Maria Addolorata

"Nun vuleva proprie murì mammà."

"Eh, propri'essa."

"Ma pecché, 'nu chirurgo s'addiverte a s'opera', secondo te?"

Mammà era morta a centouno anni, ed era la capintesta di un impero delle pompe funebri. Un'impresa fondata dal nonno, ampliata dal padre, e resa impero da lei.

Fino a qualche decennio prima mammà assomigliava a un incrocio tra Moira Orfei e Angela Luce: colori sgargianti, unghie lunghe laccate, capelli di un nero lucente quanto inesistente in natura. Sempre truccata, le sopracciglia irrobustite con la matita blu.

Era stata una bella donna, carnale, di quelle che fanno sangue, col culo e le tette grossi. Culo e tette che aveva messo sempre ben in risalto, finché era stato possibile e anche un po' oltre.

Era la regina dei funerali. Nonostante il suo discutibile gusto nell'abbigliamento e nel maquillage, sapeva dosare alla perfezione ogni elemento funebre. Era la più brava. Era capace della più sobria delle esequie, così come della più pacchiana. Sapeva fornire servizi funerari di ogni prezzo, andava incontro ai più poveri e si sbizzarriva con i più ricchi.

Mammà - che poi si chiamava Maria Addolorata - non era tipo da fare regali. Per lei era una questione di dignità -del cliente prima ancora che propria - oltre che di spirito imprenditoriale. Non faceva sconti, ma sapeva come offrire un servizio funerario impeccabile per ogni cifra, anche quando la cifra a disposizione era assai limitata. Così, quando si presentò in agenzia un uomo con poche possibilità ma un grande desiderio di organizzare un addio dignitoso per la moglie, Maria Addolorata non fece una piega.

Un funerale discreto e semplice, ma curato sin nei dettagli, luminoso e fragrante. Fu una questione di fiori, soprattutto. I fiori cambiano il volto di una funzione. Fresie economiche, colorate e odorose. Consigliò anche la chiesa, invasa dal sole all'ora delle esequie. Quando non si poteva con il denaro, si poteva con la natura.

Il risultato fu un'atmosfera tanto lieve da sollevare l'anima.

Se Maria Addolorata poteva orgogliosamente affermare di aver sempre raggiunto il suo obiettivo, la ragione risiedeva sì nel suo intuito, ma anche nel fatto che mai nessuna sua funzione era uguale a un'altra. A ogni cliente il suo funerale.

Assisteva spesso alle sue cerimonie. Lei diceva che era per controllare che tutto andasse come previsto - il che era vero; ma più che altro era perché ad alcuni si affezionava. La gratitudine di quelle famiglie le lasciava addosso un piacevole senso di soddisfazione. Soddisfazione che a volte persino lei rischiò di non ottenere.

Ad aver bisogno delle sue capacità fu una ricca signora; nel senso che la ricca signora era la morta. Qualunque circostanza può aiutare a far bene il proprio lavoro: se si fossero incontrate in sede, Maria Addolorata avrebbe fallito. O meglio, avrebbe ugualmente organizzato un funerale perfetto, ma non per la defunta. La figlia era raffinata, vestita in maniera impeccabile, ma anche essenziale e dinamica ("Mi chiamo Elisabetta Moroni, mia madre è morta. So che lei è la più brava. Le sarebbe possibile raggiungermi per definire i dettagli?" aveva detto concisa e sicura, quando aveva chiamato). La casa della madre era vecchia e pomposa. Grandi vassoi smaltati - decorati con motivi floreali, scene di caccia o riproduzioni di uccelli - erano appoggiati su tavolini bassi o treppiedi, e distribuiti un po' dappertutto nei grandi salotti. Alle pareti quadri e specchi antichi, ai quali il tempo aveva mangiato l'argentatura e che non specchiavano quasi più.

"Questi figli," pensò con disappunto Maria Addolorata, infastidita all'idea di essere stata sul punto di sbagliare sceneggiatura. Lei amava i suoi figli, ma pensava che rispetto a lei fossero delle nullità. Le nuove generazioni le sembravano molto meno solide della sua, e i giovani tutti dei gran presuntuosi ("Ciucci e presuntuosi") senza valori.

