Gli Emirati Arabi Uniti erano una nazione basata sul commercio e il capitalismo, tuttavia possedevano anche un’anima nera di potenti islamisti, uomini appartenenti a un’età più oscura. Dove queste due caratteristiche si incontravano, dove l’antica barbarie religiosa e il potere del denaro si intrecciavano, si situava la schiera dei benefattori di Riaz Rehan. Si trattava di uomini che godevano di una certa influenza all’interno del governo, con spie nei corridoi del potere e informatori in ogni bastione della vita degli Emirati. Se Rehan aveva bisogno di saperne di più su qualcuno o qualcosa nel Paese, loro potevano accontentarlo all’istante.
In quel modo apprese che il maggiore Mohammed al Darkur e un emigrato britannico con passaporto olandese sarebbero atterrati all’aeroporto internazionale di Dubai alle 9:36 di sera.
Rehan e il suo contingente di guardie del corpo e ufficiali dell’ISI in borghese sarebbero arrivati a Dubai la mattina presto del giorno seguente; il generale pakistano immaginò che al Darkur e la spia inglese fossero in città per ottenere informazioni sul suo conto. L’operazione di al Darkur a Miran Shah, in coincidenza con l’addestramento delle truppe della Jamaat Shariat al campo di Haqqani, poteva significare solo che il giovane maggiore stava indagando su Rehan. Non c’era ragione per cui avrebbe dovuto recarsi a Dubai, se non per un qualche interesse nei vertici della JIM.
Riaz Rehan non era preoccupato per le indagini del maggiore. Al contrario, gli sembrava un’enorme fortuna che quell’uomo e il suo socio fossero diretti a Dubai.
Affrontare il maggiore ficcanaso e l’alleato straniero in Pakistan avrebbe potuto rivelarsi problematico per il generale dell’ISI che non voleva attirare l’attenzione; ma lì a Dubai, Riaz Rehan avrebbe potuto commettere un omicidio e cavarsela.
Embling e al Darkur noleggiarono un’auto per raggiungere la loro suite nell’incredibile Burj Khalifa, l’edificio più alto del mondo. Erano in città per incontrare i membri del Campus, ma per ragioni di sicurezza Gerry Hendley aveva proibito agli agenti di fornire a Embling e al suo sospetto informatore dell’ISI qualsiasi informazione riguardo al loro alloggio a Dubai; al Darkur aveva dunque provveduto di persona a trovare una sistemazione: l’imponente grattacielo a forma di ago con 163 piani abitabili (e un pinnacolo di quarantatré piani sopra di essi). Embling e al Darkur condivisero una suite con due letti al centoottesimo piano.
Ormai Mohammed non si fidava dell’ISI più di quanto facesse Gerry Hendley. Aveva usato una carta di credito personale e gestito i dettagli del viaggio da un computer di un internet cafè di Peshawar per non rivelare alla sua organizzazione i particolari dei suoi spostamenti.
Appena si furono sistemati nel loro appartamento, Embling chiamò il numero che Hendley gli aveva fornito. Lo mise in collegamento con il telefono satellitare di uno dei due agenti del Campus incontrati l’anno prima a Peshawar: il messicano-americano tra i quaranta e i quarantacinque di nome Domingo.
Presero accordi per incontrarsi subito nella suite del Burj Khalifa.
Mentre il volo della Pakistan International Airlines, da Islamabad, su cui viaggiavano Rehan e il suo entourage, atterrava all’aeroporto internazionale di Dubai, Jack Ryan, Dom Caruso e Ding Chavez si trovavano in un ascensore del Burj Khalifa. Non è una coincidenza che gli ascensori dell’edificio più alto del mondo siano anche i più veloci: i tre americani schizzarono in cima al pinnacolo a più di settanta chilometri orari. Furono condotti nella suite e si ritrovarono in un vasto spazio aperto con un salottino di fronte alle pareti finestrate che offrivano il panorama del golfo Persico da un’altezza simile a quella che si godeva dalla cima dell’Empire State Building.
Nigel Embling si trovava nel moderno salotto arredato in legno scuro, metallo e vetro, davanti all’incredibile veduta. Era un inglese alto con capelli sottili, bianchi come la neve, e una folta barba. Indossava un blazer leggermente sgualcito sopra una camicia dal colletto aperto e pantaloni marroni.
