Caruso sfondò la porta con un calcio e Ryan gettò la granata stordente nell’ingresso, restando alla sinistra della soglia, fuori dalla linea di tiro degli occupanti dell’edificio.
Boom!
I quattro si fiondarono all’interno; Dom e Ryan andarono a destra e Ding e Mohammed a sinistra, costeggiando il muro. Usarono le torce montate sulle loro armi per illuminare una stanza ampia e buia. Quasi all’istante, Dominic vide un movimento da una porta sulla destra. Vi puntò la luce, illuminando il metallo di un fucile, e sparò una scarica di dieci pallottole verso quel punto.
Un uomo con la barba, crivellato dai colpi, cadde accanto a un tavolo di legno, mentre il kalashnikov gli scivolava dalle mani.
Dietro di loro, nel cortile, riecheggiavano gli spari di armi da fuoco. Non si trattava delle armi montate sul Puma. No, erano gli AK delle guardie del complesso. Erano sempre più numerosi; gli uomini degli alloggi dovevano essere usciti e con ogni probabilità stavano cercando di abbattere gli elicotteri o dirigendosi verso l’edificio principale. Forse entrambe le cose.
Chavez, Caruso, Ryan e al Darkur avanzarono in una colonna tattica, percorrendo un basso corridoio e perlustrando qualche stanza a destra e a sinistra mentre procedevano; impiegarono la «wall-flood strategy», la stessa tecnica che avevano usato per irrompere nella prima stanza. Avevano sfondato una porta, erano entrati in fretta con le armi spianate e le torce accese; il primo e il terzo si erano spostati verso la parete di sinistra, mentre il secondo e il quarto erano andati a destra.
Dopo la terza stanza vuota, tornarono nel corridoio e Mohammed al Darkur sbarrò la strada a due uomini che tentavano di entrare dalla porta principale. Poi si inginocchiò tenendo l’arma puntata contro la soglia da cui sarebbero entrati gli uomini accorsi dagli alloggi.
«Proseguite! Li terrò a bada io!»
Chavez si voltò, con Ryan e Caruso che gli stavano alle costole.
Ripresero ad avanzare; Ding sparò a un uomo armato che si stava ritraendo lungo una scala alla loro sinistra, poi si inginocchiò per ricaricare. Sulla destra c’era un’altra scala di pietra, che conduceva a un seminterrato immerso nell’oscurità.
All’esterno, le forti esplosioni dei lanciarazzi si confondevano con i proiettili delle armi di piccolo calibro.
Domingo si rivolse agli altri, gridando sopra il rumore del fucile di al Darkur. «Non abbiamo tempo! Io controllo al piano superiore, voi andate giù! Ci ritroviamo qui, ma fate attenzione al fuoco amico!»
Detto ciò, Chavez si affrettò a salire, scomparendo dalla vista.
Caruso scese per primo nel seminterrato, con prudenza, illuminando i gradini davanti a lui. Non era arrivato neanche a metà degli scalini di pietra irregolari, quando un fucile di fronte a loro sparò.
Caruso indietreggiò ma si scontrò con Ryan. Entrambi caddero in avanti, resi impacciati dai loro zaini con l’attrezzatura.
Il nemico continuava a sparare. Ryan si ritrovò sopra Caruso e immobilizzava involontariamente il cugino. Si sollevò in ginocchio, mirò in modo frettoloso in direzione dei lampi davanti a lui e scaricò venti proiettili contro il nemico.
Poi, sopra all’eco dei colpi che gli fischiavano ancora nelle orecchie, sentì il rumore metallico delle sue munizioni che rimbalzavano contro le pareti di pietra. Poi udì il tonfo sordo di un fucile che cadeva sul pavimento davanti a lui. Illuminò il punto con la torcia e vide un talebano accasciato contro il muro a un angolo del corridoio del seminterrato.
«Stai bene, Dom?»
«Togliti di dosso.»
«Scusa.» Ryan si scostò e si rimise in piedi. Anche Dom si alzò, poi lo coprì mentre Jack ricaricava il P90.
«Muoviamoci.»
Riuscirono ad arrivare all’angolo e a sbirciare dall’altra parte. Di fronte a loro c’era un’unica stanza, alla fine del corridoio. All’interno era buio, ma non lo restò a lungo.
Il fuoco di due AK esplose inviando una pioggia di scintille lungo il corridoio verso gli americani, mentre i proiettili schizzavano sulle pareti.
