Guadagno Percetti

Guadagno Percetti era un uomo discreto, silenzioso e solitario.

Con un interesse anch'esso discreto, silenzioso e solitario.

La prima a scoprire di cosa si trattasse era stata la signora che abitava al pianoterra del palazzo di Percetti: Catina Corrani, donna curiosa e vivace; la cui curiosità era favorita dalla posizione del suo piccolo appartamento, il cui soggiorno con cucina si affacciava sull'androne. La finestra che dava sul passaggio regalava alla Corrani una visuale privilegiata.

Con la scusa di prendersi cura dei suoi fiori si appostava dietro il davanzale e da lì non le sfuggiva nulla.

Un giorno, proprio su quel davanzale, era posato un vaso di tulipani blu dall'aria orgogliosa e un po' sregolata, i gambi resistenti e pieni, le corolle eleganti.

Nei primi giorni di esposizione del bouquet, Percetti si era limitato a mostrare per i tulipani quello che si sarebbe potuto classificare come semplice interesse estetico - o tutt'al più incantamento per quel colore elettrico.

Un pomeriggio rivolse loro uno sguardo che colse un petalo prossimo alla caduta; una mattina un'occhiata che li vide allontanarsi l'uno dall'altro e tendere al bordo del vaso, e così via, aggiungendo ogni volta a ciascuno di quegli sguardi un po' d'ansia. Sin quando una sera, rientrando a casa, trovò la signora del pianoterra intenta a valutare lo stato, oramai assai corrotto, dei fiori.

"Li butta via?" aveva chiesto Percetti.

"Ci stavo giusto pensando," rispose lei. "Sono belli che andati. "

Allora Percetti aveva preso coraggio, e le aveva chiesto il privilegio di una cortesia. A permesso vigorosamente accordato, non senza imbarazzo Percetti domandò se poteva prenderli lui - una volta che, era chiaro, lei fosse stata certa di non volerli più.

Catina Corrani non aveva fatto una piega, però aveva fatto una domanda.

La signora Catina era una di quelle donne che ammiccano con allegria, senza troppa malizia. E il cui ammiccare allegro la faceva sentire disinvolta, e sicura di poter dire e domandare qualunque cosa.

La mise sul ricatto scherzoso: "Glieli do volentieri, si figuri. Però deve dirmi a cosa le servono".

Percetti titubò. Mosse le dita dei piedi nelle scarpe, e lentamente gli occhi in giro per l'androne, soffermandosi ora sull'ascensore, ora sul portone, ora su una lesione nel marmo del pavimento. Alla fine - le dita dei piedi ancora in movimento, gli occhi malfermi sull'attaccatura del naso della signora Corrani - si risolse per una mezza verità, e spiegò che avrebbe cercato di buttarli via in un modo che fosse il meno sgradevole possibile. "Non mi piace che finiscano nella spazzatura," stringò.

La signora Corrani non si lasciò confondere. Con quel suo modo spigliato prossimo allo sbrigativo, disse: "Sì, mi sembra una bella cosa. Proprio una bella cosa, in effetti. Ma ancora non capisco".

Percetti cercò di spiegarsi meglio. "Anche se i fiori recisi sono in pratica già dei fiori uccisi, come si dice, mi sembrano comunque troppo vivi per essere lasciati a soffocare in un sacchetto di plastica."

"Ma quindi, insomma, dove li mette? Li ricicla, ne fa concime o qualcosa del genere?"

Non era proprio un fuoco incrociato, ma Percetti era una persona mansueta e molto incline alla sincerità, così si sentì nella condizione di dover svelare quel piccolo segreto.

Un segreto che Percetti non aveva mai pensato di dover difendere per tutelarsi; era soltanto convinto che gli altri non avrebbero saputo cosa farsene, se non forse tirarlo fuori ogni tanto quando non avevano nulla di nuovo da dirsi durante le chiacchiere perditempo di certi incontri di quartiere.

"Organizzo loro il funerale." Lo disse in modo rapido, e che sembrava - gentilmente, per carità - chiudere la questione.

