Libro quattordicesimo
1. (59 d.C.) Sotto il consolato di Gaio Vipstano e C. Fonteio, Nerone non volle più rinviare il delitto lungamente meditato, fatto ardito dagli anni di governo, e ogni giorno più infiammato dall’amore per Poppea. Questa non sperava di diventare sua moglie né di indurlo a ripudiare Ottavia, fino a che fosse viva Agrippina; e quindi con frequenti recriminazioni o, a volte, con motteggi accusava il principe, lo chiamava pupillo, sottoposto agli ordini altrui, privo non soltanto del potere, ma anche della libertà. Per quale ragione infatti rinviava le nozze, non teneva conto della sua bellezza, dei trionfi degli avi, la sua fecondità, la sincerità del suo amore? Aveva paura che una moglie gli rivelasse le offese inflitte al Senato, lo sdegno del popolo contro la superbia e l’avidità della madre? Se poi Agrippina non tollerava una nuora che non fosse odiosa al figlio, che la si rendesse al talamo di Otone; sarebbe andata in qualsiasi angolo della terra, dove avrebbe saputo degli oltraggi inflitti all’imperatore, ma non vi avrebbe assistito, mentre ora era coinvolta lei pure nei pericoli che incombevano su di lui. Nessuno era in grado di impedire questi discorsi, e altri simili, suggestivi perché accompagnati da lacrime e dalle lusinghe dell’amante, perché tutti desideravano di veder crollare la potenza della madre e nessuno credeva che l’odio del figlio sarebbe arrivato fino al matricidio.
2. Cluvio racconta che Agrippina, per il desiderio smodato di conservare il potere, giunse a tal punto che a mezzogiorno, quando Nerone era accaldato dal vino e dalle pietanze, più volte si offrì a lui ormai ebbro, adorna e pronta all’incesto; e poiché gli intimi avevano notato quei baci voluttuosi e quei gesti, prodromi dell’atto turpe, Seneca, per opporsi alle lusinghe della madre, sollecitò l’aiuto di una donna e mandò da Nerone la liberta Atte; essa già ansiosa per la propria sorte e per la vergogna di Nerone, avrebbe dovuto riferirgli che ormai tutti parlavano dell’incesto perché la madre se n’era vantata e che i militari non intendevano più tollerare l’autorità d’un principe capace d’un simile sacrilegio. Fabio Rustico al contrario narra che quelle voglie appartenevano non ad Agrippina ma a Nerone e che ne sarebbe stato dissuaso dalla stessa liberta. Ma altri autori riferiscono i fatti come Cluvio e la voce pubblica è incline a questa versione, sia che un atto così turpe sia stato concepito veramente da Agrippina, sia che il progetto di quella libidine sia apparso più probabile in lei, che ancora fanciulla aveva avuto rapporti con Lepido1 per desiderio di dominio e che per la medesima brama s’era degradata fino ad appagare i desideri di Pallante, e che, unitasi in matrimonio con lo zio, aveva sperimentato ogni genere di obbrobrio.
3. Quindi Nerone prese a evitare d’incontrarsi con lei da solo e quando ella si recava nei suoi giardini o a Tuscolo o ad Anzio, l’approvava perché prendeva qualche riposo. Alla fine, la ritenne pericolosa tanto che decise di sopprimerla, era incerto soltanto se col veleno, con un pugnale o con qualche altro mezzo. La prima scelta fu per il veleno. Ma se lo si fosse propinato alla mensa del principe, non si sarebbe potuto attribuire la morte al caso, dato che s’era agito allo stesso modo con Britannico; corrompere i servi inoltre era difficile, trattandosi d’una donna esperta di delitti e quindi sospettosa e che s’era anche premunita prendendo antidoti. Quanto al pugnale e all’uccisione nessuno sapeva suggerire in che modo commetterla di nascosto e si temeva che la persona incaricata d’un delitto così grave avrebbe disobbedito all’ordine. Suggerì un espediente il liberto Aniceto, Prefetto della flotta di Miseno, istitutore di Nerone fanciullo, che detestava Agrippina e ne era odiato. Egli dimostrò che era possibile costruire una nave, una parte della quale una volta al largo, si spaccasse per un artifizio, e facesse precipitare la donna ignara: non c’è nulla più facile agli incidenti che il mare e se ella fosse scomparsa in un naufragio, chi sarebbe stato così sospettoso da attribuire quella morte a un delitto, come se il vento e i flutti l’avessero commesso? L’imperatore avrebbe dedicato alla defunta un tempio e delle are e dimostrato la sua devozione filiale.
4. Lo stratagemma incontrò l’approvazione di Nerone, tanto più perché tempestivo: egli infatti celebrava le feste Quinquatrie2 a Baia. Qui invitò la madre; e andava dicendo che lo sdegno dei genitori bisognava sopportarlo e che era bene placare gli animi, per diffondere la voce d’una riconciliazione e Agrippina lo credesse, con la facilità tipica delle donne di credere alle cose liete. Quindi, come ella arrivò da Anzio, egli le andò incontro su la spiaggia, le prese la mano, l’abbracciò e la condusse a Bauli. Così si chiama un podere, che si stende tra il promontorio Miseno e il Lago Lucrino, ed è lambito dal mare. C’era tra le altre una nave più adorna, come se anche questo fosse stato fatto per onorare la madre; di solito, infatti, ella navigava su una triremi con rematori della flotta; fu anche invitata a cena, affinché la notte servisse a nascondere il delitto. È certo che vi fu un delatore e che Agrippina, informata dell’insidia, incerta se dovesse credervi, si fece portare a Baia in lettiga. Qui l’accoglienza affettuosa fece sparire il timore: fu ricevuta amabilmente e collocata al posto d’onore. Con molti discorsi Nerone, ora con intimità fanciullesca, ora tutto serio, quasi volesse confidarle i suoi problemi, tirò alle lunghe il banchetto, la riaccompagnò mentre partiva, sempre stretto a lei, senza staccarle gli occhi di dosso, sia per raggiungere una simulazione perfetta, sia perché la vista estrema della madre vicina a morire turbasse quell’animo, pur tanto feroce.
5. Era una notte chiara di stelle e serena, placido il mare, quasi che gli dèi volessero concederla propizia al delitto. La nave non s’era allontanata di molto; dei numerosi familiari di Agrippina due soli l’accompagnavano, Crepereio Gallo in piedi, non lontano dal timone, Acerronia distesa ai piedi di lei gioiva nel rievocare il pentimento del figlio, l’affetto di lui per la madre recuperato, quando, a un segno stabilito, precipita il tetto, appesantito da molto piombo. Crepereio rimase schiacciato e morì immediatamente; Agrippina e Acerronia furono protette dalle spalliere alte del giaciglio, che per caso erano tanto salde da non cedere al peso. Ma la nave non si spaccò sùbito perché nello scompiglio che seguì quelli che non sapevano, ed erano i più, provocavano impaccio ai consapevoI rematori allora ritennero di inclinare la nave tutta su un fianco e così affondarla; ma nemmeno loro riuscirono a ottenere sùbito il consenso e altri al contrario fecero gravare il peso sul fianco opposto, sì che l’affondamento avvenne con lentezza. Acerronia imprudentemente si mise a gridare che Agrippina era lei e che salvassero la madre dell’imperatore, sì che fu massacrata a colpi di pertica e di remo e di qualsiasi attrezzo navale offrisse il caso; Agrippina invece non aprì bocca e per questo non fu riconosciuta; ricevette solo una ferita alla spalla, si mise a nuotare, fu raccolta da una barca di pescatori, trasportata nel Lago Lucrino e di lì nella sua villa.
6. Qui si mise a riflettere che a quel fine era stata invitata con lettere ingannevoli, e ricevuta con onore particolare e che la nave era crollata a partire dalla sommità, non lontano dalla riva, non spinta dal vento, non per aver cozzato negli scogli, come può accadere a un edificio in terra ferma; ponendo mente alla fine di Acerronia e alla propria ferita, ritenne che l’unica difesa contro le insidie era quella di mostrare di non averle intuite. Inviò il liberto Agermo a comunicare al figlio che per grazia degli dèi e fortuna di lui s’era salvata da un incidente gravissimo; e lo pregava, benché certo atterrito per il rischio corso dalla madre, di differire il suo desiderio di vederla, perché per il momento aveva bisogno di riposo. E nel frattempo si finse tranquilla. Si fa medicare la ferita e curare il corpo, poi fa cercare il testamento di Acerronia e mettere sotto sigillo i suoi averi: soltanto questo non fu fatto per simulazione.