Dom e Jack si misero al riparo.
«Pare che siamo arrivati alla prigione.»
«Già» concordò Ryan.
Le guardie forse erano soltanto due, ma godevano di una buona postazione alla fine del corridoio. In più avevano un altro vantaggio. Jack e Dom non avevano idea di cosa ci fosse dall’altro lato della porta. Per quanto ne sapevano, sparando nel corridoio d’argilla, dentro la stanza, avrebbero potuto far rimbalzare una scheggia e colpire l’uomo che erano venuti a salvare.
«Forse è meglio chiamare Chavez e poi tornare qui?» chiese Ryan.
«Non c’è tempo. Dobbiamo entrare là dentro.»
Rifletterono per un momento. Poi Jack ebbe un’idea: «Ascoltami, prendo un nine banger e lo lancio a breve distanza, appena fuori dalla porta. Appena sentiamo la prima esplosione, corriamo».
«Verso la granata?» chiese Caruso incredulo.
«Sì, maledizione! Ci copriremo gli occhi. Quando arriviamo a metà del corridoio farai rotolare una flashbang; dovrebbe tenerli a bada finché non saremo entrati. Dovremo essere ben sincronizzati, ma questo dovrebbe bastare a stordirli per bene.»
Dom annuì. «Non ho idee migliori. Ma lasciamo qui il fucile, andiamo solo con le pistole. Ci muoveremo meglio e non rischieremo di colpire Sam uscendo dalla porta.»
I due giovani si sfilarono le cinghie dei fucili, poi presero le granate dalle tasche che avevano sul petto. Ryan impugnò la pistola e rimosse la spoletta della bomba.
Dom si spostò accanto a lui, all’angolo. Diede a suo cugino una pacca sulla spalla. «Non arretriamo. Quando inizieremo a muoverci verso la loro posizione, non potremo fermarci né voltarci indietro. L’unica possibilità sarà proseguire.»
«Ricevuto» fece Jack, lanciando la granata lateralmente, oltre l’angolo buio.
Dopo un paio di tintinnii metallici sulla pietra, le esplosioni e i lampi scossero il corridoio e gli uomini che erano alla sua estremità. Dom scattò per i dodici metri della linea di fuoco dei nemici, facendo scivolare la sua flashbang in fondo alla stanza come una palla da bowling, attraverso i lampi e il fumo del nine banger di Jack.
Insieme, Caruso e Ryan corsero verso l’obiettivo riparandosi gli occhi dalle esplosioni.
I due carcerieri avevano abbassato la testa nella piccola stanza per proteggersi da quello che pensavano essere un diversivo di poco conto. Ma nel momento in cui l’ultima esplosione terminò e si prepararono a tornare a sparare lungo il corridoio, una grossa scatola metallica rimbalzò tra loro nella stanza.
Fissarono entrambi la flashbang che esplose, rimbombando nel loro cranio e dilatando le loro pupille accecate.
Jack si fiondò nella stanza, ma fu travolto dagli effetti stordenti della granata di Dom. Oltrepassò in fretta i due uomini, caduti a terra sui due lati della soglia, e si scontrò con le sbarre di metallo della prima cella senza riuscire a fermarsi per tempo.
«Maledizione!» gridò, mezzo accecato e assordato, almeno per qualche secondo.
Ma Dominic arrivò dietro di lui; il corpo di Jack l’aveva riparato da gran parte della luce e del fragore, dunque l’ex agente dell’FBI era più lucido del cugino.
Sparò a entrambi i combattenti di Haqqani, disorientati e inginocchiati a terra, piantando a entrambi un proiettile nella nuca.
«Sono qui!» gridò Sam. La sua cella era soltanto a pochi metri da Ryan, ma lui riuscì appena a sentire la sua voce.
Ryan illuminò l’ambiente con la torcia. Nella prima cella un pashtun era accasciato contro il muro; sul pavimento della seconda c’era un biondo dalla pelle bianca e l’aria malata.
Ryan puntò il raggio nell’angolo. Nell’ultima cella, Sam Driscoll sedeva a cavalcioni di un combattente di Haqqani morto: l’americano gli aveva spezzato il collo a mani nude.
«Stai bene?»
Sam distolse lo sguardo dall’uomo che giaceva sotto di lui, quello che avrebbe voluto usare il prigioniero come scudo umano, e guardò i suoi due colleghi. «State giocando ai soldati?»