Catina Corrani, però, non si faceva liquidare con così poco. Lo guardò in silenzio giusto un attimo, per permettere ai propri pensieri - e alle parole, che solitamente le uscivano di bocca prima che quelli le si formulassero nel cervello - di ripartire all'attacco.

Poi disse che era un gesto molto umano, delicato, addirittura lodevole, anche se le sembrava un'occupazione bizzarra. Strinse per un secondo gli occhi, quasi volesse tentare di metterla a fuoco, e poi riprese a parlare. I fiori erano a sua completa disposizione da subito, lei tanto li avrebbe gettati via al massimo la mattina seguente.

"Glieli levo dal vaso, o ha bisogno anche di quello?" concluse.

"No, no, ma le pare, prendo solo i tulipani," si affrettò a rispondere lui.

La signora portò il vaso al lavandino, nel quale fece sgocciolare i fiori, li avvolse delicatamente in un foglio di giornale e tornò indietro.

Percetti - che aveva seguito con trepidazione tutta la scena, grazie a quella finestra nella quale aveva guardato per la prima volta, allungando gli occhi fino in fondo al soggiorno-cucina - ringraziò la signora con un'espressione che era la sintesi di diversi sentimenti: gratitudine, incredulità e sollievo per essersela cavata così comodamente.

Salì a casa, e appoggiò i fiori sulla console all'ingresso; poi andò in cucina, staccò un grosso pezzo da un filone di pane cotto a legna da mangiare subito, e tirò fuori dal frigorifero qualcosa per cenare più tardi.

Tornò dal bouquet, e lo portò al suo tavolo da lavoro.

Era indeciso: non gli capitavano spesso mazzi interi, e comunque di solito li smembrava. Ma quei tulipani blu erano così belli insieme.

Non sarebbe stato un lavoro semplice: i tulipani erano già fragili singolarmente, i petali tendevano a cadere con facilità e assai presto. Ma Percetti era un uomo paziente, nonché dotato di un'infinità di strumenti e sostanze.

Immobilizzò dunque le corolle e le foglie con uno spray colloso, che dopo un po' si rapprese creando una guaina sottile e trasparente, resistente ma non rigida, intorno a ogni fiore. Nell'attesa creò una struttura di fildiferro, una specie di scheletro della composizione, e quando tutto fu pronto montò uno stelo su ogni gambo ferrato, facendolo scorrere lentamente per tutta la lunghezza e perfettamente al centro.

Poi organizzò i tulipani in una combinazione che apparisse il più naturale possibile, ma talmente perfetta che nessun fioraio - nemmeno il più bravo - sarebbe stato capace di replicare. Quando i gambi, intrecciati e piegati dalle sue mani sapienti e accorte, furono in assoluto equilibrio, passò a bloccare l'intero bouquet immergendone la base in una sostanza resinosa che, una volta asciutta, avrebbe contribuito a fissare il tutto. Il prodotto fu abbastanza solido da poter essere infilato in un portacandele basso di plexiglass trasparente.

Soddisfatto del risultato, Percetti guardò l'orologio: c'era tutto il tempo per proseguire con la cerimonia. Aveva appena un languore allo stomaco, e optò per un paio di spesse fette di pane insipido con un po' di formaggio. Poi si lavò le mani e tornò alla sua creazione, che sollevò con cura per portarla sulla veranda. Il cimitero.

 

Percetti lavorava come segretario presso un ente di volontariato; un posto tranquillo che gli si intonava perfettamente per mitezza, e che gli consentiva di trascorrere i frequenti pomeriggi solitari a curiosare nella biblioteca a disposizione dell'associazione.

Tra i classici e i libri di storia (soprattutto sulle guerre mondiali), che più degli altri arricchivano la collezione, aveva scovato un grosso libro difficilmente catalogabile, che lo aveva attratto fin dal primo momento: Fiori segreti.