7. Nerone aspettava chi gli portasse la notizia che il delitto era stato compiuto; invece gli si comunicò che la madre s’era salvata, colpita solo da una lieve ferita, dopo aver corso un pericolo sufficiente a non aver dubbi sul responsabile. Venne meno dallo spavento e non faceva che gridare che ella si accingeva a venirgli contro, affrettando la vendetta, che avrebbe armato gli schiavi o aizzato i soldati o si sarebbe rivolta al Senato o al popolo, rinfacciandogli il naufragio, la ferita, i suoi amici uccisi: che cosa avrebbe potuto contrapporre? A meno che Burro e Seneca non proponessero qualche cosa; infatti li fece chiamare sùbito e non si sa se in precedenza fossero all’oscuro di tutto. Rimasero entrambi a lungo in silenzio, per non cercare di dissuaderlo inutilmente o perché lo ritenessero precipitato a tal punto che ormai era un uomo finito, se non si agiva prima di Agrippina. Poi Seneca fu il primo a riprendersi, guardò fisso Burro e gli chiese se non fosse opportuno ordinare ai militari di ucciderla. Ma questi gli rispose che i pretoriani erano fedeli a tutta la famiglia dei Cesari e, memori di Germanico, mai avrebbero osato commettere violenza contro la figlia di lui: toccava ad Aniceto mantenere la promessa. Questi, senza pensarci due volte, si assunse l’incarico del delitto; a quelle parole Nerone esclamò che quello era il giorno in cui gli si affidava l’impero e che l’autore d’un simile dono era un liberto. Andasse sùbito e portasse con sé i più decisi a obbedire. Lui intanto, quando gli dicono che è arrivato Agermo, inviato da Agrippina, prepara la scena del delitto; mentre quello riferisce il messaggio, gli getta tra i piedi una spada e, come se lo avesse colto sul fatto, ordina che lo si metta in catene, per far vedere che la madre aveva tramato l’assassinio del principe e che poi, per la vergogna che il suo attentato era stato scoperto, si era data spontaneamente la morte.
8. Quando si sparse la voce del pericolo che aveva corso Agrippina, come se fosse accaduto per incidente, tutti quelli che lo venivano a sapere, corsero su la spiaggia. Alcuni si spingono sul molo, altri salgono su le barche vicine, chi, quanto glielo consente la corporatura, entra in mare, chi tende le mani. Tutta la spiaggia echeggia di lamenti, invocazioni, del clamore di diverse domande e risposte incerte; affluisce una gran folla con fiaccole e quando apprende che Agrippina è sana e salva, si avviano per congratularsi con lei; ma alla vista d’una schiera armata e con aspetto minaccioso si disperdono. Aniceto fa circondare la villa da uomini armati, sfonda la porta, fa trascinare fuori tutti gli schiavi che gli si fanno incontro, finché arriva alla porta della camera da letto: erano rimasti di guardia in pochi, gli altri erano scappati per il terrore dell’irruzione. Nella camera una luce fioca, una sola ancella; Agrippina sempre più spaventata perché non veniva nessuno da parte del figlio e Agermo non tornava; ben diversamente si sarebbe presentata una lieta novella. Poi si rese conto d’esser sola, poi dello strepito improvviso, tutti indizi della sciagura imminente. Mentre l’ancella si allontanava, ella le disse: «Tu pure mi abbandoni?»; l’aveva appena detto quando scorse Aniceto, accompagnato da Erculeio, capitano d’una trireme, e da Obarito, centurione della flotta. Se era venuto per visitarla, gli disse, annunziasse pure che s’era ripresa; se a commettere un delitto, non poteva credere che lo mandasse il figlio: non poteva aver comandato il matricidio. I sicari circondano il letto ed Erculeio per primo la colpisce con la mazza sul capo; ella allora, al centurione che alza il pugnale per ucciderla protende il ventre dicendo: «Colpisci qui!». E, trafitta da molte ferite, muore.
9. Questi fatti sono stati tramandati in modo concorde. Che poi Nerone abbia contemplato la madre esanime e ne abbia lodato la bellezza, alcuni l’hanno riferito, altri lo negano. Fu cremata la notte stessa su un letto da banchetto e le esequie furono umili; né fu innalzato un tumulo né tracciato un recinto sul luogo, fino a che Nerone rimase al potere. Più tardi furono i domestici ad elevare un tumulo non molto alto, sulla via di Miseno, non lontano dalla villa di Cesare il dittatore, che in posizione molto elevata domina le insenature sottostanti. Quando fu acceso il rogo, un liberto di lei, Mnestere, si trafisse con le sue mani, non si sa se per affetto verso la padrona o per paura d’essere ucciso. Già da molti anni Agrippina aveva previsto che tale sarebbe stata la sua fine, ma non se n’era preoccupata. Infatti, quando aveva interrogato gli indovini Caldei sul futuro di Nerone, e questi avevano risposto che sarebbe stato imperatore e avrebbe ucciso la madre, ella aveva detto: «Uccida, purché regni».
10. Ma quando il delitto fu commesso, Cesare si rese conto di quanto fosse immane. Per tutto il resto della notte, ora rimaneva in silenzio, come impietrito, ora balzava in piedi in preda al terrore e quasi fuor di senno aspettava l’alba, come se dovesse portare la sua fine. Ma invece confermò la sua speranza l’atto di ossequio dei centurioni e dei tribuni, inviati da Burro, i quali gli presero la mano, si congratularono con lui per esser sfuggito al pericolo imprevisto e all’assassinio premeditato dalla madre. Quindi gli amici si recarono ai templi, e dietro il loro esempio i paesi vicini della Campania dimostrarono la loro letizia con sacrifici e messaggi. Ed egli, con simulazione opposta, si mostrava triste e quasi dolente per essersi salvato e versava lacrime per la morte della madre. Dato che l’aspetto dei luoghi non cambia come la faccia degli esseri umani, e si stendeva davanti ai suoi occhi la vista intollerabile del mare e della spiaggia (e c’era chi affermava d’aver udito un suono di tromba dai colli circostanti e un gemito dalla tomba della madre), si recò a Napoli e inviò una lettera al Senato, il contenuto della quale in breve era il seguente: che un sicario, Agermo, uno dei liberti di Agrippina, era stato trovato con la spada in mano ed essa aveva scontato la pena per la consapevolezza d’aver tramato il delitto.
11. Aggiunse colpe riesumate dal passato, che aveva voluto dividere il potere con lui e che le coorti giurassero fedeltà a una donna, e aveva preteso che anche il Senato e il popolo si degradassero a quel punto; e poiché lo aveva desiderato invano, detestava l’esercito, il Senato e la plebe e sempre aveva cercato d’impedirgli di fare largizioni e distribuzioni di viveri e aveva ordinato insidie a danno di personalità insigni.
Quanto aveva dovuto adoprarsi per impedirle che si presentasse di prepotenza in Senato e pronunciasse risposte alle legazioni straniere! Con allusione perversa anche ai tempi di Claudio, attribuì alla madre tutte le infamie del regno di lui, e giudicò la sua morte una vera fortuna per lo Stato. Poi riferì anche il naufragio: poteva trovarsi qualcuno tanto ingenuo da credere che fosse dovuto al caso? e che una donna, appena salva dal mare, mandasse un uomo solo, armato, capace di infrangere la sorveglianza delle coorti e della flotta imperiale? Sicché non solo Nerone, la cui atrocità superava la costernazione generale, ma anche Seneca era oggetto di deplorazione, poiché con quella lettera aveva firmato una vera e propria confessione.
12. Eppure tra i notabili si verificò una gara di adulazione: si decretarono suppliche, altari adorni in tutti i templi, si stabilì che le feste Quinquatrie, durante le quali era stato scoperto l’attentato, siano celebrate con spettacoli annuali; che nella Curia si ponga una statua di Minerva, e, accanto, una dell’imperatore e l’anniversario della nascita di Agrippina sia annoverato tra i giorni nefasti. Trasea Peto, che aveva lasciato passare in silenzio o con moderato assenso le precedenti adulazioni, a questo punto uscì dal Senato, procurando pericolo a se stesso, ma senza offrire agli altri uno spunto di libertà. Si verificarono anche frequenti prodigi, ma inutilmente: una donna mise al mondo un serpente, un’altra fu uccisa dal fulmine durante il coito con il marito; il sole improvvisamente si oscurò e cadde il fulmine su i quattordici rioni dell’Urbe: cose che peraltro avvenivano non per volontà degli dèi; tant’è vero che Nerone seguitò a regnare ancora per molti anni ed a commettere delitti. Ché anzi, per aggravare il malanimo contro la madre e dimostrare che con la sua scomparsa era aumentata la sua clemenza, concesse il ritorno in patria a due matrone insigni, Giunia e Calpurnia, e agli ex pretori Valerio Capitone e Licinio Gabolo, che erano stati espulsi da Agrippina. Consentì anche che fossero riportate in patria le ceneri di Lollia Paolina e che le si costruisse una tomba; inoltre assolse Iturio e Calvino, che lui stesso recentemente aveva relegato. In effetti Silana era morta non appena giunta a Taranto da un esilio lontano, quando già era in declino il potere di Agrippina, all’inimicizia della quale aveva dovuto soccombere, e forse era diventata più mite.
13. Nerone tuttavia si tratteneva nelle città della Campania, poiché non sapeva in che modo rientrare nell’Urbe, e si chiedeva con ansia se avrebbe trovato deferente il Senato e festante la plebe. Ma i più spregevoli, e mai vi fu reggia che ne producesse tanti, gli ripetevano che il nome di Agrippina era inviso e con la sua morte il favore popolare era aumentato; che vada sicuro e s’accorgerà della venerazione che lo circonda; al tempo stesso gli chiedono di precederlo. E trovano ogni cosa più propizia di quel che avevano promesso; le tribù che gli vanno incontro, i Senatori in abiti di festa, cortei di spose e di figli disposti in ordine di sesso e di età, lungo il suo percorso erette gradinate, come se si dovesse assistere a un trionfo. Quindi superbamente ascese al Campidoglio, vittorioso sul servilismo pubblico, e rese grazie agli dèi; dopo di che si abbandonò a tutte le libidini mal represse che prima, per soggezione della madre, comunque ella fosse, aveva tenuto a freno.
