. Non voleva risvegliarsi in un centro di rianimazione qualche giorno dopo e venire a sapere che Madame Curie e Madame Anastasia erano state eliminate.
Lui e Purity si separarono a qualche isolato dal teatro. Greyson proseguì verso la sua destinazione, dove avrebbe dovuto esibirsi davanti alle telecamere del Thunderhead. Se la prese comoda, perché non voleva destare sospetti se, arrivando troppo presto, avesse dovuto aspettare. Si mise a passeggiare nei dintorni cercando di pensare a cosa diamine si accingeva a fare. La gente lo ignorava o lo evitava. Ci era abituato, da quando aveva assunto la sua nuova personalità, ma quella sera non riusciva a evitare di notare gli occhi. Non solo gli occhi dei passanti, ma anche quelli delle telecamere. Erano ovunque. Le telecamere del Thunderhead erano discrete nelle abitazioni e negli uffici, ma per le strade non cercavano di passare inosservate. Ruotavano e oscillavano. Guardavano da una parte e dall’altra. Mettevano a fuoco e ingrandivano. Alcune sembravano fissare il cielo, come se ne fossero in contemplazione. Che effetto poteva fare ricevere tante informazioni tutte insieme ed elaborarle all’istante? Vedere il mondo da un punto di vista che gli umani non potevano nemmeno immaginare?
A un minuto dalla sua manovra diversiva, si girò e tornò verso il teatro. Passando davanti alla veranda di un bar, una telecamera lo puntò. Cercò di distogliere lo sguardo per non incrociare quello del Thunderhead, temendo che lo giudicasse in base ai suoi fallimenti.
Gavin Blodgett si ricordava raramente di ciò che accadeva per strada nel tragitto tra casa e il luogo di lavoro, principalmente perché non accadeva un granché. Lui era, come molti, un abitudinario; conduceva una vita tranquilla e confortevole, che sarebbe forse rimasta immutata nei secoli a venire. Ed era una buona cosa. Dopotutto, le sue giornate erano perfette, le serate piacevoli e faceva bei sogni. Aveva trentadue anni, e ogni anno, per il suo compleanno, si ringiovaniva tornando alla stessa età. Non voleva essere più vecchio. Non voleva essere più giovane. Era nel fiore degli anni, e voleva restarci per sempre. Aborriva tutto ciò che disturbava la sua routine e, quando vide il losco che lo osservava, affrettò il passo per superarlo e proseguire per la sua strada. Ma il losco aveva altri piani.
«Hai qualche problema?» gli chiese il losco, alzando un po’ troppo la voce.
«Nessun problema» rispose Gavin, e fece quello che faceva sempre quando si trovava in una situazione che lo disturbava: sorrise e prese a parlare. «Stavo osservando i tuoi capelli. Non ho mai visto capelli così scuri, è impressionante. E queste sono corna? Non mi sono mai fatto impiantare nulla, certo, ma conosco persone che…»
Il losco lo afferrò per il bavero del cappotto e lo sbatté contro il muro. Non tanto forte da attivare i suoi naniti, ma abbastanza da fargli capire che non l’avrebbe lasciato andare tanto facilmente. «Ti stai prendendo gioco di me?» gridò.
«No, no, affatto! Non mi permetterei mai!» Da una parte Gavin era terrorizzato, ma dall’altra non poteva negare che gli piaceva essere al centro dell’attenzione. Si guardò rapidamente intorno. Era all’angolo di un teatro, all’imbocco di un vicolo. Non c’era nessuno davanti all’edificio, perché lo spettacolo era già iniziato. La strada non era proprio deserta, ma non c’era nessuno nelle vicinanze. Le persone lo avrebbero aiutato, certo. Le persone perbene avrebbero sempre aiutato chiunque fosse stato avvicinato da un losco, e la maggior parte delle persone era perbene.
Il losco lo staccò dal muro, lo agganciò con un piede e lo spinse a terra. «È meglio se chiami aiuto» gli consigliò. «Avanti!»
«A… aiuto» mormorò Gavin.
«Più forte!»
Il poveretto non ebbe bisogno di essere sollecitato ancora. «Aiuto!» gridò, con voce tremante. «AIUTATEMI!»
Delle persone poco distanti lo sentirono. Un uomo si precipitò verso di lui dall’altra parte della strada. Una coppia si affrettò dalla direzione opposta, ma, cosa più importante, dal punto in cui si trovava, Gavin scorse diverse telecamere montate su teloni e lampioni puntare su di lui. “Bene! Il Thunderhead vedrà. Se ne occuperà lui di questo losco.” Probabilmente, stava già inviando sul posto degli ufficiali di pace.