Strutturato come un comune manuale sui fiori, raccoglieva però le notizie in maniera assolutamente disomogenea: di una specie riportava caratteristiche fisiche e nozioni su cura e diffusione, di un'altra si limitava a qualche descrizione approssimativa, di altre elencava soltanto i nomi scientifici e di altre ancora se erano state le preferite di qualche personaggio famoso. La scheda di ciascun fiore, però, comprendeva una o più leggende che lo riguardavano.

Aveva avuto l'immediata impressione che quelle leggende fossero sconosciute, e la successiva lettura aveva finito con il confermare la sua iniziale intuizione. Quei racconti erano unici.

L'idea che potesse non conoscerle nessuno, che potessero non essersi mai diffuse nel mondo, restando racchiuse in quelle pagine stravaganti, lo rendeva felice. Come se fossero delle formule magiche alle quali solo lui aveva accesso.

Quella sera, come d'abitudine, Percetti si accomodò in veranda su una sedia di paglia, aprì Fiori segreti alla pagina dei tulipani, e attaccò a leggere con tono morbido.

"A scoprire il primo tulipano fu un pastore che, per salvare il gregge dalla fame, lo aveva portato sulla collina più alta nei dintorni del suo paese. Era lì, appoggiato a dei massi, a controllare senza troppo sforzo il placido pascolare degli animali, quando notò che una pecora si era allontanata dalle altre, e annusava insistentemente qualcosa. Allora il pastore si alzò, e si diresse verso l'oggetto di tanta curiosità. Quando lo raggiunse, rimase colpito da quello che era evidentemente un fiore, ma dalla foggia e dal colore mai visti prima: un tulipano blu."

Percetti interruppe la lettura, interdetto. Aveva sempre pensato che il blu fosse il risultato di manipolazioni umane, di modificazioni genetiche e tinture chimiche.

"Il pastore era indeciso. Strappare quella meraviglia dal terreno, per portarsela a casa e continuare a godere della sua bellezza, correndo il rischio che appassisse per strada; o lasciarla lì, nel luogo in cui era nata? Ma quel fiore lo affascinava troppo. Decise che lo avrebbe preso per sé, e attese impaziente la fine della giornata. Quando finalmente si fece ora raggruppò le pecore, strappò il tulipano blu dal terreno, e discese la collina tenendolo stretto in pugno. Giunto a casa, lo sistemò in un vasetto con del terreno concimato, nonostante non avesse le radici. Il suo gesto fu ripagato: il tulipano visse inspiegabilmente immutato per molti anni, e sfiorì solo il giorno in cui il pastore lasciò questo mondo. Da allora non si ha notizia in natura di altri tulipani di quel colore."

"Un tulipano fedele," pensò Percetti.

C'erano altre storie sui tulipani, ma quella - per quanto breve - si era rivelata così perfetta per l'occasione che aggiungere altro avrebbe rovinato la solennità dell'atmosfera.

Restò seduto a lungo, contemplando quel variopinto camposanto.

Mensole che reggevano fiori, mobiletti sui quali erano poggiati ancora fiori, fiori che facevano compagnia a fiori. A differenza di una cappella, dove i fiori erano davanti ai morti, per onorarli, nella veranda di Percetti onoravano solo se stessi. Erano loro i morti.

Percetti si rese conto che non c'erano più mensole vuote, e si ripromise di appenderne altre. Ma non poteva farlo subito: aveva appena seppellito dei tulipani, c'era bisogno di un po' di silenzio e di riguardo.

Rimase quindi così, fermo e svuotato.

Poi si alzò, riacquistando il suo pacato vigore, e tornò in cucina. Riscaldò un avanzo di patate fatte al forno con pomodori e cipolle, che accompagnò con del gruviera e del prosciutto cotto, un bicchiere di vino bianco, e tre rosette di pane. Il pane gli piaceva molto. E gli piaceva l'idea che un alimento così semplice, così essenziale, avesse tante forme, tante varianti, pur restando semplice ed essenziale, assomigliandosi sempre.

 

Per un paio di giorni Percetti e la signora Corrani non si incrociarono; la finestra era socchiusa, e il davanzale spoglio. Ma il terzo giorno lui la trovò che aggiustava in un vaso basso due profumatissimi fiori bianchi di magnolia.