14. Da molto tempo bramava di fare le corse su la quadriga e, passione non meno disdicevole, di cantare con l’accompagnamento della cetra, come fanno gli istrioni. La competizione con il carro guidato da cavalli era, egli rammentava, un esercizio regale e spesso praticato dagli antichi comandanti, celebrato dai cantori e dedicato agli dèi; per la verità, i canti erano sacri ad Apollo, divinità suprema, e con tale apparato era visibile non solo nelle città greche, ma anche nei templi di Roma. Dato che ormai contrariarlo non era più possibile, Seneca e Burro, poiché non avrebbero potuto impedirgli tutte e due le cose, decisero di permettergliene almeno una: nella valle del Vaticano fu delimitata un’area, nella quale avrebbe potuto guidare i cavalli, senza dare spettacolo. Ben presto però il popolo romano vi fu ammesso, e lo coprì di applausi, come avviene con il volgo, sempre avido di divertimenti e tanto più esultante se riscontra nel principe i suoi stessi gusti. Poi, l’aver degradato la sua dignità non provocò in lui sazietà, come si riteneva, ma, al contrario, incitamento. E convinto che il disdoro sarebbe attenuato se fossero in molti a degradarsi, trascinò sulla scena i discendenti di famiglie nobili, che il bisogno rendeva venali.
Benché essi ormai siano morti, non ne farò i nomi; credo di doverlo ai loro antenati. Infatti l’atto riprovevole è quello di chi offrì loro denaro per disonorarsi, anziché per evitare che lo facessero. Anche noti cavalieri romani furono costretti a partecipare alle corse nell’arena con la promessa di doni cospicui, a meno che una ricompensa da parte di chi ha il potere di dare ordini non valga come un obbligo.
15. Tuttavia, per non seguitare a disonorarsi nei teatri, istituì i giochi detti Giovenali, ai quali partecipò gente di ogni classe. Nessuno si astenne per la nobiltà della nascita, l’età, le cariche rivestite dall’esercitare l’arte degli istrioni greci o latini fino ai gesti, ai canti non virili. Persino matrone di nascita nobile si esibirono in atteggiamenti indecenti; nei pressi del bosco che Augusto aveva creato tutt’intorno al lago destinato alle naumachie, furono costruiti ritrovi e taverne e messi in vendita oggetti per eccitare la lussuria. Vi si distribuivano compensi, che gli onesti spendevano per necessità, gli incontinenti per ostentazione. Così insensibilmente si diffondevano delitti e oscenità né mai vi fu una simile feccia intenta a offrire piaceri a gente dai costumi già corrotti. A stento salva il pudore anche chi vive onestamente, tanto meno si potrà conservare ritegno o moderazione o un’ombra di rettitudine là dove si fa a gara nel vizio. Finì che Nerone stesso si presentò sul palcoscenico, toccando con molta attenzione le corde della cetra e provando la voce con i maestri di canto. Era presente una coorte di militari, centurioni, tribuni e Burro, afflitto ma plaudente. Allora per la prima volta furono arruolati, con il titolo di Augustiani, dei cavalieri romani, giovani e di notevole vigore, alcuni protervi per natura, altri attirati dalla speranza di acquistare potere. Costoro facevano risonare il teatro di applausi notte e giorno e acclamavano la bellezza e la voce del principe con titoli degni degli dèi; e ne ricevevano celebrità e onore, quali si rendono agli uomini di valore.
16. Affinché non fossero note soltanto le sue doti teatrali, l’imperatore si dedicò altresì allo studio della poesia e adunò alcuni esperti nel comporre versi, benché ancora non celebri. Costoro, dopo la cena, sedevano tutti assieme e correggevano i versi che venivano portati loro o erano improvvisati sul luogo, sostituivano le espressioni buttate giù da lui alla meglio come dimostra la forma stessa dei poemi, che mancano d’ispirazione genuina né derivano da una unica fonte. Anche ai filosofi dedicava le ore successive al pranzo, per divertirsi dei dibattiti tra coloro che sostenevano dottrine opposte. Né mancavano quelli che amavano apparire gravi nel volto, anche tra gli spassi dell’imperatore.
17. Nello stesso lasso di tempo per lievi motivi scoppiò un conflitto feroce tra gli abitanti di Nocera e quelli di Pompei a proposito d’uno spettacolo di gladiatori, offerto da Livineo Regolo che, come ho già detto, era stato espulso dal Senato. La gente, con la mancanza di freni tipica di quelle città, incominciò con lo scambio di ingiurie, poi passò alle pietre, e finirono con l’impugnare le armi; ed ebbe la meglio la plebe di Pompei, dove aveva luogo lo spettacolo. Di conseguenza molti dei Nucerini tornarono nella loro città il corpo coperto di ferite, la maggior parte piangendo la morte di figli o di genitori. Il principe deferì il giudizio sul fatto al Senato, il Senato ai consoli; poi la cosa tornò ai Padri Coscritti e ai Pompeiani furono vietate per dieci anni riunioni del genere; e le loro associazioni, create illegalmente, furono sciolte. Livineo e quanti altri avevano provocato quell’incidente furono puniti con l’esilio.
18. Fu espulso dal Senato anche Pedio Bleso, denunciato dagli abitanti di Cirene per aver profanato il tesoro di Esculapio e aver commesso abusi nella leva dietro compensi e favoritismi. Gli stessi abitanti di Cirene accusarono Acilio Strabone, che, dopo la pretura, era stato inviato da Claudio in qualità di arbitro per una questione di terreni che, un tempo appartenuti al re Apione3 e poi lasciati al popolo romano insieme con il regno, erano stati occupati dai proprietari di terre confinanti, i quali ora cercavano di presentare come giusta e legittima la prolungata occupazione, avvenuta abusivamente. Ma poi che quei campi furono espropriati, si diffuse un gran malcontento contro l’arbitro; il Senato dichiarò di non essere al corrente degli incarichi dati da Claudio e di dover consultare l’imperatore. Nerone, pur approvando la sentenza di Strabone, ciononostante volle favorire gli alleati e scrisse concedendo loro i terreni usurpati.
19. Avvenne l’una dopo l’altra la morte di due uomini insigni, Domizio Afro e M. Servilio, che erano stati famosi per le alte cariche rivestite e per l’eloquenza, il primo per le orazioni nel Foro, Servilio per la lunga attività forense, poi per aver trasmesso il racconto dei fatti di Roma e per l’eleganza del suo modo di vivere, che lo rese ancor più illustre; pari al primo per l’ingegno, ma diverso nel costume.
20. (60 d.C.) Durante il quarto consolato di Nerone e di Cornelio Cosso, furono istituiti a Roma i giochi quinquennali, ad imitazione delle competizioni che si tengono in Grecia; i commenti furono varii, come accade per le cose nuove. Vi era chi ricordava che Cn. Pompeo era stato criticato dai più vecchi per aver costruito un teatro stabile. In precedenza infatti era d’uso rappresentare gli spettacoli su un palco eretto al momento, con gradinate costruite in fretta e, se vuoi rievocare tempi anteriori, il popolo assisteva alle rappresentazioni in piedi, per evitare, se stava seduto, che trascorresse giornate intere senza far nulla. Sarebbe stato meglio conservare l’uso antico, quando se ne occupava il pretore, senza che nessuno dei cittadini avesse l’obbligo di partecipare alle competizioni. Ma del resto i costumi della patria, caduti poco a poco in disuso, ormai erano completamente aboliti a causa del lusso importato da fuori; tanto che quanto aveva il potere di corrompere o d’esser corrotto lo potevi trovare a Roma, e la gioventù degenerava adottando gusti stranieri, dedicandosi alle palestre, all’ozio, a turpi amori, incoraggiata dal Senato e dall’imperatore, i quali non solo lasciavano via libera al vizio, ma addirittura costringevano i nobili a degradarsi sul palcoscenico, sotto il pretesto dell’eloquenza e della poesia. Poco mancava che si spogliassero nudi e calzassero i guantoni e praticassero la lotta anziché la milizia e l’arte della guerra. O forse aumenterebbe la giustizia e le decurie dei cavalieri svolgerebbero in modo migliore l’egregio compito del giudicare se avessero ascoltato flebili suoni o voci soavi da intenditori? Anche le notti erano dedicate ad azioni indecorose, affinché alla dignità non restasse neppure un momento e anzi, nella promiscuità, i più pervertiti osassero nelle tenebre ciò che avevano bramato di giorno.