Anche il losco guardò le telecamere. Non pareva esserne disturbato come avrebbe dovuto. Ora Gavin si sentiva incoraggiato dall’occhio protettivo del Thunderhead. «Avanti, vattene» gli disse, «prima che il Thunderhead decida di rimpiazzarti!»
Ma il losco non sembrava ascoltarlo. Stava fissando un punto in fondo al vicolo, dove delle persone stavano scaricando qualcosa da un camion. Gavin lo sentì borbottare, ma pensò di aver colto solo le parole “primo appuntamento” e “acido”. Quel losco stava forse formulando una specie di proposta romantica? Qualcosa che aveva a che fare con degli allucinogeni? Gavin era al tempo stesso terrorizzato e affascinato.
Intanto, i passanti che aveva chiamato perché lo soccorressero erano tutti intorno a lui. Per quanto volesse il loro aiuto, era anche un po’ deluso che fossero arrivati così presto.
«Ehi, che succede qui?» chiese uno di loro.
Il losco rimise in piedi Gavin. Che cosa voleva fare? Voleva colpirlo? Morderlo? I loschi erano imprevedibili. «Lasciami andare» biascicò Gavin. Da una parte sperava che l’aggressore non ascoltasse la sua supplica, invece quello lo lasciò andare, come se all’improvviso avesse perso ogni interesse nel tormentarlo, affrettandosi lungo il vicolo.
«Sta bene?» gli domandò una delle persone perbene che erano accorse in suo aiuto dall’altra parte della strada.
«Sì» disse Gavin. «Sì, sto bene.» E questo fu un po’ deludente.
«Lungi da me! Vorresti scuotere l’Olimpo?»
Quando fu pronunciata quella battuta, il regista gesticolò furiosamente verso Madame Anastasia. «È il segnale, eccellenza» le disse. «Può andare in scena, ora.»
Madame Anastasia lanciò un’occhiata a Maestro Costantino, che nello smoking formale sembrava un assurdo maggiordomo. Lui le fece un cenno con il capo. «Fa’ quello che devi» affermò.
Citra uscì sul palco, lasciando che la veste svolazzasse al suo passaggio per creare un effetto drammatico. Non poteva fare a meno di pensare che indossava un costume. Una tragedia nella tragedia.
Sentì delle esclamazioni di sorpresa tra il pubblico mentre entrava in scena. Non era celebre come Madame Curie, ma la veste convinse tutti che era una falce, e non certo un senatore romano. Era un’intrusa sul palcoscenico, e il pubblico cominciò a capire che cosa sarebbe accaduto. Le esclamazioni si trasformarono in un mormorio sommesso; Citra non riusciva a vedere gli spettatori con le luci puntate sul viso. Sussultò quando Sir Albin pronunciò nella risonante voce di scena la frase: «Cederò ora, se a Bruto non cedei?».
Citra non era mai stata su un palcoscenico prima di allora; non immaginava che le luci fossero così forti e così calde. Davano rilievo alle figure degli attori facendole risaltare in modo netto. Le armature dei centurioni brillavano. Le tuniche di Cesare e dei senatori riflettevano la luce, tanto che gli occhi facevano male.
«Mano, parla per me!» gridò uno degli attori. Poi, i cospiratori estrassero le daghe e si scagliarono contro Cesare per “ucciderlo”.
Madame Anastasia indietreggiò, spettatrice piuttosto che attrice. Passò lo sguardo sul pubblico immerso nella penombra, poi si rese conto che era poco professionale, e riportò l’attenzione sulla scena. In quel momento, uno degli attori le fece segno di avvicinarsi, e anche lei estrasse la daga. Era di acciaio inossidabile, laccata di ceramica nera. Un regalo di Madame Curie. Alla vista di quella lama, il pubblico rumoreggiò. Nell’oscurità, si udirono dei gemiti.
Aldrich, il viso carico di trucco di scena e la tunica coperta di sangue finto, la guardò e le strizzò l’occhio che il pubblico non poteva vedere.
Lei si avvicinò e gli affondò il coltello tra le costole, a destra del cuore. Qualcuno urlò.
«Sir Albin Aldrich» disse ad alta voce. «Sono venuta a spigolarla.»
L’uomo fece una smorfia, ma restò nel suo ruolo.