Si salutarono; lo sguardo di lei passò per i fiori giusto una I razione di secondo, e poi si fermò negli occhi di Percetti, gettandovi dentro una accennata nota di complicità. Percetti si imbarazzò moltissimo, e si inquietò: mai avrebbe voluto che la signora si fosse procurata quei fiori apposta per compiacerlo. A dirla tutta, l'idea lo aveva anche leggermente contrariato, ma fece finta di niente e si diresse all'ascensore, con la sensazione d'essersi sottratto a una conversazione che la signora Corrani certamente si aspettava.

E difatti la sera seguente, quando passò di nuovo nell'androne, la signora Corrani lo fermò e gli chiese se non trovasse bellissime quelle magnolie. Percetti annuì impercettibilmente, abbozzando un sorriso poco convinto, e proseguì per raggiungere l'ascensore; ma poi ci ripensò, tornò indietro e approfittò dell'occasione: "Straordinarie, signora; davvero straordinarie. Ma - se mi permette, e se promette di non dispiacersi per quello che desidero dirle - c'è qualcosa che sento di doverle spiegare".

Certo che glielo permetteva. Figurarsi, perdere un'occasione del genere con quel laconico di Percetti, e rifiutare nuovi dettagli su quella storia tanto intrigante!

"Io non mi azzardo nemmeno a pensare che lei abbia preso e messo qui questi fiori solo in funzione mia, dei miei funerali," iniziò. "Ma siccome credo di aver notato una sua curiosità per questa faccenda, e siccome mi è sembrato che ieri il suo sguardo vi alludesse in qualche modo, volevo dirle che ci sono dei principi. Io faccio il funerale solo ai fiori che mi capitano. Sarebbe profondamente sbagliato, direi persino immorale, se ne cogliessi apposta, o andassi da un fioraio per acquistarne, in attesa di farli morire. "

La signora non era una stupida, anche se in effetti aveva fatto una stupidaggine a recidere quei due bellissimi esemplari dalla pianta in fondo al cortile del palazzo, e così comprese che parlare con sincerità sarebbe stata di gran lunga la cosa più intelligente da fare.

"Mi deve scusare. Io sono abituata ad andare dritta al nocciolo delle questioni, ma la sua rivelazione dell'altra sera mi ha suscitato un profondo pudore. A quel punto mi è parso indiscreto scavare nelle ragioni del suo rapporto con i fiori, domandarle cose che possono dipendere da motivazioni personali. Così ho pensato che le magnolie potessero stuzzicarla, spingerla ad aprirsi. Mi perdoni."

Nulla, di quello scambio, risultò anche solo di poco sopra le righe: entrambi lievi ed equilibrati, in delicata sintonia. Intenerito dalle ammissioni della signora, Percetti decise che per una volta avrebbe anche potuto contravvenire alle sue regole. Tentennò ancora un momento, prima di incastrarsi in quella proposta, e poi si buttò: "Facciamo così: quando moriranno, farò ugualmente loro il funerale. Anzi, se le va, può anche venire su da me e partecipare".

Il passare del tempo non sembrava però minacciare le magnolie, che anzi in perfetta forma accoglievano Percetti ogni volta che varcava la soglia del condominio.

Lui, nel frattempo, si intrattenne con altri funerali.

Un'intera nottata la trascorse indeciso sulle esequie da riservare a un papavero, che aveva trovato per strada. Fu più l'impegno di pensarlo, che quello di realizzarlo: si risolse infatti per la cremazione. Troppo delicato, troppo debole, impalpabile, quasi volatile. Non avrebbe retto a nessuna lavorazione.

Preparò una piccola brace, vi appoggiò il papavero, e gli diede fuoco con un lungo e sottilissimo fiammifero. Quando il fiore si spense del tutto, e disfacendosi scivolò delicatamente nel vassoio che conteneva la griglia, ne raccolse le ceneri in un portapillole d'argento, su cui aveva inciso una svolazzante "P".

