"Glamourt"
"A me sembra che vada bene. Siete tutti d'accordo?" disse la Palovan con un tono che non prevedeva risposte. Poi mostrò la bozza di copertina alla redazione.
L'immagine ritraeva una donna in carne con un metro morbido tra le mani che, china su una bara, era intenta a prendere le misure al cadavere. Sotto, a caratteri svolazzanti: "La sarta della morte".
"Glamourt" - da anni tra le sette riviste più eleganti elette da Death Charm, e due volte premio della critica ai Funerary Awards - avrebbe aperto il numero di ottobre con un'intervista alla sarta della morte, appunto: specializzata in abiti funerari, realizzati su misura.
"Una volta decedute, le persone cambiano corporatura," spiegava la sarta nell'articolo. "Non si tratta solo del fatto che si rimpiccioliscono, ma proprio di una variazione della struttura. È così brutto vedere dei defunti malvestiti, con quelle giacche larghe sulle spalle, o quegli abiti che cadono lunghi. E poi, c'è chi proprio non possiede qualcosa di adatto, chi desiderava indossare un determinato vestito ma non ha fatto in tempo a procurarselo; e anche le preferenze dei parenti hanno importanza. " L'intervista proseguiva con la giornalista che lodava stupita l'incredibile velocità della signora, capace di realizzare dei completi perfetti nel poco tempo che generalmente passa tra il decesso e il funerale. Alcuni aneddoti, che la sarta sciorinò piena d'orgoglio, completavano il pezzo. Raccontò di quella volta che aveva dovuto tingere un abito a due ore dalla cerimonia (farne uno nuovo era davvero impossibile), perché in famiglia non si erano messi d'accordo sul colore; di quella volta che si era resa conto di avere a che fare con il cadavere di una famosissima cantante solo al momento di prenderle le misure ("Ché al telefono non mi avevano detto niente"); o di quando era talmente in ritardo e gli impegni talmente tanti, che il morto venne vestito solo per la parte davanti. ("Però un gran bene," aggiunse.)
La copertina fu approvata. E così tutto il numero, che ai suoi fedeli lettori avrebbe offerto anche un servizio di approfondimento - a corredo dell'intervista di apertura - sulle stoffe più adatte a vestire i defunti; la consueta rubrica Funerivendoli, sul mondo delle pompe funebri; quella di gossip, con le recenti morti eccellenti; i risultati di un sondaggio che vedeva la cremazione guadagnare sempre più punti rispetto alla classica sepoltura.
La definizione del sommario era un'operazione abbastanza semplice: pur trattandosi di una rivista a tema, gli argomenti non mancavano mai. E il saper conciliare un pubblico generico con quello degli addetti al settore offriva possibilità ancora maggiori: se mancavano idee per gli articoli che dovevano riempire gli spazi lasciati liberi dalle rubriche abituali, si poteva sempre ricorrere ai messaggi promozionali, agli annunci specialistici, alle schede sulle novità del mercato.
La consueta riunione di redazione, fissata per la prima settimana del mese, si movimentava molto in occasione di un numero a cui tenevano tutti in modo particolare: il secondo numero di dicembre, unico mese a vedere due uscite La Tredicesima - così veniva chiamato quel numero speciale - era stata concepita come regalo di Natale per i lettori, ma si era presto trasformata in un regalo per i redattori stessi, che per lei liberavano le più brillanti energie creative. E poi, tutti erano convinti che una rivista come "Glamourt" non potesse avere che tredici numeri.
Al termine dell'incontro di quel giorno dunque, la Palovan - direttrice della rivista sin dalla sua fondazione - invitò i colleghi a pensare alla successiva Tredicesima, oramai prossima. Poi chiese ad Adolfo Troni di raggiungerla nel suo ufficio.
"Troni, sia gentile, non mi rifili anche per la Tredicesima le solite due agenzie. Il fatto che lei sia un giornalista di esperienza, e che scriva - devo ammetterlo - in maniera divina, quando è ispirato, non toglie che i lettori non si possono far fessi così."
Troni era un uomo grosso e disordinato, responsabile della rubrica Funerivendoli. Era un professionista assai metodico, la cui innata confusione non intaccava minimamente i suoi articoli, che si sviluppavano con naturalezza, equilibrio e semplicità.