Maria Addolorata fu invitata ad accomodarsi su uno spazioso divano panna, con grandi e sbiaditi fiori color ruggine. Elisabetta Moroni le si sedette di fronte, su una poltrona di velluto, pure quella color ruggine, e si mise in braccio un cuscino bordato di passamaneria, che per un attimo riportò alla mente di Maria Addolorata il proprio debutto in quel mestiere. La sua collaborazione con l'azienda di famiglia era cominciata con un'intuizione geniale.

La defunta alla quale stava lavorando suo padre era una giovane donna, morta di cancro. Non aveva i capelli, e il marito non riusciva a sopportare di vederla in quello stato, però voleva tenere la bara aperta durante la messa. Il pensiero che venisse chiusa lì dentro per sempre - aveva detto - era troppo atroce, e voleva ritardare quel momento il più possibile. Una parrucca era improponibile. Si rischiava il ridicolo. Il papà di Maria Addolorata non sapeva dove mettere le mani, e lei suggerì di usare un cuscino ricamato. Decori dorati magari, le cui volute avrebbero fatto da cornice al viso smunto e sfatto, ravvivandolo almeno un po'. Al padre la soluzione apparve un po' azzardata, ma confortò invece il vedovo.

Un altro paio di pensate indovinate, e il via alla sua collaborazione stabile nell'impresa di famiglia fu ufficiale. Impresa della quale si trovò presto a capo, dal momento che il padre non si rivelò longevo quanto sarebbe stata lei.

La sua attenzione tornò sulla donna che le era seduta di fronte, e che le stava esponendo le sue idee sul funerale. Maria Addolorata la interruppe: "Signorina, mi dovete scusare. Voi avete detto che io sono la più brava, e tenete ragione. Ma sapete perché? Perché io il funerale lo faccio per il morto, come gli piacerebbe a lui. Per questo mi riesce bene. Voi, se vi guardo in questa bella casa dove viveva vostra madre, mi fate pensare che dovete essere molto diversa da lei. E anche la cerimonia che mi state proponendo è diversa da questa casa. Quindi, mi dispiace, ma non posso accontentarvi. Se volete a me vi dovete prendere le esequie che dico io".

Segui un attimo di silenzio. Poi Elisabetta Moroni disse che l'avrebbe ascoltata, e Maria Addolorata riprese: "Benissimo. Useremo composizioni di rose rosse. Vere, ma anche finte, perché il profumo deve essere intenso, ma contenuto. E perché il rosso carico che possono raggiungere quelle di stoffa non si trova in quelle vere". Quella gradazione tendente al nero - pensò Maria Addolorata - avrebbe reso l'aria più spessa, con un'idea accennata di polveroso che avrebbe suggerito una posata nobiltà.

Il giorno del funerale ci furono cuscini in tono con le rose sulle panche. Un drappo di velluto dello stesso colore avvolgeva la base su cui poggiava il feretro, la cui uscita fu accompagnata da un Notturno di Chopin, l'Op. 27 n. 2 in re bemolle maggiore. Un capolavoro. Anche Elisabetta Moroni ne convenne. Durante il funerale si lasciò andare, e se ne stette per tutto il tempo con il cuscino sulle ginocchia, invece che sotto il sedere.

Tempo dopo Maria Addolorata azzardò pure una bara colorata: striature rosa e arancio, che a tratti sembravano mescolarsi dando vita a un colore caldo e impreciso. Roba da far accapponare la pelle a qualsiasi prete, ma non a don Guido. L'officiante era un elemento importante in una funzione - Maria Addolorata lo sapeva bene, e negli anni aveva stretto rapporti con due o tre parroci, che quando poteva consigliava. Riconosceva in ognuno un proprio stile, più o meno adatto a certe occasioni. Non lasciava niente al caso, mammà. E don Guido era la persona più giusta per quel funerale. Era un prete illuminato, aperto, un iconoclasta - per quanto può esserlo un religioso. Le sue funzioni - anche quelle di tutti i giorni, di solito così monotone e ripetitive, quelle di un mercoledì mattina per esempio, alle quali partecipavano solo una mezza dozzina di vecchietti - erano arringhe, proclami, invettive, carezze per l'anima.

In quella circostanza don Guido si superò. La sua predica fu straziante, ma anche rassicurante; fu tenera, ma anche di sprone a. fare, a fare di più, a non sprecare il tempo e a essere più saggi.