«Et tu, Brute?» recitò Sir Albin. «E allora cadi, Cesare!»
Citra spostò la lama e gli recise l’aorta. L’uomo scivolò a terra. Esalò l’ultimo respiro e morì, come previsto, come Shakespeare aveva scritto.
Gli spettatori erano sotto shock. Nessuno sapeva cosa fare, come reagire. Qualcuno iniziò ad applaudire. Madame Anastasia capì d’istinto che era Madame Curie, e il pubblico la imitò nervosamente.
E, in quel momento, la tragedia di Shakespeare prese una bruttissima piega.
Acido! Greyson si maledisse per non averlo capito subito. Avrebbe dovuto immaginarlo! Tutti avevano paura di incendi ed esplosioni, dimenticando che un acido abbastanza potente avrebbe potuto mettere fine alla vita di chiunque con altrettanta efficacia. Ma come sarebbero riusciti, Purity e la sua squadra, ad attuare quel piano? Come avrebbero isolato e sopraffatto le falci? Le falci erano padrone di qualsiasi arma, erano capaci di far fuori una sala piena di gente senza procurarsi nemmeno un graffio. Poi, gli venne in mente che non sarebbe stato affatto necessario isolarle. Se la quantità di acido fosse stata sufficiente, e se ci fosse stato un modo per lanciarlo…
Aprì la porta di servizio ed entrò, ritrovandosi in un corridoio stretto su cui si affacciavano i camerini. Sulla destra, le scale scendevano nel seminterrato, e fu lì che trovò Purity e la sua squadra. C’erano tre grandi barili dello stesso Teflon bianco di cui era fatta la bottiglia di vino che avevano servito loro la sera che si erano incontrati. Dovevano contenere almeno quattrocento litri di acido fluoro flerovico! E c’era anche una pompa ad alta pressione già collegata all’impianto idrico che alimentava i sistemi antincendio del teatro.
Purity lo vide subito. «Cosa fai qui? Dovresti essere fuori!»
Capì che l’aveva tradita nel momento stesso in cui incrociò il suo sguardo. La rabbia che emanava era quasi radioattiva. Lo bruciava. Lo inceneriva dall’interno.
«Non ci pensare nemmeno!» ringhiò Purity.
Non ci pensò, infatti. Se ci avesse pensato, avrebbe esitato. Se avesse valutato le possibilità che aveva, avrebbe cambiato idea. Ma aveva una missione, e la sua missione non era quella di Purity.
Corse su per la scala traballante che portava nel dietro le quinte. Se gli erogatori antincendio fossero stati attivati, ci sarebbe voluto un attimo per spargere l’acido dappertutto. Cinque secondi, al massimo dieci, prima che l’acqua nelle tubature venisse espulsa. E, anche se i tubi in rame si fossero sciolti come le sbarre della loro cella, avrebbero retto per un tempo sufficiente a irrorare la pioggia mortale.
Emergendo dal seminterrato, udì il pubblico gridare all’unisono e ne seguì il clamore. Sarebbe salito sul palco, ecco cosa avrebbe fatto. Si sarebbe precipitato sulla scena e avrebbe gridato che stavano per morire tutti sotto una pioggia di acido che li avrebbe letteralmente sciolti, cosa che avrebbe reso impossibile rianimarli. Sarebbero morti tutti: attori, spettatori e falci, se non avessero lasciato subito il teatro.
Alle sue spalle, sentì la squadra di loschi che saliva le scale: Purity e i suoi scagnozzi avevano collegato i barili di acido all’impianto antincendio. Non doveva farsi fermare.
Aveva raggiunto le quinte, a destra del palco. Da dove si trovava, riusciva a scorgere Madame Anastasia sulla scena. Perché era lì? La vide pugnalare uno degli attori, e subito gli fu chiaro che cosa stava facendo.
A un tratto, una figura gli oscurò la visione. Un uomo, magro e alto, in smoking e cravattino rosso sangue. C’era qualcosa di familiare nel viso, ma Greyson non riusciva a ricordare chi fosse.
L’uomo fece scattare quello che sembrava un enorme coltello a serramanico con la lama seghettata… e in quell’istante, capì chi era: non aveva riconosciuto Maestro Costantino senza la sua veste cremisi.
E pareva che nemmeno la falce avesse riconosciuto lui.