Il suo limite - una spina conficcata nel fianco della Palovan - era che la metodicità si trasformava in abitudine e poi pigrizia. Così cominciava a lavorare ai pezzi con un giro di telefonate agli imprenditori che conosceva meglio. Questo gli garantiva in effetti informazioni e confidenze che altrimenti non avrebbe ottenuto, ma rischiava anche di limitarne il campo d'azione - cosa che a ogni modo non lo turbava affatto. Lui era sicuro di sé. In più d'un'occasione era riuscito a tirar fuori dalla stessa notizia una quantità imprecisata di articoli, ognuno diverso dall'altro e tutti impeccabili e coinvolgenti.
Di tutt'altro genere l'approccio di Gina Cocco, che si occupava di moda.
Il suo look ne era una decisa dimostrazione. Non giovanissima né - a insindacabile giudizio della compagine maschile della redazione - granché bella, era una donna determinata e dal piglio sicuro, tendente all'aggressivo, che si rifletteva anche negli abiti che indossava: molto nero, con inserti in linea con il trend dell'anno (scozzese, gessato, una coccarda, un fiocco, borchie, righe, spigati); molta pelle e tacchi; accessori a profusione.
La sua era, in sostanza, una rubrica di bon ton funerario: dettava regole e dispensava consigli che andavano dall'organizzazione di una cerimonia funebre alla compilazione di un necrologio, dai suggerimenti sul momento giusto per fare una telefonata di condoglianze all'abbigliamento consono a un funerale - a seconda che si fosse parenti, amici, semplici conoscenti o colleghi. Per vivere il lutto con classe.
Le settimane della moda la vedevano eccitata e frenetica in giro per il mondo, partecipare a cocktail e sfilate, in totale venerazione davanti alle collezioni più stravaganti. In quelle occasioni i suoi articoli si avvitavano in seducenti voli pindarici, che avevano l'ambizione di individuare affinità più e meno evidenti tra quegli abiti raffinati e il mondo funerario. Delle sue intuizioni era spesso impossibile stabilire l'affidabilità, e i colleghi non prendevano troppo sul serio quelle sue analisi, che però procuravano grande piacere alla lettura. Lei, a differenza dello statico Troni, era solita lavorare sull'entusiasmo dell'ultimo minuto, quindi difficilmente sceglieva in anticipo gli argomenti per i suoi articoli. Se questo fosse frutto di svogliatezza o di reale attesa dell'Idea non era chiaro, ma i suoi pezzi frizzanti erano sempre godibilissimi, per cui la cosa non fu mai oggetto di indagini approfondite.
Della posta dei lettori, Cari estinti vicini e lontani, si occupavano in due: Nora Cadorni, una signora di una certa età, distaccata ed elegante; e il suo assistente Livo Zanoni, un ragazzo in gamba, una promessa della rivista. La Cadorni era l'unica ad avere un assistente, che aveva reclamato energicamente al principio di un'estate in cui vedeva in serio pericolo le sue ferie. I primi tempi era filato tutto liscio, ma a un certo punto la cosa aveva creato qualche problema. In capo alla pagina veniva pubblicata solo la foto della Cadorni, e così solo la sua firma in fondo; di Livo nessuno era a conoscenza. Tra i compiti di Livo c'era anche quello - fondamentale - di uniformare il più possibile tono e stile delle proprie risposte con quelle della Cadorni - il che gli era costato enorme fatica, e dopo un po' collera e frustrazione. Sin quando un giorno, esasperato, si era presentato nell'ufficio della Palovan minacciando di lasciare "Glamourt" se il suo ruolo non fosse stato riconosciuto ufficialmente. La Palovan aveva sostenuto con fermezza la trattativa, ma le segnalazioni di alcuni lettori più accorti - cui alcune incongruenze non erano sfuggite, e che avevano ipotizzato persino una leggera schizofrenia della Cadorni - le avevano suggerito di accogliere la richiesta. Sdoppiata la rubrica, fu aggiunta anche la foto di Livo, che volle distinguersi dalla Cadorni anche in quanto a immagine: alla foto di lei - capelli vaporosi, accanto a una composizione di ortensie - faceva da contraltare uno scatto di lui in bianco e nero, con un'ombra che gli copriva parte del volto.
