71

Priva del suo capo, la squadra di sicurezza di kazaki non aveva la minima possibilità di sopravvivere.

I terroristi della Jamaat Shariat assaltarono il cancello principale alle 8:54 del mattino, sotto la neve che cadeva copiosa. Uccisero quattro guardie appostate in quel punto e distrussero tre camion pieni di uomini armati di lanciarazzi, prima ancora che i kazaki potessero sparare un singolo colpo.

La nevicata divenne meno intensa mentre i sei veicoli daghestani – quattro pick-up con a bordo sei uomini ciascuno e due semirimorchi, ognuno con un container e altri sei uomini – si separavano a un incrocio vicino al centro di controllo dei lanci. Uno dei pick-up si avviò verso l’impianto per catturare i sedici stranieri che lavoravano per le tre aziende che avevano commissionato i lanci. I due semirimorchi si diressero verso le tre piattaforme di lancio insieme all’altro pick-up, che apriva la strada. Un’unità di sei uomini rimase allo svincolo dalla strada che conduceva ai Dnepr: scesero dai veicoli e si appostarono in un basso bunker di cemento, un ex posto di guardia dei militari russi, ora mezzo seppellito nelle lande innevate della steppa. In quel punto posizionarono i lanciarazzi e i fucili di precisione, esaminando la strada, pronti a sparare su qualunque veicolo fosse comparso in lontananza.

Le restanti due squadre da sei uomini guidarono fino al LCC, dove incontrarono una forte resistenza. C’erano una decina di uomini della sicurezza, che uccisero cinque dei dodici assalitori prima di essere sopraffatti. Diverse guardie gettarono le armi e alzarono le mani, ma i daghestani li uccisero comunque.

La risposta dei kazaki all’attacco fu terribilmente scoordinata dopo la scomparsa del loro leader. Dagli alloggi nelle vicinanze non giunse un contrattacco per almeno venticinque minuti; quando spararono una granata, mancando il primo camion in avvicinamento allo svincolo, si voltarono per rivalutare la loro strategia.

Nel LCC i civili si rifugiarono al secondo piano mentre fuori infuriava l’attacco. Quando il fragore delle esecuzioni cessò e tutti gli ingegneri spaziali russi sedettero singhiozzando, piangendo e imprecando, Georgij Safronov scese dalle scale. I suoi amici e dipendenti lo chiamarono, ma li ignorò e aprì la porta.

Le forze della Jamaat Shariat si impadronirono del centro di controllo dei lanci senza bisogno di sparare un altro colpo.

Ordinarono a tutti i presenti di spostarsi nella sala di controllo, dove Georgij fece un annuncio.

«Se farete quanto vi dico, verrete risparmiati. Rifiutatevi di obbedire anche una sola volta e morirete.»

Gli uomini, i suoi uomini, lo guardarono con gli occhi sgranati, stupefatti. Uno dei combattenti, appostati vicino all’uscita d’emergenza, alzò il fucile in aria. «Allahu Akbar!»

Tutti i presenti si unirono al coro.

Georgij Safronov era raggiante. Ora era al comando.

Le prime persone all’esterno del cosmodromo a sapere dell’attacco di Baikonur furono i tedeschi di Darmstadt, nello European Space Operations Center, l’impianto incaricato di direzionare i satelliti una volta in orbita. Erano nel mezzo di un collegamento video precedente al volo con il centro di controllo dei lanci, per cui assistettero al fuggi fuggi degli impiegati del LCC per mettersi in salvo. Poco dopo li videro tornare, con terroristi armati dietro di loro, e poi il presidente della Kosmos Space Flight Corporation, Georgij Safronov, entrare per ultimo.

Portava in spalla un AK-47 e aveva indosso una mimetica da neve.

Appena irruppe nella stanza interruppe il traffico dati con l’ESOC.

La stanza di controllo del LCC dei Dnepr non avrebbe impressionato nessuno abituato ai filmati e ai programmi televisivi del Kennedy Space Center, negli Stati Uniti, dove si trovava un enorme anfiteatro con giganteschi display sulle pareti e decine di scienziati, ingegneri e astronauti al lavoro sugli schermi piatti.

I razzi Dnepr erano lanciati e monitorati da una stanza simile a un’aula di un college qualsiasi; c’erano posti a sedere per trenta persone ai lunghi tavoli di pannelli di controllo e computer. Di fronte a tutti c’erano due grandi – ma di certo non enormi – display sulle pareti: uno mostrava le informazioni della telemetria e un altro un’immagine in tempo reale del coperchio chiuso del silo al sito 109, in cui si trovava il primo dei tre Dnepr che sarebbero dovuti partire nelle successive quaranta ore.