«Mi deve ascoltare» lo supplicò Greyson, gli occhi fissi sulla lama. «Da qualche parte nel teatro, qualcuno sta per appiccare un incendio, ma non è questo il problema. Il problema sono gli erogatori antincendio… se si attiveranno, questo posto sarà irrorato di acido, tanto acido da sterminare tutti! Deve far sgombrare il teatro!»
Costantino sorrise; non sembrava per nulla intenzionato a evitare il disastro.
«Greyson Tolliver!» esclamò, riconoscendolo. «Avrei dovuto saperlo.»
Era da molto tempo che nessuno lo chiamava con il suo vero nome. Fu colto di sorpresa, esitò. Non poteva permettersi di fare un passo falso.
«Ti spigolerò con immenso piacere!» annunciò Costantino, e di colpo Greyson si accorse di aver commesso l’errore più grave. C’era una falce dietro quell’attentato. Lo sapeva. Poteva essere Maestro Costantino, l’uomo incaricato dell’indagine, il vero colpevole?
Costantino si lanciò su di lui, la lama pronta a porre fine alla vita di Greyson Tolliver e Slayd Bridger…
… E poi, tutto il suo mondo si capovolse con una tale violenza che fu preso dalle vertigini. Perché, in quel momento, Purity apparve sul palco, brandendo una terribile arma a canne mozze. La sollevò ma, prima che potesse fare fuoco, Costantino gettò a terra Greyson e, a una velocità incredibile, afferrò il fucile. Il colpo partì verso l’alto e Costantino, con un unico movimento fluido le tagliò la gola e le piantò la lama nel cuore.
«No!!!!!» urlò Greyson.
Purity cadde a terra, senza la teatralità del defunto Cesare. Senza pronunciare le sue ultime parole, senza uno sguardo di rassegnazione o di sfida. Un solo istante, ed era morta.
“No, non morta” si rese conto Greyson. “Spigolata.”
Corse da lei. Le prese la testa tra le braccia, per dirle qualcosa da portare con sé nel viaggio verso un altrove che solo gli spigolati conoscevano, ma era troppo tardi.
Arrivò altra gente. Falci in incognito? Guardie? Greyson non lo sapeva. Si sentiva uno spettatore, mentre osservava Costantino impartire gli ordini.
«Impedite che scatenino un incendio» ordinò. «Le tubature idriche collegate agli erogatori sono state sabotate.»
Allora Costantino gli aveva prestato ascolto! Dunque, non faceva parte del complotto!
«Evacuate il pubblico!» gridò, ma gli spettatori non avevano bisogno di sentirselo dire, si stavano già calpestando a vicenda per raggiungere le uscite.
Prima che Costantino riportasse la sua attenzione su di lui, Greyson adagiò dolcemente Purity e corse via. Non poteva farsi sopraffare dal dolore e dall’emozione. Non ancora. Doveva portare a termine la sua missione, e adesso la sua missione era tutto ciò che gli restava. L’acido continuava a essere un pericolo imminente e, anche se le falci parevano aver invaso il teatro e fermato i cospiratori, non sarebbe servito a nulla se l’impianto antincendio si fosse attivato.
Ripercorse lo stretto corridoio dove ricordava di aver visto una vecchia ascia antincendio che si trovava lì dall’Era della Mortalità. Ruppe il vetro della teca in cui era conservata e la staccò dal muro.
Tra il panico generale, Madame Curie non poteva sentire gli avvertimenti di Maestro Costantino. In ogni caso non era importante, sapeva cosa andava fatto: annientare gli aggressori con ogni mezzo necessario. Brandendo un coltello, si preparò a lanciarsi nella battaglia. Non poteva negare di provare piacere a inseguire ed eliminare chi aveva voluto ucciderla. Era un sentimento viscerale e potenzialmente pericoloso, se gli avesse consentito di mettere radici.
Quando si voltò verso l’uscita, vide un losco nell’atrio del teatro. Era armato di pistola e sparava a chiunque incontrasse sul suo cammino. Nell’altra mano aveva una specie di torcia e stava appiccando il fuoco a qualsiasi cosa potesse bruciare. Era quello, allora, il loro piano? Intrappolarli e bruciarli vivi? Si era aspettata di meglio dagli attentatori. Ma forse, dopotutto, non erano altro che una banda di loschi frustrati.
Si arrampicò sugli schienali di due poltrone, per sovrastare il pubblico in fuga. Poi sguainò la daga ed estrasse uno shuriken a tre lame. In una frazione di secondo, prese la mira e lo lanciò con tutta la forza che aveva. Roteò sulle teste del pubblico e andò a conficcarsi nel cranio dell’incendiario. Marie lo vide accasciarsi, lasciando cadere pistola e torcia.