Quando l'argomento era complesso o si prestava a dibattiti più vivaci e articolati, rispondevano entrambi, fornendo il proprio (fatalmente discordante) punto di vista.
"Mi capita spessissimo," scriveva un lettore, "di usare la parola 'funerale' al posto di 'matrimonio', e viceversa. È uno sbaglio che a volte mi mette in difficoltà; quando parlo, per esempio, con persone che sono prossime a sposarsi o che hanno da poco seppellito una persona cara."
"Caro A," aveva risposto Livo, "il matrimonio è la tomba dell'amore! Ecco spiegato (mi conceda la facile ironia) il suo lapsus. Per quanto riguarda il caso inverso io la considero un uomo moderno, oserei dire all'avanguardia. Caro lettore, lei confonde i nomi delle due cerimonie più importanti nella vita. È giunta l'ora - diciamolo forte e chiaro - che ai funerali venga riconosciuta la stessa dignità degli altri riti, di festeggiare la morte come festeggiamo le altre tappe della nostra esistenza. Il funerale è la nostra ultima festa, e come tale deve essere trattato."
L'intervento della Cadorni - a cui, per rabbonirla, era stato concesso il privilegio di leggere le risposte di Livo prima di scrivere le sue, in modo da poter in qualche modo replicargli - era stata, prevedibilmente, di tutt'altro tono: "Caro lettore, è evidente che le ragioni della sua confusione sono intime, che affondano le loro radici nel suo inconscio o nel suo lontano passato; forse finanche nella primissima infanzia. Io le consiglio caldamente di consultare uno psicologo, un analista; credo che alla base di tale (e reiterata per giunta) sostituzione ci siano spiegazioni, per così dire, tecniche, e strettamente legate alla sua persona".
Il più delle volte, però, i messaggi dei lettori si limitavano a semplici sfoghi, prese di posizione, commenti, ai quali trovare una risposta era davvero un'impresa complicata.
Un signore aveva sentenziato: "Non si dovrebbe mai morire col caldo. È così poco decente che a un funerale si sudi, si abbiano abiti scollati o senza maniche, ci si sventoli sbuffando. Quando stamattina l'ho detto a mia moglie, mentre partecipavamo alle esequie di un vicino, lei mi ha ripreso, accusandomi di essere sconveniente, che non erano discorsi da farsi in quella circostanza; ma io trovo molto più sconveniente trovarmi a un funerale con la camicia bagnata di sudore e appiccicata addosso".
La Cocco - alla quale era stata chiesta una consulenza -si dichiarò in totale accordo con il lettore, al quale suggerì una serie di accorgimenti volti ad arginare per quanto possibile il disagio. "Indossi un completo di lino, che - oltre a confermarsi stagione dopo stagione uno dei tessuti più chic - è anche uno di quelli che lascia respirare meglio la pelle. E poi sappia che oggigiorno esistono dei gel fantastici, inibitori del sudore. "
La Tredicesima di quell'anno uscì cellofanata, perché conteneva come gadget un Babbo Natale con in spalla un sacco da cui sbucavano delle bare infiocchettate. Fu davvero un bel numero.
Per la copertina - sulla quale la Cocco aveva da ridire ogni volta, perché secondo lei non ci si poteva accontentare sempre del classico nero - si cedette a un dorato molto natalizio. Il pezzo di apertura era su uno scultore di lapidi. Uno scultore poeta, lì dove delle due arti la seconda era restata a fare l'arte e l'altra si era trasformata in artigianato per sopravvivere.
"Io nasco poeta," raccontava con un certo orgoglio, "ma ben presto ho capito che i versi non mettono il pane in tavola. Io, mi permetta, ho sempre avuto predisposizione per le arti in genere, e da giovane mi ero provato non senza soddisfazione nella scultura; così un bel momento cercai il modo di far fruttare tutte e due. Ma, signorina, non ci sono più i committenti di una volta: chi mai ordinerebbe oggigiorno un fregio ornato e inciso con parole in rima? Solo ai morti si tributano ancora simili magnificenze. Così mi inerpicai su! per gli scoscesi e impervi pendii di questo mestiere improvvisato, e dalla incerta riuscita."