21. Questi costumi indecenti andavano a genio ai più, se pure sotto il velo di motivazioni oneste. Anche i nostri antenati, dicevano, non avevano rifiutato il divertimento degli spettacoli, conforme alle condizioni di allora. Per questo avevano fatto venire istrioni dall’Etruria, corse di cavalli da Turii; in seguito al possesso dell’Acaia e dell’Asia, i giochi erano stati allestiti con più cura; però nessun romano di buona famiglia si sarebbe abbassato a salire sul palcoscenico nei duecento anni trascorsi dopo il trionfo di L. Mummio, il quale aveva offerto per primo quel genere di rappresentazioni nell’Urbe. Si era agito per parsimonia quando si era destinata una sede permanente al teatro, anziché costruirlo ogni anno con spesa ingente, e poi demolirlo. I magistrati4 non avrebbero più esaurito il proprio avere né il popolo avrebbe più preteso da loro le gare all’uso greco, dato che la spesa era a carico dello Stato. Le vittorie degli oratori e dei poeti avrebbero apportato incitamento agli ingegni migliori; e a nessuno degli arbitri sarebbe stato disdicevole assistere a manifestazioni decorose ed a divertimenti onesti. Quelle poche serate ogni cinque anni erano dedicate alla gioia, non alla corruzione e con tanta luce di fuochi non sarebbe stato possibile occultare nulla di indecente. In effetti, in quegli spettacoli non avvenne nulla di scandaloso, e nemmeno proruppero eccessivamente i favori della plebe, dato che, benché riammessi su le scene, gli istrioni erano esclusi dai ludi sacri. Nessuno raggiunse il primato nell’eloquenza, ma fu dichiarato vincitore Nerone. Il mantello alla foggia greca, che in quei giorni era stato indossato dai più, in seguito passò di moda.
22. Nel mezzo di questi avvenimenti fu vista brillare una cometa, il che, secondo l’opinione del volgo, annuncia il mutamento del sovrano. Di conseguenza, come se già Nerone fosse caduto, tutti si chiedevano chi sarebbe stato eletto. Era su le bocche di tutti il nome di Rubellio Plauto, il quale per parte di madre discendeva dalla famiglia Giulia. Egli osservava la tradizione degli antenati, era grave nel portamento e nella vita familiare austero e riservato; e quanto più per paura si teneva in ombra, tanto più aveva acquistato fama. La voce fu confermata a seguito dell’interpretazione, altrettanto infondata, della caduta d’un fulmine. Infatti furono colpite le vivande e spaccata la mensa alla quale sedeva Nerone nei pressi del lago Simbruino, nella città che ha nome Subiaco; ciò era avvenuto nel territorio di Tivoli, di dove traeva origine la famiglia paterna di Plauto, e di conseguenza lo credevano destinato per volere degli dèi: condividevano questa opinione in molti, avidi di avvalorare prima del tempo avvenimenti nuovi e ambigui, per la loro fallace vanità. Di conseguenza Nerone, colpito da questi fatti, scrisse a Plauto una lettera, chiedendogli di non turbare la quiete nell’Urbe e di sottrarsi ai propagatori di voci malevole; poiché possedeva terreni ereditati in Asia, avrebbe potuto trascorrervi i suoi anni giovanili in pace e senza alcun turbamento. Così Plauto vi si trasferì con la moglie Antistia e pochi familiari.
Negli stessi giorni la passione eccessiva per gesti singolari provocò a Nerone disapprovazione e pericolo: per nuotare si era immerso nella sorgente dalla quale fluiva verso Roma l’acqua Marcia, e si disse che con quel bagno avesse profanato acque sacre e la santità del luogo. Ne conseguì una malattia pericolosa, che parve confermare il corruccio degli dèi.
23. Corbulone intanto, dopo la distruzione di Artaxata, ritenne che fosse opportuno profittare dello spavento recente e occupare Tigranocerta; la devastazione di questa città avrebbe aumentato il terrore dei nemici oppure, se l’avesse risparmiata, avrebbe conseguito fama di clemenza; di conseguenza, vi si diresse, con l’esercito in atteggiamento pacifico, per non togliere al nemico la speranza del perdono, ma tuttavia senza aver deposto la diffidenza, poiché conosceva l’incostanza di quella gente, vile quando si trova in pericolo, pronta al tradimento, quando se ne presenta l’occasione. I barbari, ciascuno secondo il suo carattere, alcuni si presentano supplici, altri abbandonano i villaggi e fuggono nei campi e vi fu chi si rifugiò nelle grotte con quel che aveva di più caro. Di conseguenza, il comandante romano adottò sistemi diversi, fu clemente con i supplici, veloce nell’inseguire i fuggiaschi, implacabile con quelli che s’erano nascosti nelle grotte: ostruendo con rami e fascine l’ingresso e l’uscita delle caverne, li fece morire nelle fiamme. Lo aggredirono i Marsi, gente esperta in ruberie, difesa dai monti contro qualsiasi assalto, mentre passava davanti ai loro territori. Ma Corbulone lanciò contro di loro gli Iberi e così punì l’audacia del nemico con sangue straniero.
24. Sia il comandante sia l’esercito, pur non avendo subito alcun danno durante il conflitto, erano estenuati per le fatiche, la penuria di viveri, costretti com’erano a placare la fame con carne di pecora; soffrivano inoltre per la scarsità d’acqua, per l’estate torrida, le lunghe marce, disagi che solo la resistenza del comandante, che ne sopportava anche di più, rendeva tollerabili. Finalmente giunsero su terreni coltivati, fu mietuto il grano e d’assalto si impadronirono di una delle due fortezze, dove si erano rifugiati gli Armeni, mentre quelli che avevano respinto il primo assalto li strinsero d’assedio. Di qui Corbulone si recò nel territorio dei Tauraniti e riuscì a sfuggire a un pericolo imprevisto: non lontano dalla sua tenda fu scoperto un barbaro di famiglia non ignobile, armato di pugnale; sottoposto a tortura, confessò d’aver progettato l’insidia e fece il nome dei complici; quelli che furono riconosciuti rei furono puniti per aver partecipato all’attentato simulando amicizia. Non molto tempo dopo arrivarono legati da Tigranocerta per comunicare che le mura della città sono aperte e gli abitanti attendono ordini; e intanto, come dono ospitale, consegnano una corona d’oro. Corbulone li accolse onorevolmente e dalla città non fu portata via cosa alcuna, affinché, essendo rimasta intatta, conservasse più volentieri la subordinazione.
25. Ma la fortezza di Legerda, nella quale s’era rinchiuso un gruppo di giovani animosi, non fu espugnata senza conflitto; essi infatti avevano osato attaccare battaglia davanti alle mura ma poi, respinti entro le mura, cedettero alle armi degli aggressori, saliti sul terrapieno. Scontri che più facilmente riuscivano favorevoli per il fatto che i Parti erano impegnati nella guerra contro gli Ircani. Questi avevano inviato messi all’imperatore romano, pregandolo di ritenerli alleati di Roma, e ostentavano come prova della loro amicizia il fatto d’aver trattenuto Vologese dal combattere. Corbulone, affinché, attraversato l’Eufrate, non fossero accerchiati da scolte nemiche, li affidò a una scorta fino alle rive del Mar Rosso, sì che potessero rientrare in patria evitando il territorio dei Parti.
26. Anche Tiridate, che cercava di penetrare nei confini estremi dell’Armenia, ne venne impedito dal legato Verulano, accompagnato da soldati ausiliari; Corbulone stesso, con legioni celeri, lo aveva costretto ad allontanarsi e ad abbandonare ogni speranza di guerra. E stava già per occupare l’Armenia, dopo aver distrutto con massacri ed incendi tutti coloro che sapeva ostili a noi, quando sopraggiunse Tigrane, scelto da Nerone per assumere il potere. Apparteneva all’aristocrazia della Cappadocia, era nipote del re Archelao, ma s’era umiliato fino ad assumere un atteggiamento da servo poiché per lungo tempo era vissuto a Roma come ostaggio. Non fu accolto dal consenso generale, perché perdurava in molti la devozione verso gli Arsacidi; ma c’erano anche parecchi che, in odio all’arroganza dei Parti, preferivano un sovrano mandato dai Romani. Gli fu assegnata una scorta di mille legionari, tre coorti di alleati e due squadroni di cavalleria; inoltre, affinché il nuovo regno fosse più facilmente protetto, fu ordinato a ciascuna parte dell’Armenia di obbedire a Farasmane, a Polemone, ad Aristobulo, ad Antioco, a seconda della contiguità con l’uno o con l’altro. Quindi Corbulone si recò in Siria, che era rimasta priva d’un governatore per la morte di Numidio e gli era stata assegnata.
27. Nello stesso anno Laodicea, una delle più illustri città dell’Asia, crollata per un terremoto, risorse con forze proprie, senza nessun aiuto da parte nostra. In Italia, l’antica città di Pozzuoli ricevette da Nerone il nome e i diritti di colonia. A Taranto e ad Anzio, benché vi fossero destinati dei veterani, la cosa non procurò alcun giovamento allo spopolamento di quei luoghi, poiché per la maggior parte essi si sparsero nelle province nelle quali avevano fatto il servizio militare, e poi, non essendo abituati a prender moglie ed allevare figliuoli, lasciavano le loro famiglie prive di discendenti. Non accadeva più come un tempo, quando si trasferivano legioni al completo, compresi i tribuni e i centurioni, ciascuno con le proprie formazioni, affinché costituissero una comunità basata su concordia e affetto reciproco. Oggi, al contrario, si mettono insieme uomini ignoti gli uni a gli altri, appartenenti a formazioni diverse, senza un capo, senza amicizia tra loro, quasi un’accozzaglia di genti di razze diverse: non una vera colonia, ma una moltitudine anonima.