«Domingo, amico mio» esclamò Embling in tono cordiale. «Prima di affrontare l’altro disastro che ha colpito la tua organizzazione, permettimi di dirti quanto sia dispiaciuto per la faccenda che ha coinvolto John Clark.»
«Anch’io lo sono, ma si sistemerà tutto» lo rassicurò Chavez.
«Ne sono sicuro.»
«Basta non credere a tutto ciò che si sente in giro» aggiunse Ding.
Embling agitò la mano. «Tutto quello che ho sentito sembra descrivere una comune giornata di lavoro per un uomo che fa il mestiere del signor Clark. Sarò anche un vecchio e rammollito, ma non ho dimenticato come va il mondo.»
Chavez annuì. «Posso presentarti i miei compagni? Jack e Dominic.»
«Signor Embling» salutò Jack stringendo la mano dell’uomo anziano.
Naturalmente l’inglese riconobbe il figlio dell’ex, e forse prossimo, presidente degli Stati Uniti, ma non lo diede a vedere.
Condusse i tre americani dal suo coinquilino, un pakistano dal fisico atletico e la pelle color cannella, che indossava una camicia e jeans neri.
Furono sorpresi nello scoprire che era lui il maggiore dell’ISI. «Mohammed al Darkur, al vostro servizio.» L’uomo affascinante tese la mano a Chavez, che non la strinse.
Tutti e tre gli agenti del Campus ritenevano quell’uomo personalmente responsabile per la scomparsa del loro amico. Mentre Hendley aveva fatto attenzione a non rivelare i suoi sospetti a Embling, Domingo Chavez non sarebbe stato tenero con il figlio di puttana che con ogni probabilità aveva fatto uccidere il suo collega nelle zone selvagge e senza legge delle aree tribali del Pakistan.
«Mi dica, maggiore Darkur, perché non dovrei fracassarle la testa contro la parete?»
Al Darkur rimase sorpreso, ma Embling intervenne. «Domingo, per favore, cerca di capire. Non hai alcun motivo per fidarti di lui, ma spero tu ne abbia qualcuno in più per fidarti di me. Negli ultimi mesi non ho fatto altro che raccogliere informazioni sul maggiore: è una persona a posto, ve lo garantisco.»
Dom Caruso si rivolse all’inglese più anziano: «Be’, io non ti conosco, e ancora meno conosco questo bastardo, ma so cosa ha fatto l’ISI negli ultimi trent’anni; non mi fiderò di questo tipo finché non ritroveremo il nostro compagno».
Ryan non ebbe occasione di sostenere il punto di vista di Caruso, poiché intervenne il pakistano: «Vi capisco, signori. Sono venuto oggi a chiedervi di concedermi qualche giorno per lavorare con i miei contatti nella regione. Se Sam è prigioniero della Rete Haqqani, darò fondo a tutte le mie risorse per farlo liberare, oppure per organizzare una spedizione di recupero».
«Eri con lui quando l’hanno preso?» chiese Chavez.
«Sì, c’ero. Ha combattuto con molto coraggio.»
«Ho saputo che è stato uno scontro infernale.»
«Molti caduti da entrambe le parti» ammise il maggiore al Darkur.
«Ma non posso fare a meno di notare che tu non sei tra quelli passati a miglior vita.»
«Scusami?»
«Dove ti hanno colpito? Hai ferite d’arma da fuoco? Schegge?»
Al Darkur arrossì, abbassando gli occhi. «È stata una situazione caotica. Non mi hanno ferito gravemente, ma gli uomini che avevo accanto sono morti.»
Chavez sbuffò. «Ascolta, maggiore. Né io né la mia organizzazione ci fidiamo di te, ma ci fidiamo del signor Embling. Forse sei riuscito a incantarlo in qualche modo, ma non pensare che il tuo viaggio fin qui riuscirà a incantare anche noi. Saremo colpiti favorevolmente dai risultati, non dalle promesse. Se tu e i tuoi colleghi troverete il nostro uomo, vogliamo essere informati all’istante.»
«E lo sarete, ve lo garantisco. I miei uomini ci stanno già lavorando, mentre alcuni di loro indagano sui collegamenti tra la Rete Haqqani e l’ISI.»
«Anche in questo caso, saranno solo i risultati a impressionarmi.»
«D’accordo. Ma ho una domanda.»
«Riguardo a cosa?»