"Chiaramente," aveva aggiunto, "pur facendo in realtà due lavori, non posso richiedere un onorario doppio, così va a finire che me ne faccio pagare al massimo uno e mezzo, uno e un po'. Ma siccome se non li facessi entrambi probabilmente non me ne pagherebbero nessuno, sono contento così.
"Ho un catalogo di rime già a disposizione dei clienti, sempre rime mie chiaramente, ma generiche; e lì c'è poco da fare. Posso invece arrotondare se mi viene commissionata una poesia personalizzata per il morto. Ma purtroppo non è una cosa che capita spesso."
Oltre all'abituale rubrica Funerivendoli, ad Adolfo Troni era stato assegnato un pezzo cui teneva molto, a cui si dedicò con pathos e trasporto. E quando il pathos e il trasporto scorrevano nella griglia compassata e perfetta della sua scrittura, il risultato era davvero straordinario. Protagonista dell'articolo era Amia Bassari. La ragazza, che gli era stata segnalata proprio da uno dei suoi imprenditori di riferimento, aveva una irresistibile passione per i cani anziani. Batteva i canili alla ricerca di quelli che - a detta degli operatori - avrebbero vissuto meno di tutti. Amia Bassari era un po' come l'infermiera di un reparto di malati terminali, ma lei quei malati se li andava a cercare. Prediligeva i cani che nessuno voleva, quelli nei quali scorgeva i disagi della senilità e le imminenti angherie della morte. Le sembrava giusto coprire quegli anni tristi, dare affetto a chi non si aspettava più di riceverne. Così si portava a casa i più malandati, li amava, e faceva loro compagnia finché non se ne andavano. L'essere consapevole dell'ineluttabilità di quello che l'attendeva non le risparmiava il dolore, e il fatto che le fosse capitato tante volte non ne riduceva l'intensità. Ma almeno, davanti alla sorpresa incredula, prima ancora che riconoscente e giocosa, che vedeva passare negli occhi e nelle code di quei cani nel momento in cui venivano scelti, provava un'immensa serenità.
"Quel Troni," pensò la Palovan, "un pigro rompipalle, ma quando ci si mette è una sicurezza." La direttrice sfogliava con soddisfazione la Tredicesima, quando lo sguardo le cadde sul foglietto che quella mattina Geremia Panturi le aveva lasciato sulla scrivania: "Dette infin Napoleone un sospiro xxxxxx / nei versi del poeta d'antico natal. // Importante è per la gente aver vivace yyyyy / senza di lei il corpo non è niente. // Quando la speranza d'allegria è del tutto inesistente / si dice: 'Uff, m'annoio xxxxxxyyyyy'".
"Mortalmente! " esclamò tra sé la Palovan, quasi più soddisfatta per quella soluzione che per la buona riuscita del numero natalizio.
Ingegnere e linguista, un'intelligenza eccelsa votata alle sorti della rivista, Panturi lavorava indefessamente di testa e computer, dando vita a passatempi di ogni genere per la sua rubrica Mortis pausa - la pagina dei giochi. Qualche anno prima, quando era assistente universitario e riponeva ancora nel mondo accademico le sue speranze professionali, Geremia Panturi aveva inventato Mortopoli - una specie di Monopoli nel quale si lottava per accaparrarsi loculi e cimiteri, e per avere il cimitero più grande e affollato, le cappelle gentilizie di marmo, quelle più decorate, la fornitura di fiori al miglior prezzo, e altre cose del genere. Mortopoli aveva avuto un discreto successo, da cui Panturi aveva percepito diritti così miseri che non poteva certo pensare di camparci. Quando la carriera universitaria si rivelò definitivamente di troppo complicata attuazione, fu all'enigmistica che si consacrò, mollando tutto senza rimpianti né recriminazioni. I suoi anagrammi e crittografie non potevano passare inosservati allo sguardo attento della Palovan, che non aveva badato a spese per accaparrarsi quel giovane creativo e assicurarlo alla propria rivista. Lui la ripagava non solo lavorando con serietà e impegno, ma lasciandole ogni settimana in regalo sulla scrivania un rebus o una sciarada.