Lo portò allora in veranda e, accomodatosi, aprì Fiori segreti alla pagina dei papaveri.

"Infiniti anni orsono, viveva in una lugubre cittadina agli estremi del mondo un uomo strampalato: esile, dinoccolato, di colorito esangue, con baffi neri sottili e disordinati. In città - una città ben particolare, essendo uniformemente grigia: grigi gli edifici, grigio l'abbigliamento della gente, grigio il cielo che la copriva - era molto noto. Il suo lavoro lo portava a spostarsi di continuo, ma la ragione che lo aveva reso così celebre era l'essere di quella città l'unica nota di colore. Quell'uomo portava infatti un cappello rosso di panno, dalla forma incerta, che gli stava sulla testa più sospeso che calzato. Anche quando il vento soffiava forte, e l'uomo sembrava destinato a volare via per la sua leggerezza, riuscivano inspiegabilmente a restare attaccati lui alla strada e il cappello alla testa."

Percetti cercò di figurarsi una città interamente grigia, i cui abitanti avessero tutti quel colore. Doveva essere angoscioso viverci, e pensò con simpatia a quella macchia rossa che si aggirava instabile per le strade.

"Un pomeriggio il vento cominciò a soffiare più violento del solito, con una potenza quasi soprannaturale. Dal giorno seguente nessuno vide più il signore dal cappello rosso. Alcuni sostennero di averlo scorto alzarsi in volò, avvitandosi lentamente su se stesso, ma la maggior parte dei cittadini attribuiva alla suggestione quella fantasiosa versione, finché -quando il quarto giorno quel vento irreale calò - nell'aiuola vicino al punto in cui sarebbe stato avvistato sollevarsi, trovarono un fiore che non riconobbero. Assomigliava così tanto alla sagoma dello strano uomo, che in tanti diedero per scontato che fosse lui in una nuova forma. Gli scettici continuarono a pensare che fosse semplicemente una specie trasportata lì dal vento, magari coltivata in qualche paese limitrofo.

"Le due fazioni rimasero per sempre di opinione differente, unite però dal piacere di veder crescere un'intera aiuola di papaveri, e di constatare che il vento non soffiò mai più tanto prepotente."

 

Le magnolie non accennavano a sfiorire.

Così fu la volta di un girasole che una sera, lasciando la sede dell'associazione, Percetti recuperò in un cestino accanto a una scrivania, nel quale era stato crudelmente abbandonato.

A casa si mise a rovistare in una vecchia cassapanca, nella quale trovò una scatola rotonda di plastica trasparente. La larghezza era giusta, ma l'altezza non era sufficiente per il gambo, così fu costretto a recidere il girasole appena sotto la corolla.

Per evitare che secernesse ancora la sua linfa, sebbene oramai in fin di vita, passò su quella specie di ferita una sostanza seccante, e lungo il bordo della bara del mastice - così che il coperchio vi si fissasse, una volta chiuso. Sul retro della scatola applicò un tassello di legno che la sostenesse in posizione obliqua, in modo che fosse ben visibile; e poggiò quel feretro su uno dei ripiani che aveva aggiunto nella veranda. Una mensola piccola e quadrata, perfetta per il girasole. C'erano molte leggende sui girasoli nel suo libro. Era stanco, e scelse la più breve.

Poi cenò con scaloppine al limone e insalata. E con un intero sfilatino croccante.

 

I fiori di magnolia non mostravano ancora segni di cedimento, erano umidi e lucenti, si aprivano splendidi e non sembravano turbati da nulla. Ogni volta che Percetti attraversava l'androne la signora Corrani gli lanciava uno sguardo tra l'ironico e il deluso. Probabilmente pensava che lui fosse uno stregone, e che avesse fatto in modo di non lasciarli appassire mai, per impedirle di entrare in casa sua.

In quel periodo Percetti funeralizzò delle margherite, una bellissima calla, dei ciclamini, dei gerani dall'aspetto inevitabilmente polveroso, e un frangipani mozzafiato. Chiuso in una bara quadrata di legno intarsiato e odoroso di lavanda, il frangipani trovò posto - nella medesima posizione del girasole - in una teca sigillata a forma di cubo. La teca fu fissata al muro con quattro bulloni trasparenti, che a seconda dell'ora sprizzavano raggi di luce di diversi colori.