«So che siete qui a Dubai per sorvegliare il generale Rehan. Il resto della vostra squadra lo sta tenendo d’occhio in questo momento?»
Non c’era nessun «resto» della squadra, ma non lo rivelarono. Chavez prese la parola e rispose: «Fidati, quando verrà a Dubai gli staremo addosso».
Ora Mohammed al Darkur inarcò le sopracciglia. «Mi hanno riferito che è arrivato a Dubai questa mattina. Immaginavo di potervi aiutare a tradurre eventuali conversazioni che avranno luogo nella casa sicura.»
Chavez si scambiò un’occhiata con Ryan e Caruso. I dispositivi di sorveglianza passiva erano spenti nei condotti di aerazione della casa di Rehan. Se l’obiettivo era a Dubai, dovevano tornare al più presto al Kempinski e sorvegliarlo.
Ding annuì con calma. «Abbiamo dei traduttori. La mia squadra sarà informata non appena Rehan arriverà nella sua casa.»
Al Darkur sembrò soddisfatto, e ben presto Chavez e gli altri due lasciarono l’appartamento.
Di fronte agli ascensori, Jack commentò: «Se Rehan è qui, potremmo aver già perso qualcosa di importante».
Chavez concordò. «Sì. Voi due tornate al bungalow e iniziate a lavorarci. Io devo andare all’aeroporto per recuperare l’equipaggiamento in arrivo dagli Stati Uniti, ma prima allontanerò Embling dal maggiore e lo informerò dei dettagli. Ci vediamo al Kempinski tra qualche ora.»
Chavez trascorse tre ore a discutere in una suite del centoottesimo piano. Trascorse la prima in una stanza con Nigel Embling. L’emigrato inglese passò la maggior parte del tempo a riferire tutto ciò che aveva saputo nell’ultimo mese e mezzo su Mohammed al Darkur. Gli altri contatti di Embling all’interno dell’esercito lo avevano convinto che né il Settimo battaglione dello Special Services Group, noto anche con il nome commando Zarrar, con cui al Darkur era schierato, né il Joint Intelligence Bureau, a cui era stato assegnato nell’ISI, fossero governati o influenzati dai radicali islamisti, come invece lo erano molti settori dell’esercito. Inoltre, le azioni dello stesso al Darkur, a capo di un’unità dello SSG contro gruppi di terroristi a Swat Valley e Chital, gli avevano fatto ottenere lodi che l’avrebbero reso un bersaglio dei «barbuti» nell’esercito.
Infine, Embling assicurò a Ding Chavez che lui stesso era stato presente quando Sam Driscoll aveva insistito per partecipare alla missione a Miran Shah. Il maggiore al Darkur si era mostrato contrario alla presenza dell’americano e gli aveva concesso solo controvoglia di accompagnarli.
Ci volle un’ora intera, ma finalmente Chavez si convinse. Trascorse le successive due ore a parlare con al Darkur dell’operazione durante la quale Sam era scomparso. Lo interrogò sul suo staff e i contatti che diceva di stare utilizzando per ottenere informazioni su dove si trovasse l’americano. Infine, intorno a mezzogiorno, Chavez lasciò gli uomini nella loro suite e si diresse all’aeroporto per ritirare il fucile di precisione e il resto dell’attrezzatura portata dal Gulfstream.
Ryan e Caruso tornarono al bungalow del Kempinski Hotel & Residences e attivarono i dispositivi di sorveglianza passiva dall’altra parte della distesa d’acqua: tutte e tre le telecamere si accesero. C’era effettivamente una certa attività nella casa, sebbene in un primo momento nessuna delle telecamere rivelasse la presenza di Rehan. Mentre aspettavano e guardavano i feed delle telecamere sugli schermi dei computer, ascoltando i vari uomini parlare in urdu e camminare tra l’ingresso e la sala principale, chiamarono Rick Bell. Nel Maryland erano passate da poco le due del mattino, ma Rick promise che avrebbe raggiunto la Hendley Associates con un tecnico analista e un madrelingua urdu nel giro di tre quarti d’ora. Ryan e Caruso registrarono tutte le immagini ricevute e l’audio ottenuto fino a quel momento e inviarono il materiale alla base affinché fosse analizzato.