28. Di solito si affidava all’arbitrio del Senato l’elezione dei pretori, ma, poiché si erano verificate competizioni più accese del solito, l’imperatore cercò un mezzo di conciliazione collocando i candidati in soprannumero ciascuno a capo d’una legione. E aumentò l’autorità del Senato con la decisione secondo la quale coloro che si fossero appellati al Senato da giudici non autorizzati dallo Stato, dovessero depositare la stessa cifra come se si appellassero all’imperatore; mentre in precedenza quella forma di appello era libera ed esente da penalità.
Alla fine dell’anno, un cavaliere romano, Vibio Secondo, a seguito di denuncia degli abitanti della Mauritania, fu condannato di concussione ed esiliato; gli evitarono una pena più grave gli sforzi del fratello, Vibio Crispo.
29. Sotto il consolato di Cesennio Peto e di Petronio Turpiliano, abbiamo subito in Britannia un grave rovescio; qui il legato A. Didio, come ho già detto, s’era limitato a conservare le conquiste fatte e il successore, Veranio, che con moderate incursioni aveva devastato il territorio dei Siluri, era stato impedito dalla morte di protrarre oltre le ostilità; questi, finché visse, aveva goduto la fama di uomo di grande autorità, ma nelle parole estreme del suo testamento rivelò la sua ambizione: infatti, dopo essersi espresso in termini adulatori verso Nerone, aggiunse che avrebbe soggiogato l’intera provincia, se avesse avuto ancora due anni di vita. Allora si trovava al governo della Britannia Paolino Svetonio, emulo di Corbulone nella esperienza militare e, secondo il giudizio del popolo, che non lascia mai nessuno senza un rivale, desideroso di eguagliare l’onore della conquista dell’Armenia con la sottomissione dei ribelli. Di conseguenza, si appresta ad aggredire l’isola di Mona, forte per il numero degli abitanti e perché rifugio dei profughi, e costruisce navi dallo scafo piatto, atte a quel mare di scarsa profondità e insidioso. Così traghettò la fanteria; seguirono i cavalieri a guado, o, dove l’acqua era più fonda, con i cavalli a nuoto.
30. Stava su le sponde la schiera nemica, densa d’uomini in armi; si aggiravano tra loro donne vestite a lutto, a guisa di Furie, con le chiome disciolte, e fiaccole in mano; attorno i Druidi, le braccia levate al cielo, pronunciavano anatemi; i soldati furono atterriti da quella vista insolita e, quasi avessero le braccia legate, offrivano il corpo immoto alle ferite. Ma poi, rinfrancati dal comandante e incoraggiandosi l’un l’altro a non aver paura d’una schiera di donne e di fanatici, muovono all’assalto, atterrano quelli che si fanno incontro, li avvolgono nel loro stesso incendio. Dopo di che, fu posto un presidio ai vinti e furono tagliati i boschi, sacri alle loro feroci superstizioni; essi infatti ritenevano un dovere sacro venerare gli dèi con il sacrificio dei prigionieri e consultare gli dèi con viscere umane. Mentre Svetonio era intento a queste cose, ricevette la notizia d’una improvvisa sollevazione della provincia.
31. Prasutago, re degli Iceni, illustre per una ricchezza d’antica data, aveva nominato suo erede Cesare e le proprie figlie, convinto che con questo atto d’omaggio il suo regno e la sua casa sarebbero stati al sicuro da ogni offesa. Invece avvenne il contrario: il regno fu depredato dai centurioni, la sua casa dagli schiavi, quasi fosse preda di guerra. Per prima cosa, sua moglie Budicca fu colpita con le verghe, le figlie stuprate; i notabili Iceni furono spogliati dei beni aviti, come se i Romani avessero ricevuto in dono l’intera regione e i parenti del re furono trattati come servi. Per queste offese e il timore di altre ancora più gravi, quando il paese fu ridotto a provincia, gli Iceni danno di piglio alle armi e incitano alla rivolta i Trinovanti e quanti altri, non ancora umiliati dall’esser tenuti come schiavi, con segrete congiure avevano progettato di riconquistare la libertà, mossi da odio inesorabile contro i veterani. Costoro infatti, trasferiti recentemente come coloni a Camulodunum, li scacciavano dalle loro case, li spogliavano dei campi, chiamandoli prigionieri e schiavi, mentre i soldati favorivano la prepotenza dei veterani, per analogia del costume e sperando di potersi permettere un giorno la stessa arroganza. Inoltre, era stato dedicato un tempio al divo Claudio, che da loro era visto come la rocca d’un dominio perpetuo, e i sacerdoti prescelti spendevano tutte le risorse locali sotto l’aspetto del culto. Né del resto sembrava difficile distruggere una colonia che non era difesa da alcuna fortificazione, poiché i nostri comandanti non avevano provveduto a farlo, intenti a procurarsi ciò che era piacevole prima che l’utile.
32. Mentre avvenivano questi fatti, a Camulodunum la statua della Vittoria cadde all’indietro, come se incalzata dai nemici. Donne forsennate gridavano che era imminente una sciagura e che nel loro parlamento si era udito il mormorio di voci straniere, che nel teatro s’erano levate grida e nell’estuario del Tamigi era stata vista l’immagine della colonia distrutta; già l’Oceano era apparso del colore del sangue e al ritirarsi dei marosi erano rimaste le impronte di corpi umani, segni che incutevano speranze ai Britanni, terrore ai veterani. Ma Svetonio era assente; perciò essi chiesero aiuto al procuratore Deciano; il quale mandò non più di duecento uomini senza armi adeguate; e già era insufficiente la guarnigione locale. I soldati, fiduciosi nella protezione del tempio e impediti da quelli che, segretamente complici della rivolta, provocavano scompiglio nelle loro decisioni, non avevano predisposto né un terrapieno né un fosso e non avevano allontanato i vecchi e le donne, in modo che rimanessero soltanto i giovani; improvvidi, quasi fossero in piena pace, furono accerchiati da una moltitudine di barbari. Al primo assalto, furono devastate e date alle fiamme tutte le altre costruzioni; il tempio, nel quale s’erano rifugiati, dopo un assedio di due giorni fu espugnato. I Britanni vittoriosi mossero incontro a Petilio Ceriale, legato della nona legione, che accorreva per portare aiuto, sconfissero la legione e sterminarono tutto quel che c’era di fanteria. Ceriale con la cavalleria si rifugiò nell’accampamento e fu difeso dalle fortificazioni. Il procuratore Cato, spaventato per la sconfitta e per l’odio dei provinciali, che con la sua avidità aveva spinti alla guerra, si trasferì nella Gallia.
33. Svetonio, passando con fermezza ammirevole in mezzo ai nemici, giunse a Londinium5, città non distinta dal titolo di colonia, ma molto conosciuta per il gran numero di mercanti e di carovane. Qui stette, incerto se sceglierla come base delle operazioni; ma, tenuto conto del numero esiguo dei combattenti e del fatto che la temerità di Petilio era stata punita con gravi prove, stabilì di salvare la provincia con il danno d’una sola città. Né si piegò per le lacrime e il pianto di coloro che invocavano il suo aiuto, ma dette il segnale della partenza e accolse nelle sue file quanti volevano essergli compagni; tutti quelli che la debolezza del sesso o degli anni o l’attaccamento al luogo aveva trattenuti furono sterminati dal nemico. Lo stesso massacro avvenne nel municipio di Verniamo, poiché i barbari, trascurando le fortezze e le guarnigioni militari, depredavano il magazzino militare, ricco dis prede e privo di difensori, felici del bottino e alieni dagli sforzi. È provato che nei luoghi da me citati perirono settantamila tra cittadini e alleati. I barbari infatti non si davano a catturare prigionieri per poi venderli, né a far mercato delle prede, ma si avventavano sugli uomini per impiccarli, bruciarli, crocifiggerli, come se, consapevoli di dover scontare un giorno ciò che avevano fatto, volessero vendicarsi fino a che erano in tempo.
34. Svetonio disponeva ormai della quattordicesima legione, dei vessillari della ventesima e di ausiliari prelevati dagli accampamenti vicini, più o meno diecimila uomini armati, quando si accinse a tralasciare ogni indugio e attaccare battaglia. Scelse una località angusta, chiusa a tergo da una foresta, per esser sicuro di non aver nemici se non di fronte e che fosse una pianura aperta, senza timore di insidie. I legionari si dispongono compatti, con attorno uomini dalle armi leggere, ai fianchi la cavalleria in massa serrata. Le orde dei Britanni si muovevano in turbe esultanti, numerosi come mai s’era visto e tracotanti al punto che s’erano portati appresso le mogli affinché assistessero alla loro vittoria, collocate su carri, disposti al limitare estremo del campo.