A morire, per l'aggravarsi improvviso della sua patologia rara, era stato Mwai - un ragazzino nigeriano che viveva nel quartiere. Lo ricordavano tutti allegro e vivace, vitale nonostante la vita che gli era capitata. Si portava dietro tanti colori. Quelli degli abiti, delle stampelle che lo sorreggevano, dei disegni che gli piaceva fare. Maria Addolorata non ci pensò due volte: la funzione doveva esserne piena. Ma non le bastavano fiori e arredi: serviva qualcosa di speciale. Voleva che anche Mwai fosse circondato dai colori, che il suo corpo li avesse vicini. Ecco allora l'intuizione di quella cassa. Avrebbe potuto farla realizzare da uno degli artigiani cui solitamente si rivolgeva, ma si ricordò di un opuscolo pubblicitario lasciatole in mezzo a un sacco di carte inutili da un noiosissimo rappresentante, che non sopportava proprio.

Bare in cartone biodegradabile - delle quali, volendo, si poteva scegliere la decorazione. Una novità prodotta in Germania. Era la soluzione perfetta. Il fatto che fosse di cartone era un'ulteriore ragione di conforto: quel corpicino stremato non avrebbe sopportato il peso di una soffocante cassa di legno.

Ne parlò pure a un convegno di gestori di pompe funebri. Lasciando di stucco la platea, incredula all'idea che quella signora di una certa età, improbabile e anche un po' cafona, fosse una delle pochissime ad aver usato quelle bare innovative, cui in molti facevano fatica a convertirsi.

I numeri di Maria Addolorata lasciavano a bocca aperta: il suo volume d'affari era straordinario. Sembrava essere l'unica a organizzare i funerali in tutta Napoli. Chiaramente le cose non stavano così, ma era di sicuro la più richiesta; senza considerare che veniva chiamata anche dall'hinterland e dalla provincia. A San Sebastiano al Vesuvio le era capitato di organizzare le esequie più plateali della sua vita. I parenti del defunto erano seriamente intenzionati a lasciare impresso nell'immaginario locale il commiato del capofamiglia: carrozza, cavalli e corone gigantesche ancora non gli bastavano.

Quando capì l'andazzo, Maria Addolorata diede fondo a tutta la Moira Orfei che aveva dentro. E dire che le premesse non erano per niente buone. La chiesa, Santa Maria Madre Incoronatissima Maggiore, a dispetto di quel nome magniloquente era brutta e squallida: moderna, con mosaici dozzinali, e certe croste alle pareti che tutto facevano fuorché ispirare sentimenti di partecipazione e devozione. Ma Maria Addolorata riuscì a far dimenticare tutto questo.

Cavalli neri, imponenti e bellissimi, le criniere intrecciate, i pennacchi viola e oro, i finimenti di pelle lucida. Non la classica carrozza, ma un fastoso carro scoperto, perché il feretro fosse in bella mostra, poggiato su un catafalco in tinta con i pennacchi dei destrieri. Fregi dorati lungo le fiancate, lanterne ai quattro angoli. Simone Kermes (in una registrazione rara della quale Maria Addolorata decise di accontentarsi, pur essendo stata tentata di scritturarla di persona) cantò a più riprese Morte amara, dal Lucio Papirio di Nicola Antonio Porpora. Poi, il primo colpo di genio: sottili fili di ferro di altezze diverse infilati ritti nel catafalco, quasi invisibili e con in cima fiori di tulle nero, che ondeggiavano e svolazzavano sulla bara, come sospesi.

Il secondo colpo da maestro fu forse meno originale, ma altrettanto eclatante.

All'uscita del feretro dalla chiesa furono fatti esplodere alcuni mortaretti, mentre colombe bianche, con nastri neri legati al collo, venivano liberate in volo.

L'utilizzo di questi elementi, abitualmente riservati a celebrazioni più gioiose come i matrimoni, fu accolto con grande entusiasmo dai parenti, a cui i fiori volanti erano sembrati ancora troppo discreti.