In occasione della Tredicesima, Mortis pausa si trasformava in un piccolo inserto. Del resto, nei giorni di festa c'era più tempo per scervellarsi con le parole. Così Panturi aveva sempre un bel da fare, ma questo non lo distoglieva dall'onorare quella consolidata abitudine instaurata con la sua direttrice.
Fortuna volle che nel mese di novembre fosse scomparso un importante politico. Così Elviro Giannizzo andò sul sicuro nella scelta del protagonista della sua rubrica sulle morti eccellenti. Quando era possibile, partecipava ai funerali di persona; lo preferiva di gran lunga. In caso contrario si basava sui resoconti dei giornali o di alcune persone di sua fiducia, che però sottoponeva a controlli assai pignoli.
Le gambe corte e le braccia gracili, che terminavano con mani che sembravano miniature, non contribuivano ad accrescere la mascolinità di quell'uomo piccolo e spennacchiato.
Per seguire le esequie di personaggi celebri, Giannizzo partiva per più o meno lunghe trasferte, durante le quali aveva sviluppato un certo interesse per chi, come lui, era costretto a mangiare da solo. Si era reso conto così di quanto fosse diffuso il fastidio per quei pranzi e quelle cene senza compagnia. Leggeva nei movimenti e nelle espressioni di quelle persone un forte disagio, il cui superamento sembrava arduo come una prova di coraggio. Aveva stilato anche una specie di casistica. C'erano quelli che, loro malgrado, sembravano aver fatto il callo a quella spiacevole situazione, e quelli che invece imbarazzati infilavano ascensori e stanze d'albergo con panini e cibi preconfezionati. C'erano quelli che leggevano a tavola: un libro o un giornale erano un conforto abbastanza dignitoso per neutralizzare la solitudine; e quelli che armeggiavano tutto il tempo con telefonini e agende elettroniche.
Giannizzo no; Giannizzo la sua prova di coraggio la superava alla grande. Scartava telefoni, giornali e ogni surrogato di commensale; e si concentrava a fare una cosa per volta, a stare fino in fondo in ciò che stava accadendo in quel momento. Come faceva del resto per ogni momento della sua esistenza: non sovrapponeva mai nulla.
C'era tempo nella vita, e c'era dunque tempo per fare ogni cosa; con calma e con cura.
Elviro Giannizzo era vedovo e la vedovanza aveva rafforzato questa sua attitudine: gli sembrava che così le sue giornate fossero più piene.
La sua calma concentrazione raggiungeva l'apice quando partecipava a un funerale di lavoro: lui era dentro il funerale.
Cercava di capirlo, ascoltarlo, sentirlo. Con il distacco del proprio ruolo, chiaramente, ché non era certo una recita la sua, ma condivisione.
Non mancava mai di stringere le mani ai parenti, anche quando non li conosceva per niente e loro non sapevano chi fosse lui; e gliele stringeva con tutta l'energia che le sue piccole dita potevano.
"L'onorevole Renzo Ferenti è morto il 18 novembre scorso, di infarto. Si è spento di notte, nel sonno. La sera precedente aveva cenato con la famiglia e alcuni amici nel suo appartamento romano, nella fausta occasione del suo quarantacinquesimo anniversario di matrimonio. Alla signora Ferenti le nostre più sentite condoglianze. E, anche se naturalmente sappiamo che non è la ricorrenza a rendere più gravoso un dolore che segnerà la quotidianità della vedova come di tutti coloro che lo amavano, non possiamo non pensare che a volte il destino pare davvero giocare un po' con noi.
"L'onorevole era un uomo sobrio e assennato. Un politico vecchio stampo, che ha fatto del proprio impegno una missione, che si è sempre distinto per onestà e rigore morale, per dedizione e diplomazia.
"La cerimonia funebre non era di semplice realizzazione: il rischio di scadere nella pomposità era certamente in agguato, data la notorietà e il ruolo pubblico di Ferenti. E invece, il funerale è stato uno dei più belli e dei più riusciti cui io abbia partecipato. E chi ha la bontà di seguire questa rubrica sa quanti siano.