35. Budicca portava le figlie davanti a sé sul carro e qualunque nazione incontrasse, ripeteva che era costume dei Britanni esser comandati in guerra da donne, ma che questa volta essa, discendente di antenati illustri, non mirava a rivendicare il regno, gli averi, ma, come una donna del popolo, la libertà perduta, il corpo straziato dalle verghe, il pudore violato delle figlie. A questo punto s’era spinta la cupidigia dei Romani, da non lasciare incontaminati i corpi nemmeno dei vecchi e delle vergini. Ma ora erano presenti gli dèi della sacrosanta vendetta; la legione che aveva osato dar battaglia era caduta; i sopravvissuti se ne stavano nascosti negli accampamenti o cercavano attorno uno scampo nella fuga; non avrebbero resistito al fragore, alle grida di tante migliaia di uomini né all’urto del loro furore. Se i Britanni consideravano l’entità delle loro armate e i motivi della guerra, quel giorno bisognava vincere o morire. Una donna l’aveva deciso per sé: gli uomini vivessero pure, da servi.
36. Ma Svetonio, in quel grave cimento, anche lui non taceva. Benché confidasse nel valore dei suoi, tuttavia rivolgeva loro esortazioni e preghiere, diceva loro di non fare attenzione alle grida, alle vane minacce dei barbari, e che tra loro si vedevano più donne che giovani validi. Imbelli, inermi com’erano, avrebbero ceduto sùbito, non appena si fossero resi conto delle armi e del valore degli uomini che tante volte li avevano sconfitti. Anche tra tante legioni, erano pochi quelli che vincevano le battaglie; alla loro gloria si sarebbe aggiunto il vanto d’aver raggiunto in pochi la fama d’un esercito intero. Badassero solo a restare compatti e, dopo aver lanciato i giavellotti, seguitassero a seminare strage e massacro con le spade e con gli scudi, senza curarsi di riportare prede; una volta raggiunta la vittoria, tutto sarebbe appartenuto a loro. Le parole del duce accesero in loro tanto ardore che i veterani, esperti di tante battaglie, erano pronti a lanciare i giavellotti, sì che Svetonio, ormai sicuro della vittoria, dette il segnale dell’attacco.
37. All’inizio la legione si mantenne immota, protetta dall’angustia del luogo, ma una volta che ebbero esaurito i giavellotti, scagliati a colpo sicuro su i nemici che si avvicinavano, si precipitarono all’assalto disposti a cuneo. Fu pari lo slancio degli ausiliari, mentre la cavalleria, con le aste distese, infrangeva tutto ciò che si opponeva validamente ad essa. Gli altri volsero le spalle, ma la fuga non era facile, perché i carri disposti tutt’attorno impedivano l’uscita. I soldati non si astenevano neppure dal massacrare le donne e anche i corpi dei cavalli, trafitti dai dardi, aumentavano il cumulo dei morti. La gloria di quella giornata fu luminosa e paragonabile alle vittorie antiche: poiché c’è chi racconta che furono uccisi poco meno di ottantamila Britanni mentre i nostri caduti furono quattrocento e poco meno i feriti. Budicca si tolse la vita con il veleno. E Penio Postumo, Prefetto del campo della seconda legione, quando apprese il successo riportato dalla quattordicesima e dalla ventesima legione, per aver defraudato la propria legione di quella gloria e aver trasgredito, contro la disciplina militare, agli ordini del suo capo, si trafisse con la propria spada.
38. Poi tutto l’esercito fu trattenuto sotto le tende in attesa di condurre a termine la guerra. Nerone lo aumentò inviando duemila legionari dalla Germania, otto coorti di ausiliari e mille cavalieri; con il loro arrivo rese possibile alla legione nona di colmare i suoi vuoti con legionari. Le coorti e le ali furono alloggiate nei nuovi quartieri d’inverno, e quelle tra le popolazioni che erano state infide o apertamente nemiche, furono messe a ferro e fuoco. Ma nulla affliggeva quella gente quanto la fame, poiché non s’erano curati di seminare e gli uomini di ogni età s’erano dedicati alla guerra, certi com’erano di potersi servire dei nostri viveri. Quelle genti ferocissime erano poco disposte alla pace, perché Giulio Classiciano, inviato come successore di Cato, era in disaccordo con Svetonio e, anteponendo inimicizie private al bene comune, aveva diffuso la voce che era opportuno aspettare un nuovo legato, affinché un altro, immune da odio verso il nemico e dall’orgoglio del vincitore, avrebbe trattato con clemenza gli arresi. Al tempo stesso, mandava a dire a Roma che non s’aspettassero la conclusione delle ostilità se non mandavano un successore a Svetonio, i cui insuccessi attribuiva a colpa di lui, i risultati favorevoli alla fortuna.
39. A questo punto fu inviato ad esaminare la situazione della Britannia un liberto di Nerone, Policlito, sul quale l’imperatore faceva assegnamento affinché con la sua autorità mettesse pace tra il legato e il procuratore e soprattutto riuscisse a pacificare l’animo dei barbari ribelli. Policlito non mancò di mettersi in viaggio con una scorta imponente molto costosa, percorse l’Italia e la Gallia, e poi, dopo aver attraversato l’Oceano, proseguì in tale apparato da impressionare persino i nostri soldati. Ma per i nemici fu motivo d’irrisione, poiché, animati com’erano dall’amore della libertà, non conoscevano ancora la potenza dei liberti; e anzi si meravigliavano che un comandante e un esercito capaci di vincere una guerra così grave obbedissero a dei servi. Tutto ciò peraltro venne riferito all’imperatore con delicatezza; Svetonio fu trattenuto a dirigere gli affari locali, ma poiché lungo la costa aveva perduto poche navi, inclusi i rematori, come se la guerra fosse ancora in corso, ricevette l’ordine di consegnare l’esercito a Petronio Turpiliano, console uscito dalla carica. Questi non provocò i nemici né fu molestato da loro e conferì l’onorato nome di pace alla sua pigra inerzia.
40. (61 d.C.) Quell’anno stesso, a Roma furono commessi due delitti singolari, dovuti uno alla temerità d’un senatore, l’altro d’un servo. Viveva a Roma un certo Domizio Balbo che l’età avanzata, la mancanza di figli e la ricchezza esponevano alle insidie. Un suo parente, Valerio Fabiano, già avviato alla carriera delle cariche, spacciò per vero un falso testamento, con la complicità di due cavalieri romani, Vinicio Rufino e Terenzio Lentino. Questi a loro volta si erano associati Antonio Primo e Asinio Marcello. Antonio era un uomo pronto a tutto, Marcello noto perché Asinio Pollione era suo avo, ed era considerato persona di costumi pregevoli, tranne che riteneva la mancanza di denaro la peggiore delle sventure. Fabiano dunque fece apporre sul falso testamento la firma di questi che ho nominato e di altri meno illustri. Quando questi fatti furono provati in Senato, Fabiano, Antonio, Rufino ed Asinio furono condannati, in base alla legge Cornelia6. Marcello, il ricordo degli avi e le preghiere di Nerone lo sottrassero alla pena, ma non al disonore.
41. Lo stesso giorno condusse alla rovina anche Pompeo Eliano, un giovane ex questore; poiché al corrente del reato di Fabiano, gli fu interdetto il soggiorno in Italia e in Ispagna, dov’era nato. La stessa ignominia fu inflitta a Valerio Pontico, per aver deferito al giudizio del pretore i rei, onde sottrarli al processo del Prefetto dell’Urbe, sperando di eludere la pena, sul momento sotto la veste legale, in seguito con una trasgressione. Con una sentenza del Senato fu aggiunto il comma che chi per denaro avesse comperato o venduto un simile servigio fosse tenuto a scontare la stessa pena di chi, secondo il pubblico giudizio, fosse condannato per calunnia.
42. Non molto tempo dopo uno schiavo uccise il prefetto dell’Urbe, Pedanio Secondo, sia perché questi gli aveva negato la libertà, di cui era stato già stabilito il prezzo, sia perché, acceso d’amore per un adolescente, non tollerava che il padrone fosse suo rivale. Secondo un costume antico, tutti gli schiavi che abitavano sotto lo stesso tetto dovevano essere mandati a morte, e vi fu un tumulto di popolo, in difesa di tutti quegli innocenti; si giunse fino a una vera sollevazione e fu circondato il Senato, nel quale c’era chi si opponeva a quella severità eccessiva mentre più numerosi quelli che ritenevano di non dover mutare la legge. Di questi faceva parte C. Cassio, il quale, quando fu il suo turno di parlare, si espresse in questi termini:
43. «Padri Coscritti, m’è accaduto più d’una volta, trovandomi presente in questa assemblea, di assistere alla richiesta che venissero emanati nuovi decreti dal Senato, in contrasto con le istituzioni e le leggi degli avi nostri. Né mai mi opposi, non perché dubitassi che su qualsiasi argomento un tempo s’è provveduto meglio e con maggiore equità di oggi e che ogni modifica avrebbe apportato un peggioramento, ma affinché non sembrasse che per troppo amore del costume antico volessi mettere in mostra gli studi a cui mi dedico. Al tempo stesso non ho ritenuto di dover sminuire con frequenti discorsi in contraddittorio quel poco di autorità che posseggo, perché rimanesse intera, se mai un giorno lo Stato avesse bisogno del mio consiglio. Ciò che è accaduto oggi, un consolare assassinato in casa sua per l’insidia d’uno schiavo, senza che nessuno lo abbia impedito o abbia denunciato il colpevole, benché non sia ancora stata emanata la sentenza, in forza della quale è prevista la pena capitale a tutti gli schiavi; e dunque, decretate l’impunità, per Ercole! Chi sarà difeso dalla posizione che occupa, quando non è servita nemmeno al Prefetto dell’Urbe? Chi sarà protetto dal numero degli schiavi, quando Pedanio Secondo non è stato difeso da quattrocento? A chi porterà aiuto la schiavitù, quando nemmeno la paura li renderà vigili sui pericoli che ci minacciano? O forse, come qualcuno suppone senza arrossire, l’assassino ha vendicato offese fatte a lui, perché aveva concordato d’esser liberato pagando con peculio paterno, o perché gli era stato rapito uno schiavo che aveva ereditato? Dichiariamo addirittura che il padrone è stato ucciso a buon diritto.