La neve turbinava intorno alla base; otto uomini armati, con i fucili e le mimetiche bianche e grigie si erano posizionati sulle basse torri e le gru da ogni parte della piattaforma, tenendo d’occhio senza sosta la steppa innevata.

Safronov aveva trascorso l’ultima ora parlando al telefono e al walkie-talkie con il direttore tecnico dello stabilimento, spiegando con esattezza cosa avrebbe dovuto fare per ogni lancio. Quando l’uomo protestò, rifiutandosi di soddisfare i desideri di Safronov, Georgij ordinò l’esecuzione di un dipendente del suo staff. Dopo la morte del collega, il direttore non si era più opposto agli ordini di Georgij.

«Interrompete il traffico dati del 109» comandò Safronov; lo schermo di fronte agli uomini nel LCC diventò nero.

Non voleva che gli uomini nella stanza insieme a lui sapessero quale dei silos contenesse le bombe e in quale razzo si trovasse il satellite restante.

Ora Georgij stava per spiegare ogni cosa allo staff del centro di controllo.

«Dov’è Aleksandr?» chiese Maxim Ežov, vicedirettore dei lanci della Kosmos, il primo uomo a essere abbastanza coraggioso da parlare.

«L’ho ucciso, Maxim. Non volevo farlo, ma la mia missione lo richiedeva.»

Tutti si limitavano a guardarlo, mentre li ragguagliava. «Stiamo posizionando nuovi carichi all’interno dei missili. Quest’operazione sarà svolta nei siti di lancio. I miei uomini stanno supervisionando la procedura e il direttore tecnico dell’impianto di elaborazione sta contribuendo insieme alla sua squadra. Appena mi comunicherà che ha terminato il lavoro, andrò a controllare nei silos. Se avrà fatto quanto gli ho ordinato, lui e tutto il suo staff saranno liberi di andarsene.»

La squadra di lancio fissò il presidente della Kosmos Space Flight Corporation.

«Non mi credete, vero?»

Alcuni scossero la testa.

«Me l’aspettavo. Signori, mi conoscete da tanti anni. Sono un uomo cattivo?»

«No» rispose uno di loro, con voce speranzosa.

«No di certo. Sono un uomo pragmatico, efficiente, intelligente?»

Tutti annuirono.

«Grazie. Voglio dimostrarvi che vi darò ciò che volete, se voi farete lo stesso con me.» Safronov sollevò il walkie-talkie. «Lasciate andare ogni russo o kazako rimasto all’impianto di elaborazione. Potranno prendere le loro auto personali, naturalmente. Mi dispiace ma gli autobus dovranno restare qui. Ci sono molte più persone qui a cui servirà un mezzo di trasporto quando tutto questo sarà finito.» Si accertò che i suoi subordinati avessero ricevuto l’ordine, poi proseguì: «E per favore, dite a tutti di chiamare il nostro centralino quando saranno fuori dalla base per far sapere ai loro amici del LCC che non è stato un bluff. Non desidero fare del male a nessun altro. Gli uomini del cosmodromo sono miei amici».

Il personale del centro di controllo dei lanci si rilassò. Georgij si sentiva magnanimo. «Vedete? Fate come vi dico e potrete rivedere le vostre famiglie.»

«Cosa dobbiamo fare?» chiese Ežov. Era diventato il leader degli ostaggi al controllo dei lanci.

«Ciò che avreste dovuto fare comunque. Preparerete la partenza dei tre razzi.»

Nessuno chiese cosa stesse accadendo, ma alcuni avevano dei sospetti su cosa stesse per essere caricato sui loro veicoli spaziali.

Safronov era proprio come aveva detto: un uomo efficiente e pragmatico. Permise allo staff dell’impianto di elaborazione di andarsene perché non aveva più bisogno di loro, mentre gli servivano le truppe di stanza in quella sezione nel silos di lancio, che doveva essere protetto dalle Specnaz. E inoltre sapeva che con quella dimostrazione di buona fede il personale del reparto avrebbe eseguito gli ordini con più facilità.

Quando non gli sarebbero più serviti, tuttavia, non avrebbe avuto più alcun motivo di lasciarli in vita. Li avrebbe uccisi per dare una lezione agli infedeli moscoviti.

L’ESOC riferì dell’attacco, tra gli altri, al suo equivalente di Mosca, e questi riferirono al Cremlino. Dopo un’ora di discussione al telefono, fu stabilito un collegamento diretto tra la base spaziale e il Cremlino. Safronov si ritrovò nella sala di controllo dei lanci con l’auricolare, a conversare con Vladimir Gamov, il direttore dell’Agenzia spaziale federale russa, che era al Cremlino in un centro di crisi organizzato in fretta e furia. I due uomini si conoscevano da una vita.

«Cosa succede lì, Georgij Michailovič?»

«Puoi chiamarmi Magomed Dagestani.» Mohammed il daghestano.