"Ferenti era un uomo misurato, ma di enorme sostanza, e il funerale non doveva scivolare neppure in una inadeguata inconsistenza. Una cassa dai tratti essenziali - di quelle che si riservano ai morti anonimi, che nessuno reclama, di cui nessuno si prende cura, ai poveri - eppure di straordinaria eleganza. Il crocifisso che vi era apposto era di Ponter, artista contemporaneo famoso per le sue rielaborazioni dell'iconografia cristiana, e raffigurava un Gesù martoriato e con i capelli lunghissimi, adagiato su una croce stilizzata, dai bracci arrotondati. L'opera è stata realizzata in argento satinato.
"La chiesa era addobbata quasi esclusivamente in verde, con piante e fogliame: i fiori erano rari, ed erano fiori di cavolo. Tenui, belli, ma cavoli.
"Ho riconosciuto lo stile inconfondibile di Maria Addolorata Vollaro.
"La Vollaro, con tocchi decisi, ha saputo realizzare una cerimonia di semplicità quasi monastica, ma allo stesso tempo gloriosa".
E poi giù con l'elenco dei Vip.
Il caso partecipò alla perfetta riuscita di quella Tredicesima. A pochi giorni dalla chiusura del numero, arrivò in redazione una lettera che Livo Zanoni elesse immediatamente proprio manifesto esistenziale. Dopo aver prima chiesto il consenso alla Cadorni - le cui reazioni era sempre bene prevenire - propose di rivedere il menabò, e di pubblicarla senza commenti al posto della classica rubrica. In riunione serpeggiò qualche dubbio, ma la Palovan si lasciò conquistare dall'idea. Non si poteva negare - malignò qualcuno - che Livo Zanoni risultasse sempre molto convincente con la direttrice.
"Sono uomo. Ho quarantaquattro anni. E non ho nessuna intenzione di morire.
"Non ho poteri speciali, e morirò - come tutti. Ma proprio non mi va giù questa storia.
"Io sono un materialista. Credo non ci sia nulla dopo la morte. E anche se ci fosse qualcosa, non mi interesserebbe. A me importa quello che c'è qui. Mi piace, mi diverte, mi attrae, quello che c'è sulla Terra. E se un domani, che spero lontano, la mia anima se ne dovesse andare in giro per chissà quale spazio trascendente, al momento non me ne importa niente davvero.
"Non escludo che lei (la mia anima) potrà esserne contenta: magari avrà una vita diversa, tutta sua, in mezzo ad altre anime con le quali chiacchierare; o godrà di indicibili sensazioni di pace e bellezza. Ma quella è un'altra anima, una che avrà già sperimentato la morte, il distacco, l'essere privata del suo corpo, e avrà sentimenti differenti rispetto a quella attuale, che è la mia, e oggi pensa e sente come me. E a noi, oggi, non interessa il dopo. Noi vogliamo stare qui.
"Vogliamo leggere e passeggiare, giocare a pallone e sentire quel tonfo sordo del cuoio quando un tiro teso incontra il nostro piede pronto a calciare, vogliamo avere i sapori in bocca e la musica nelle orecchie. La mia anima è materialista come me, al momento.
"E noi non vogliamo morire.
"Non vogliamo sentire la mancanza. Perché questo è per noi la morte: una profonda, irrimediabile nostalgia della materia che siamo."
"La redazione di 'Glamourt', ringraziandoli per la fiducia che le dimostrano costantemente, augura a tutti i suoi lettori un Buon Natale e un Felice Anno Nuovo."
Quando mia moglie è morta non ho avvisato subito le mie figlie. Avevano un importante colloquio di lavoro (gestiscono insieme una società), e lo avrebbero annullato, ne sono certo. Che importanza ha comunicare immediatamente una morte? Soprattutto poi quando può provocare un danno che andrà a sommarsi al dolore.
La morte non è qualcosa di cui si possa fare a meno, e io non volevo perdermi nulla di quella di mia moglie. Non potevo non soffrire per la perdita di chi amavo; ebbene, che la qualità della mia sofferenza fosse la migliore: profonda, vera, indagata palmo a palmo. Così mi sono fermato, e ho cercato di sistemare i miei pensieri prima di darli in pasto agli altri.
Sono state due ore guadagnate alla mia vita, reinventate, rubate. Due ore che altrimenti avrei perso e mai avrei potuto recuperare. Ho ritardato il succedersi degli eventi. Ho posticipato la morte di mia moglie al resto del mondo. E per un po' è appartenuta solo a me.