44. Vogliamo andare in cerca di buone ragioni in un caso sul quale si è deliberato da uomini più saggi di noi? Ma anche se toccasse a noi decidere per primi, credete voi che uno schiavo si sia proposto di sopprimere il padrone, senza che gli sia sfuggita una parola di minaccia, né abbia palesato imprudentemente il suo proposito? Ammettiamo pure che sia riuscito a tener nascosto il suo proposito e abbia approntato l’arma in mezzo a persone che non sapevano nulla: ma come ha fatto a passare in mezzo alle sentinelle, ad aprire la porta della camera da letto, a portar dentro il lume, a compiere l’assassinio, senza che nessuno se ne sia accorto? Molti indizi precedono un delitto: se i servi denunciano, ciascuno di noi, pur essendo solo tra molti, potrà vivere sicuro, purché circondato da uomini vigili; e infine, se dovremo perire, non saremo invendicati in mezzo ai malvagi. I nostri maggiori sono stati sempre sospettosi riguardo all’animo degli schiavi, anche se, nati nelle loro terre o nella loro stessa casa, sùbito ricevevano la benevolenza dei padroni. Ma da quando abbiamo in casa gente di vari paesi, che hanno costumi diversi, religioni straniere o non ne hanno alcuna, un’accozzaglia simile non riuscirai a tenerla a freno se non con la paura. Certamente morirà qualche innocente. Ma non vengono estratti a sorte anche dei prodi, quando in un esercito sconfitto si condanna a morire sotto le verghe uno su dieci? Ogni grande esempio reca con sé qualche cosa di iniquo e ciò che colpisce i singoli è compensato dal vantaggio di tutti».
45. Nessuno ebbe il coraggio di opporsi al parere di Cassio, ma al silenzio dei singoli rispondevano le voci diverse di coloro che commiseravano il numero o l’età o il sesso e l’innocenza indubitabile dei più; e tuttavia prevalsero coloro che erano favorevoli alla pena capitale. Ma non si poteva eseguirla, tanta era la folla che s’era addensata e minacciava con pietre e fiaccole. Nerone allora rimproverò il popolo con un editto e fece collocare un cordone di soldati lungo la strada che i condannati dovevano percorrere per esser portati al supplizio. Cingonio Varrone espresse il parere che fossero deportati dall'Italia anche i liberti che vivevano sotto lo stesso tetto; ma l’imperatore fu contrario, poiché se la pietà non aveva mitigato quell’uso antico, almeno non fosse aggravato per crudeltà.
46. Sotto gli stessi consoli, fu condannato per concussione Tarquizio Prisco, a seguito di denuncia dei Bitini, con immensa soddisfazione dei Padri, i quali non avevano dimenticato che il suo proconsole, Statilio Tauro, era stato accusato da lui. Nelle Gallie, Q. Volusio, Sestio Africano e Trebellio Massimo fecero il censimento, emuli per nascita i primi due, eppure dovettero sopportare la superiorità di Trebellio, che entrambi tenevano a vile.
47. Lo stesso anno morì Memmio Regolo, famoso, per quanto è consentito dal prestigio dell’imperatore, che oscura tutti gli altri, per l’autorità e la fermezza, illustre al punto che, durante una malattia di Nerone, mentre gli adulatori attorno a lui dicevano che, se avesse dovuto morire, sarebbe stata la fine dell’impero, egli rispose che lo Stato aveva un sostegno sicuro. E mentre quelli gli domandavano chi fosse il migliore, rispose Memmio Regolo. Regolo tuttavia seguitò a vivere dopo questo, protetto dalla riservatezza della sua esistenza, dal fatto che la sua nobiltà era recente e il patrimonio non tale da suscitare invidia. Lo stesso anno fu dedicato un ginnasio a Nerone, e offerto con generosità greca l’olio a cavalieri e senatori.
48. Sotto il consolato di P. Mario e L. Afinio il pretore Antistio, del quale ho ricordato l’impudenza durante il periodo in cui era tribuno della plebe, compose versi ingiuriosi contro l’imperatore e li recitò durante un banchetto nel quale erano presenti molti commensali, in casa di Ostorio Scapola. Di conseguenza fu denunciato da Cossutiano Capitone, che poco innanzi aveva recuperato la dignità senatoria, grazie alle preghiere di suo suocero Tigellino, per il reato di lesa maestà. In questa occasione fu rimessa in vigore quella legge, e si riteneva lo si facesse non tanto per distruggere Antistio quanto a maggior gloria dell’imperatore, affinché potesse sottrarlo alla pena capitale in base alla sua potestà tribunicia. E benché Ostorio, chiamato a deporre, dichiarasse di non aver udito nulla, si prestò fede ai testimoni a carico; e Giunio Marnilo, console designato, propose che il colpevole fosse privato del titolo di pretore e condannato a morte, secondo il costume degli avi. Gli altri tutti consentirono, ma Trasea Peto, dopo aver reso molto onore all’imperatore e biasimato aspramente Antistio, disse che qualunque pena meritasse il colpevole, sotto un principe ottimo il Senato non dovesse decretarla se non costretto da fatti molto gravi. Da tempo erano stati aboliti il carnefice e il laccio, le pene erano stabilite dalle leggi e le condanne a morte venivano emanate senza crudeltà da parte dei giudici né disonore per i tempi. Ché se lo si fosse deportato in un’isola e confiscati i beni, quanto più a lungo avesse trascinato l’esistenza, tanto più avrebbe vissuto miseramente e avrebbe rappresentato un più vistoso esempio della clemenza dell’imperatore per il futuro.
49. L’atteggiamento liberale di Trasea ebbe la meglio sul servilismo degli altri e quando il console concesse il voto per divisione, i senatori si pronunciarono d’accordo con lui, tranne pochi; il più disposto all’adulazione fu A. Vitellio, sempre pronto a provocare i migliori quanto incapace di tener testa a chi gli rispondeva, come usano fare i vili. Ma i consoli non ebbero il coraggio di applicare il decreto del Senato e scrissero all’imperatore per avere la sua autorizzazione. Questi, l’animo diviso tra l’ira e l’esitazione, finì col rispondere che Antistio, senza la minima provocazione, aveva pronunciato ingiurie gravissime all’indirizzo dell’imperatore; che ne era stato sollecitato il castigo dai Padri Coscritti e sarebbe stato giusto decretare una pena adeguata alla gravità del delitto. Quanto a lui, che sarebbe intervenuto per frenare la severità dei deliberanti, non si opponeva a una condanna moderata; stabilissero come volevano: concedeva loro anche facoltà di assolvere. In Senato furono pronunciate queste e altre simili considerazioni e, benché il risentimento di Nerone fosse evidente, né i consoli formularono proposte diverse né Trasea ritrattò quanto aveva detto né gli altri si discostarono dal voto che avevano emesso: alcuni per non sembrare d’aver voluto esporre il principe al malanimo, altri, i più numerosi, perché si sentivano sicuri per il numero, Trasea infine con il coraggio consueto e per non essere da meno alla sua fama.
50. Fu perseguito per un reato non diverso Fabrizio Veientone, per aver scritto molte cose ingiuriose contro senatori e sacerdoti in quei libri che aveva intitolato Codicilli. L’accusatore, Tullio Gemino, aggiungeva che egli aveva fatto mercato dei favori dell’imperatore da lui ottenuti e del diritto di accedere alle cariche. Per questo motivo il giudizio fu affidato a Nerone ed egli espulse Veientone dall’Italia e fece dare alle fiamme le sue opere; libri che furono cercati e letti, fino a che era pericoloso procurarseli, ma poi la libertà di averli li condannò all’oblìo.
51. Ma mentre ogni giorno le pubbliche sciagure si facevano più gravi, venivano meno i rimedi: morì Burro, non si sa se per malattia o per veleno. Si faceva l’ipotesi che fosse malato, poiché di giorno in giorno gli si gonfiava la gola, tanto che non passava il respiro. Così finì di vivere. Molti affermavano che per ordine di Nerone gli era stato spalmato il palato, a guisa di linimento, d’una sostanza nociva e che Burro aveva intuito il delitto e quando il principe era andato a visitarlo, voltò il viso per non vederlo e alle sue domande rispose: «Per me, sto bene». Nei cittadini durò a lungo il rimpianto di lui, per il ricordo del suo valore e perché i successori erano uno una brava persona ma inetto, l’altro un notissimo lestofante. Cesare infatti aveva imposto alle coorti pretoriane due comandanti, Fenio Rufo perché gradito al popolo come sovrintendente onesto dell’Annona, e Ofonio Tigellino, del quale approvava i vizii inveterati e la pessima fama. Ciascuno dei due si comportò conforme al carattere che di lui si conosceva: Tigellino ebbe maggior potere su l’animo del principe e fu ammesso a partecipare alle sue intime turpitudini; Rufo di ottima fama presso il popolo e l’esercito, cosa che gli confermava l’avversione di Nerone.