 

Maria Addolorata si era fatta più vecchia e più grassa un anno con l'altro, sino a diventare enorme, una massa inamovibile. I figli la piazzavano in una grande poltrona, incastrata tra i braccioli, nella sede storica: chi entrava si trovava di fronte a un donnone che non finiva mai, che - pur non parlando quasi più - riusciva ancora a far sentire vigorosa la propria presenza. Nonostante l'aria sempre molto combattiva, non decideva niente oramai, ma la sua scena la faceva sempre.

Quando morì, silenziosa e immobile, in una assolata mattina d'inverno, si trovava lì, nella sua poltrona.

Oltre al dispiacere profondo, pur se mitigato dalla consapevolezza che tanta longevità era già un risultato, ciò che assillò fin da subito i figli di Maria Addolorata fu il pensiero del suo funerale. Studiare quello adatto a lei - che fosse anche qualcosa che Maria Addolorata non aveva mai tentato, organizzato, realizzato, inventato - sembrava un'impresa impossibile.

Ipotizzarono di portarla al cimitero in una fiammante macchina rossa, poi invece di condurcela con il suo scranno; pensarono a una banda che l'accompagnasse, o almeno che l'auto che la trasportava fosse fornita di altoparlanti e diffondesse una marcia funebre per le strade dove sarebbe passata.

Fortunatamente, nel pomeriggio arrivò don Guido a toglierli dagli impicci, portando loro una lettera della stessa Maria Addolorata - alla quale era venuto sempre troppo facile ideare funerali perché potesse non avere qualche idea anche sul proprio. I figli ne riconobbero immediatamente la grafia, antica e infantile. Un po' incerta.

"Io Maria Addolorata Vollaro così dispongo per il mio funerale.

"Voglio essere cremata.

"Questo non toglie che io voglia una funzione. Sono credente, e quindi desidero che la mia anima sia raccomandata a Dio. E desidero che a raccomandarmici sia don Guido. Siamo simili, e gli sono molto affezionata. Voglio che benedica le mie ceneri, perché tanto saranno loro la forma nella quale proseguirò il mio cammino.

"Lui sa già tutto, perché mi ha aiutato a scrivere questa lettera con le mie volontà. Come mi ha aiutato in tanti altri momenti della mia vita.

"So che avete rispetto per me, quindi vi atterrete alle mie richieste.

"Non sarà una cerimonia classica, e ci sarà meno spazio per certi dettagli. Quello che non troverete scritto, lo sceglierete voi. Secondo il vostro gusto, o quello che pensate si adatti meglio a me.

"Dopo la cremazione, alla quale assisterete solo se vorrete, desidero essere portata al negozio e restare lì per qualche ora; magari una mezza giornata: mi piacerebbe che qualcuno venisse a salutarmi. Tanto non sarò più molto ingombrante, a quel punto. E sempre lì vorrei che mi benedicesse don Guido.

"Vorrei che ci fossero musica e fiori. Non ho mai usato i crisantemi per i miei morti: mi sembravano scontati, e io volevo che i miei clienti avessero sempre qualcosa di speciale. Ma per me desidero quelli. Però vorrei che vengano tagliati abbastanza corti, perché quando sono troppo alti hanno un'aria trasandata e sgraziata.

"Per quanto riguarda la musica, vorrei canzoni classiche napoletane, cantate da Sergio Bruni; vorrei che fossero diffuse a volume basso per tutto il tempo della benedizione e delle eventuali visite.

"Un'ultima cosa. Avevo un piccolo segreto: in ogni bara di cui mi sono occupata, ho sempre nascosto un peperoncino. Era il mio modo di proteggere il defunto, il mio regalo. Ora vorrei che anche voi lo faceste con me. Un bel peperoncino rosso e piccante, macinato e aggiunto alle mie ceneri. Il suo pizzicore mi terrà arzilla.

"È tutto. Cosa fare delle mie ceneri, se conservarle o disperderle, e dove farlo, lo deciderete voi."

 

Quei fragili margini di manovra bastarono a far arrovellare non poco i figli di Maria Addolorata. Grande era il desiderio di organizzare una cosa degna di lei, forte il timore di sbagliare, chiara la coscienza che fosse la più brava.