Madame Curie assaporò per un attimo il suo trionfo. L’atrio era in parte già in preda alle fiamme, ma non c’era da preoccuparsi. Nel giro di pochi istanti, l’allarme sarebbe scattato e l’impianto antincendio si sarebbe attivato, spegnendo il fuoco prima che provocasse danni irreparabili.
Citra riconobbe Greyson Tolliver appena lo vide. I capelli, i vestiti e quelle piccole corna alle tempie avrebbero potuto ingannare qualcun altro, ma la corporatura snella e il linguaggio del corpo lo tradivano. E quegli occhi. Uno strano incrocio tra un cervo accecato dai fari di un’auto e un ghiottone sul punto di attaccare. Il ragazzo viveva in uno stato di tensione perenne, tra la lotta e la fuga.
Mentre Costantino impartiva gli ordini ai suoi subordinati, Greyson uscì correndo da un corridoio. Citra impugnava ancora il coltello che aveva usato per spigolare Aldrich. L’avrebbe usato contro Tolliver ma, nonostante lui fosse chiaramente colpevole, era combattuta; per quanto desiderasse mettere fine a quegli attacchi, voleva poterlo guardare negli occhi e sentire la verità dalla sua stessa bocca. Che parte aveva avuto in tutto quello? E perché?
Quando riuscì a raggiungerlo, il ragazzo brandiva niente di meno che un’ascia antincendio.
«Sta’ indietro, Anastasia!» gridò lui.
Era così stupido da illudersi di poter combattere contro di lei con un’ascia? Era una falce, addestrata a maneggiare ogni tipo di arma bianca. Calcolò rapidamente come eliminarlo, e stava appunto per procedere quando il ragazzo fece una cosa inaspettata.
Abbatté l’ascia sulla tubatura che correva lungo il muro.
Maestro Costantino e un ufficiale della Suprema Guardia raggiunsero Anastasia nell’istante in cui l’ascia colpiva la tubatura. Si ruppe subito. La guardia scattò per gettarsi tra Citra e la tubatura spaccata, che ora gli stava spruzzando acqua addosso. Ma in pochi secondi, invece dell’acqua, cominciò a uscire qualcos’altro. L’uomo si accasciò, urlando, con la carne che sfrigolava. Era acido! Acido nelle tubature? Com’era possibile?
Il liquido schizzò sul viso di Maestro Costantino, che gridò di dolore. Schizzò sulla camicia di Greyson, che si sciolse, intaccandogli anche la pelle. Poi, la pressione nella tubatura calò, e lo spruzzo corrosivo si trasformò in un rivolo che divorò il pavimento.
Greyson lasciò cadere l’ascia a terra e si girò, fuggendo lungo il corridoio. Citra non lo inseguì, ma si inginocchiò accanto a Maestro Costantino per aiutarlo: con le mani si copriva gli occhi che non aveva più, perché si erano sciolti, senza lasciare più nulla.
In quel momento, l’allarme risuonò in tutto il teatro, e al di sopra delle fiamme gli erogatori cominciarono a girare a vuoto, rilasciando solo aria.
Greyson Tolliver. Slayd Bridger. Non aveva più idea di chi fosse e di chi volesse essere. Ma non gli importava. Quello che gli importava era che ce l’aveva fatta! Li aveva salvati tutti!
Il dolore al petto era insopportabile, ma solo per poco. Quando fu finalmente fuori dal teatro ed ebbe raggiunto il vicolo, sentì i naniti analgesici attivarsi per lenirgli le terminazioni nervose e lo strano pizzicore dei naniti curativi che si davano da fare per cauterizzare le ferite. I medicamenti che gli circolavano nel sangue gli provocarono un giramento di testa e capì che avrebbe presto perso i sensi. Le ferite non erano così gravi da ucciderlo, nemmeno temporaneamente. Da quel momento, qualunque cosa fosse accaduta, sarebbe sopravvissuto… a meno che Costantino, Curie o Anastasia, o una qualsiasi delle falci presenti in teatro quella sera avessero deciso che si meritava di essere spigolato. Non poteva correre quel rischio. Sentiva che le forze stavano per abbandonarlo e, a tre isolati di distanza, si gettò in un bidone dell’immondizia vuoto, sperando che nessuno lo trovasse.
Perse conoscenza prima di toccarne il fondo.