"Il giorno in cui Dio fece la sua comparsa sulla Terra, mettendo in pensione gli dèi che avevano governato sino ad allora, li trovò intenti a cenare, e a chiacchierare appassionatamente e con allegria di argomenti che andavano dai più effimeri ai più profondi. Il vino e la musica si diffondevano intensi e piacevoli. Non fu un incontro facile. Gli dèi non volevano saperne di abbandonare i propri privilegi, ma Dio - in un modo o nell'altro - riuscì a liberarsi di loro. Solo una dea poté interrompere la sua opera, costringendolo a fermarsi per guardarla rapito. Il motivo di tale fascinazione, e della conseguente debolezza, non fu l'avvenenza della dea: Dio fu abbagliato da qualcosa che mai aveva visto prima e che lei portava tra i capelli. Un fiore. Alla dea fu allora concesso di restare, a patto che si dedicasse a coltivare per sempre e con cura quei fiori. Così fece, e il frangipani ancora oggi inebria gli uomini con la sua bellezza e il suo profumo."

 

La signora Corrani non poteva resistere oltre. L'estrema longevità delle magnolie imponeva un confronto, impossibile per lei continuare a far finta di niente.

"Ha fatto un sortilegio a questi fiori, per non farmi assistere ai suoi funerali?" disse a Percetti.

Lui abbassò leggermente la testa, mortificato all'idea di aver potuto suscitare una simile impressione; come se fosse poi un'ipotesi plausibile, realistica, quella del sortilegio.

"Su, Percetti, sto scherzando. Le pare. Però dev'essere destino che le sue cerimonie restino un mistero. Ma se non è possibile celebrare il funerale alle magnolie, posso almeno ricambiare la gentilezza di aver provato a invitarmi da lei e proporle una cena insieme stasera? Qui, da me."

Lui obiettò - preoccupato, a onor del vero, che l'obiezione venisse accolta - che galanteria avrebbe voluto fosse lui a invitarla; ma fortunatamente Catina Corrani sentenziò che tra un uomo e una donna soli, salvo che non si andasse a cena fuori, era la donna a dover invitare. Era di gran lunga più logico: "Siamo molto più svelte di voi, Percetti. A me non costerà niente". Insomma, si trattava di cose di casa; cose di donna.

"Permetta almeno che sia io a portare il pane," aggiunse Percetti.

Quell'offerta era quasi più strana di tutta la faccenda del funerale ai fiori. Ma non si doveva certo badare alle stranezze con Percetti, tagliò corto la signora.

La sera si trovarono dunque lì, a cena, nel suo piccolo appartamento.

Parlarono a lungo, lasciando inoltrare la notte. E sbocconcellando pezzi del pane integrale e di quello azzimo, dei panini all'olio e dei Canestrini dolciastri, della ciambella alla soia e della mezzaluna casereccia, la cui calda fragranza si levava dal cesto posato al centro della tavola.

Mentre sul davanzale della finestra che si affacciava sull'androne del palazzo, vigorose e protettive, le magnolie ondeggiavano carnose.

 

I giovani mi fanno pena. Lo dico con dolcezza. Non è un rabbioso - quanto vano e meschino - tentativo di vendicarmi del fatto che io sono a un passo dalla morte e loro hanno ancora tutta la strada da percorrere.

È che la vita dei giovani è troppo faticosa. E non mi riferisco certo a quella frenesia prodotta dalle sollecitazioni di animi ancora troppo turbolenti, al bagaglio di attese - che hanno loro stessi e che altri gli rovesciano addosso - che ne complicano l'esistenza; queste sono vitali amenità, lo sto parlando di cose pratiche: il lavoro, i viaggi, i fine settimana fuori città, la casa. E poi il corpo: i capelli che cadono, le prime rughe, l'abbronzatura tutto l'anno.

Dover fare programmi.