Fantasticarono di urne dalle forme stravaganti e nei metalli più costosi, in oro e pietre preziose. Pensarono anche di acquistarne una antica, ma qualcuno di loro fece notare che mammà era stata sì una donna appariscente, ma in passato, e che recentemente era molto più sobria. "Ma solo per il peso e i sopraggiunti limiti d'età," obiettarono gli altri. A ogni modo, era chiaro che non avrebbero potuto limitarsi a calibrare le sue esequie sulla vistosità che l'aveva caratterizzata una volta. Dovevano fare di più.

Alla fine, stremati da quel lavorio, decretarono che avrebbero dovuto prendere le ultime volontà di Maria Addolorata come un suggerimento. E le sue ultime volontà erano certamente più misurate di un reliquario in oro massiccio, tempestato di turchesi (la sua pietra preferita).

Tra un pensiero e un altro, un'idea smozzicata e una contraddizione, alla fine ebbero una trovata degna della madre: le ceneri sarebbero state riposte in un astuccio a forma di bara, dalle linee essenziali, di legno semplice ma profumato.

Ancora una cosa ci tennero a fare: distribuire ai presenti, già durante la cerimonia, delle immaginette della defunta.

Scelsero una foto di molti anni prima, che però già suggeriva la vecchia che sarebbe diventata, perché fossero riconoscibili sia la donna ch'era stata per quasi tutta la vita sia quella che era al momento della morte.

Decisero poi che le ceneri di mammà sarebbero rimaste in negozio, custodite in una piccola nicchia fatta realizzare apposta per lei. Si affidarono a un giovane artista, che la illuminò con minuscoli faretti dalle luci bianche e calde, e incastonò nel muro altoparlanti che avrebbero diffuso a ripetizione - e a volume sobrio - le musiche che mammà stessa aveva indicato per la propria funzione. Infine, posizionò la piccola bara portaceneri leggermente inclinata, in modo da suggerire l'idea che, se ci fosse stato dentro un corpo, avrebbe avuto il capo rialzato.

Nella penombra delle brutte giornate la nicchia di Maria Addolorata sembrava un fuoco fatuo, un bagliore soffuso che si irradiava dal nulla.

I primi tempi si era affacciata in sede qualche rara persona, con imbarazzo - in fondo era come presentarsi in casa altrui senza esservi stato invitato. Poi, però, le chiacchiere degli uomini e le credenze delle donne, arrivarono lontano e diffusero l'usanza di passare a salutare Maria Addolorata.

Le ragioni del fenomeno che si innescò non furono mai chiare. Nessuno voleva andarsene senza portarsi via una delle immaginette, che ben presto - data l'enorme richiesta - furono ristampate.

C'era chi la desiderava perché voleva bene a mammà, chi per mostrare ad amici e parenti l'artefice di quel meraviglioso funerale cui aveva assistito, chi solo perché aveva sentito tanto parlare di lei, chi perché - in virtù di quell'insensato intrecciarsi di ritualità e simboli che sono ritenuti insieme funesti e apotropaici, di quell'universo contraddittorio che è la superstizione - per quel suo stretto e fattivo legame con la morte la teneva per buon augurio.

Le immaginette si trasformarono ben presto in veri e propri santini.

E si avviò inarrestabile il processo di beatificazione profana.

Maria Addolorata, protettrice dei funerali.

 

Però i suoi gioielli li abbiamo guardati insieme, io e le mie figlie. La più grande mi ha chiesto se fossi contrario a che lei tenesse la fede della madre. Prima del funerale l'avevo messa nel cassetto con gli altri oggetti di valore, e al ritorno a casa - la sera stessa - ho voluto dargliela.

Avrei voluto che si dividessero tutto. Tanto, ho pensato, quando morirò io - cosa che al momento mi sembra l'imminente evoluzione - dovranno comunque farlo. Quei gioielli appartengono a loro, è giusto che li prendano. Ne era convinta la madre, ne sono convinto io, ma loro si sono limitate a qualche collana, ai braccialetti, un paio di anelli. Poi mi hanno detto che di quel che restava potevo fare ciò che preferivo.

A mia cognata ho dato gli orecchini di perla e il ciondolo che avevo preso per il nostro anniversario.

Quello che è avanzato è tornato nel cassetto. Si può cambiare idea anche solo per un'inezia: lo scorrere del tempo, il mutare della luce, un suono inatteso, un incontro.

Può darsi che un giorno le ragazze saranno contente di trovare tutto ancora lì.