Erano passate le undici del mattino a Dubai, nemmeno due ore dopo che Dom e Jack erano tornati nel bungalow, quando le guardie all’interno della casa furono pervase da un improvviso fermento. Gli uomini si sistemarono le cravatte e presero posizione agli angoli delle stanze; altri comparvero dalla porta principale, portando bagagli. Infine, un uomo alto con la barba curata varcò la soglia. Salutò tutte le guardie, una per una, con un bacio sulla guancia e una stretta di mano, poi lui e un altro uomo, che sembrava un ufficiale di alto livello, entrarono nella stanza principale. Erano assorbiti nella conversazione.
Caruso spiegò: «Quello alto è Rehan. Sembra lo stesso visto al Cairo a settembre».
«Mando una mail a Bell; gli dirò che l’hai riconosciuto.»
«Avrei dovuto sparare a quel bastardo allora.»
Ryan rifletté. La preoccupazione per Sam nel Waziristan e Clark in Europa lo divorava; e suo cugino doveva sentirsi ancora peggio. Un anno prima, il fratello gemello di Dominic era stato ucciso durante un’operazione del Campus in Libia. Il pensiero di perdere altri due colleghi doveva essere quasi insostenibile per Caruso.
«Ci riprenderemo Sam, Dom.»
Dominic annuì distrattamente mentre guardava il traffico dati.
«E Clark se la caverà, oppure resisterà finché mio padre non vincerà le elezioni e potrà sistemare la situazione.»
«Ci sarà molta pressione su tuo padre per spingerlo a non farsi coinvolgere.»
Jack inspirò. «Papà si prenderebbe un proiettile nel petto per John Clark. Non si lascerà fermare da qualche smidollato del Congresso.»
Dom rise e si misero al lavoro.
Poco più tardi Dominic chiamò Ryan al suo punto di osservazione nella camera da letto, dove teneva d’occhio la casa di Rehan con il telescopio. «Ehi, sembra che stiano uscendo tutti.»
«Quel bastardo è molto impegnato, vero?» osservò Ryan mentre tornava a guardare il monitor.
Rehan si era tolto la giacca del completo che indossava all’arrivo; ora portava una semplice camicia bianca e pantaloni neri eleganti. Lui e l’uomo che sembrava il suo secondo ufficiale erano tornati nella sala con un gruppo di circa otto uomini, la maggior parte del corpo di guardia arrivato con loro dal Pakistan e un paio di facce che Ryan riconobbe come abituali frequentatori della casa.
L’audio era buono, Dominic e Ryan potevano sentire ogni parola, ma nessuno di loro parlava urdu: avrebbero dovuto attendere che il traduttore di West Odenton, nel Maryland, traducesse la conversazione per capire cosa stesse succedendo.
Qualche secondo più tardi, Rehan e un gruppo di suoi uomini uscirono dalla porta principale.
«Per ora lo spettacolo è finito, immagino» commentò Dom. «Mi faccio un panino.»
Venti minuti dopo che Domingo Chavez aveva lasciato la suite di Embling e al Darkur, bussarono alla porta. Il maggiore pakistano era al telefono con i suoi uomini di Peshawar, perciò toccò a Embling andare ad aprire. Il servizio di sicurezza non avrebbe fatto accedere nessuno su quel piano di residenze private senza il permesso di un inquilino; pertanto non era preoccupato di eventuali minacce. Guardando dallo spioncino, vide un cameriere in smoking nero con in mano un secchiello per il ghiaccio e dentro una bottiglia di champagne.
«Posso aiutarla?» chiese senza aprire la porta. Poi aggiunse tra sé: «Liberandola del peso di quella deliziosa bottiglia di Dom Pérignon?».
«Un omaggio della direzione, signore. Benvenuto a Dubai.»
Embling sorrise, aprì la porta e solo in quell’istante vide gli altri uomini precipitarsi lungo il corridoio. Fece per richiudere la porta, ma il cameriere, gettato il secchiello da una parte, estrasse una pistola automatica Steyr, puntandogliela alla fronte.
Lui non si mosse.
Dal lato della porta, nascosto alla vista dello spioncino, comparve il generale Riaz Rehan, della Joint Intelligence Miscellaneous. Reggeva anche lui una piccola pistola automatica.
«Eh, già, inglese» aggiunse. «Benvenuto a Dubai.»
Altri nove uomini fecero irruzione nell’appartamento, passando accanto a Nigel, minacciandolo con le pistole spianate.