Dall’altro capo del filo Safronov sentì qualcuno mormorare: «Sukin syn». Figlio di puttana. Lo fece sorridere. In quel preciso istante tutti al Cremlino stavano cominciando a capire che i tre razzi Dnepr erano nelle mani dei separatisti del nord del Caucaso.

«Perché, Georgij?»

«Sei troppo stupido per capire cosa ti sto dicendo?»

«Aiutami a comprendere.»

«Non sono russo, sono un daghestano.»

«Ma non è vero! Conosco tuo padre dai tempi di San Pietroburgo. Da quando eri un bambino!»

«Ma hai incontrato il mio padre adottivo, io in realtà ho genitori daghestani. Musulmani! Tutta la mia vita è stata una bugia. Un errore a cui ora porrò rimedio!»

Ci fu una lunga pausa. In sottofondo si udì un mormorio. Il direttore tentò un approccio diverso. «Ci hanno riferito che hai settanta ostaggi.»

«Non è esatto. Ho già liberato undici uomini e ne libererò altri quindici appena ritorneranno dai silos, al massimo tra mezz’ora.»

«I silos? Cosa stai facendo ai razzi?»

«Vi sto minacciando di inviarli contro obiettivi russi.»

«Sono veicoli spaziali. Come farai a…»

«Prima di essere navi spaziali erano R-36. Missili balistici intercontinentali. Li ho riportati agli antichi fasti.»

«Gli R-36 trasportavano armi nucleari, non satelliti, Safronov.»

Georgij tacque per un lungo istante. «Esatto. Avrei dovuto essere più accurato nelle mie parole. Ho riportato due di quegli esemplari alla loro antica gloria. Il terzo non ha una testata, ma è comunque un potente missile cinetico.»

«Cosa stai dicendo?»

«Ancora non capisci? Ho due bombe nucleari da venti chilotoni caricate negli Space Head Module di due dei tre Dnepr-1 pronti al lancio. I missili sono nei silos, e io mi trovo nella sala di controllo. Le armi, le chiamo armi perché non sono più semplici razzi, sono puntate contro centri abitati della Russia.»

«Le armi di cui stai parlando…»

«Sì, sono quelle scomparse dal Pakistan. Io e i miei combattenti mujaheddin le abbiamo rubate.»

«Secondo le nostre informazioni dal Pakistan le armi non possono detonare nel loro stato attuale. Stai bluffando. Se anche fossi in possesso delle bombe, non potresti usarle.»

Safronov se l’era aspettato. I russi, del resto, mostravano una considerazione molto scarsa della sua gente. Si sarebbe stupito del contrario.

«Tra cinque minuti manderò una mail direttamente a te e ai vicedirettori della tua agenzia, vale a dire uomini più intelligenti di te. Nel file che invierò troverete la sequenza di decrittazione usata per attivare le testate delle bombe. Mostratela ai vostri esperti nucleari. Ne confermeranno l’accuratezza. Nel file troverete anche fotografie digitali degli altimetri che abbiamo rubato alla fabbrica di armamenti di Wah Cantonment. Fateli visionare ai vostri esperti di materiale bellico. E infine troverete i tracciati delle rotte dei razzi Dnepr, nel caso non crediate che possa far dirigere le bombe dovunque io voglia. I vostri ingegneri spaziali trascorreranno il resto della giornata a fare calcoli, ma alla fine capiranno.»

Safronov non sapeva se i russi gli credessero. Si sarebbe aspettato altre domande, ma invece il direttore dell’Agenzia spaziale federale russa si limitò a chiedere: «Quali sono le tue richieste?».

«Voglio le prove che l’eroe della rivoluzione daghestana, Israpil Nabiyev, sia vivo. Se me le fornirai, rilascerò diversi ostaggi. Quando libererete il comandante Nabiyev e lo manderete qui, rilascerò tutti gli altri tranne una ristretta squadra di tecnici. Appena rimuoverete tutte le forze russe dal Caucaso, disattiverò uno dei Dnepr con la testata nucleare. E quando io, il comandante Nabiyev e i miei uomini avremo lasciato la zona in tutta sicurezza, abbandonerò i controlli dell’altra arma. La situazione in cui vi trovate può essere risolta nel giro di qualche giorno.»

«Dovrò discuterne con…»

«Puoi discuterne con chi vuoi. Ma ricorda questo. Qui ci sono sedici prigionieri stranieri. Sei sono americani, cinque inglesi e cinque giapponesi. Se entro domani mattina alle nove non mi farete parlare con Nabiyev inizierò a giustiziarli. Poi lancerò i missili, a meno che la Russia non lasci il Caucaso entro settantadue ore. Dobryj den’.» Buon pomeriggio.

Inizio


Il giorno del falco
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