52. La morte di Burro segnò la fine del potere di Seneca, poiché i sani princìpi non avevano più lo stesso potere dopo che era venuto a mancare uno dei consiglieri e Nerone era incline a frequentare i peggiori. Questi investirono Seneca con varie accuse, quella di voler aumentare ancora la propria ricchezza, già immensa per un privato, di conquistare le simpatie dei cittadini, di superare l’imperatore stesso per lo splendore delle ville e dei giardini. Lo accusavano anche di attribuire soltanto a se stesso il dono dell’eloquenza e d’essersi messo a comporre versi con maggiore frequenza, da quando Nerone aveva preso gusto alla poesia.
E poi, apertamente contrario ai divertimenti dell’imperatore, criticava la sua destrezza nella guida dei cavalli e ne derideva la voce, tutte le volte che cantava. Fino a quando si crederà che nello Stato non vi sarà nulla di famoso se non scoperto da lui? Ormai, Nerone non era più un bambino, era nel pieno vigore della giovinezza: si liberasse una buona volta del suo maestro, poiché era stato istruito da insegnanti sufficientemente grandi nei suoi avi.
53. Seneca non era all’oscuro di queste critiche; gliele riferivano coloro che avevano a cuore l’onestà; e quando s’accorse che l’imperatore evitava sempre più la sua compagnia, sollecitò un’udienza e, avendola ottenuta, così parlò: «Sono quattordici anni, Cesare, che ho promosso le tue speranze e otto da quando sei imperatore; durante questi anni, tu hai accumulato su di me tanti onori e tante ricchezze che alla mia felicità non manca nulla, tranne che moderarla. Mi servirò di esempi magnanimi, desumendoli non dalla mia situazione, ma dalla tua. Il tuo trisavolo Augusto consentì ad Agrippa di ritirarsi a Mitilene, a C. Mecenate di vivere nell’Urbe senza incarichi di sorta, a guisa di straniero. Il primo era stato suo compagno nelle guerre, il secondo investito a Roma di varie incombenze ottennero entrambi compensi ingenti, ma non sproporzionati ai loro grandi meriti. Che cosa mai ho potuto offrirti io in cambio della tua munificenza, se non gli studi, se posso dirlo, coltivati nell’ombra, dai quali ho tratto fama soltanto perché in me si riconosce colui che ti ha impartito i primi insegnamenti da giovinetto, altissimo compenso alla mia opera. Ma tu invece m’hai donato un credito immenso, una ricchezza smisurata, tanto che spesso mi domando: sono io, nato da un equestre, in una città di provincia, quello che ora è annoverato tra le personalità più altolocate della città? In mezzo a nobili insigniti da una lunga serie di onori, ha potuto emergere un uomo nuovo? Dov’è quell’animo che si contentava di così poco? Ha creato tali giardini, si aggira in località suburbane e in proprietà così vaste, gode di rendite così opulente? Posso addurre una giustificazione sola, che non ho potuto oppormi ai tuoi doni.
54. Entrambi abbiamo colmato la misura, tu, di quanto un principe possa donare a un amico, io, di quanto l’amico possa accettare dal principe. Il resto non fa che aumentare l’invidia; che, come ogni cosa mortale, è al di sotto della tua grandezza, ma pesa su di me; e sono costretto a difendermi. Allo stesso modo che, se mi trovassi nella vita militare o per la via stanco ti pregherei di darmi un sostegno, così ora, nel cammino della vita, ormai vecchio e impari anche ai compiti più lievi, non riesco più a sostenere il peso dei miei averi e invoco un soccorso. Dà ordine che essi siano amministrati dai tuoi procuratori e che rientrino nel tuo patrimonio. Non mi ridurrò in miseria, ma quando avrò consegnato quei beni splendore dei quali mi schiaccia, tornerò a dedicarmi alle cose dalle quali mi hanno distolto le cure dei giardini e delle ville. A te resta la forza e il governo supremo che hai esercitato per tanti anni: noi, gli amici più vecchi, possiamo pretendere il riposo. Anche questo sarà una gloria per te: aver innalzato al vertice uomini che avrebbero sopportato anche situazioni modeste».
55. Al che Nerone gli rispose all’incirca così: «Che io riesca a rispondere all’improvviso al tuo elaborato discorso lo devo a un tuo dono, poiché sei stato tu a insegnarmi a cavarmela non solo nei casi previsti, ma anche in quelli imprevisti. Il mio avo Augusto consentì ad Agrippa e a Mecenate di godere il riposo dopo le fatiche; ma era pervenuto lui pure a un’età che gli conferiva autorità sufficiente per qualsiasi genere di concessioni; tuttavia non tolse né all’uno né all’altro i compensi che aveva donati loro. Li avevano meritati, in guerra e nei pericoli; con loro Augusto aveva trascorso la giovinezza. A me pure non sarebbe venuto meno il tuo braccio, se mi fossi trovato in guerra; ma tu hai fatto quello che la situazione richiedeva, tu hai guidato la mia fanciullezza con il tuo ingegno, con la tua saggezza, con il tuo insegnamento. Doni, questi, che dureranno fino a che avrò vita, mentre quelli che tu hai ricevuto da me, giardini, ville, rendite, sono esposti ai colpi della fortuna; e se anche sembra molto, c’è chi possiede di più e non ha i tuoi meriti. C’è da vergognarsi a citare i liberti, le cui ricchezze possono valutarsi superiori alla tua; ed è per me motivo di rossore fatto che tu, il primo nel mio affetto, non lo sia anche nel patrimonio.
56. Ma a te l’età ancora valida permette tuttora un’attività feconda, mentre io percorro i primi passi del principato, a meno che tu non ti posponga a Vitellio, che è stato console tre volte, o me a Claudio; e quanto accumulò Volusio con la prolungata parsimonia, altrettanto può fare per te la mia munificenza. Ma dunque, se talvolta l’età giovanile mi spinge ad errare, tu non vorrai richiamarmi e frenare con il tuo consiglio la mia esuberanza? Se mi renderai il patrimonio, su la bocca di tutti non sarà la tua moderazione né il tuo riposo, ma la mia avarizia; se ti allontanerai dall’imperatore, si dirà che hai paura della mia crudeltà. E anche se fosse celebrata soprattutto la tua sobrietà, non è degno d’un saggio fare cosa che può procurare infamia all’amico e riceverne gloria per sé». A queste parole Nerone aggiunse un abbraccio e baci, poiché per natura e per consuetudine era esperto nel celare l’odio dietro fallaci blandizie. Seneca, come avviene in tutti i colloqui con un despota, ringraziò; ma cambiò le consuetudini del potere d’un tempo, schivò la folla che gli rendeva omaggio, evitò il seguito, si fece vedere raramente in città come se fosse sofferente o trattenuto in casa dagli studi.
57. Una volta allontanato Seneca, fu facile mettere in disparte Fenio Rufo per quelli che lo accusavano d’esser stato amico di Agrippina; così di giorno in giorno aumentava la forza di Tigellino, il quale, convinto che le sue malefatte, la sua sola forza, sarebbero state più gradite se avesse legato a sé il principe con la complicità nei delitti, cercava di intuire quali fossero le sue paure. Si accorse allora che temeva soprattutto Plauto e Silla, recentemente relegati il primo in Asia, il secondo nella Gallia Narbonese; e cominciò a rammentare a Nerone la rispettiva nobiltà dei due e come avessero vicini uno l’esercito d’Oriente, l’altro quello di Germania. Quanto a lui, diceva, non aspirava, come Burro, a mutamenti, ma soltanto alla salvezza di Nerone; se a vigilare sui pericoli di Roma era sufficiente la sua presenza, come avrebbe potuto soffocare disordini in terre lontane? Le Gallie erano fiere del nome del dittatore e non meno pieni d’aspettativa i popoli asiatici per la fama dell’avo Druso7. Silla non aveva mezzi e di qui derivava la sua straordinaria audacia; si fingeva indolente fino a che avesse trovato l’occasione propizia per dar prova del suo ardire. Plauto, che invece disponeva di grandi mezzi, non fingeva affatto di desiderare una vita tranquilla, ma dava a vedere che imitava gli antichi Romani e aveva adottato l’atteggiamento di superiorità degli Stoici, che produce soltanto uomini irrequieti e ambiziosi. Non furono frapposti indugi: dopo sei giorni, mentre sedeva a mensa Silla fu ucciso da sicari trasportati a Marsiglia, prima che potesse concepire timori o sospetti. Nerone, quando gli fu portata la sua testa, rise per la sua prematura canizie.
58. La morte di Plauto non fu possibile nasconderla con altrettanta segretezza, poiché erano in molti quelli che avevano a cuore la sua salvezza e poi la grande distanza di terra e di mare e il tempo trascorso avevano diffuso qualche voce. S’era sparsa la notizia che avesse raggiunto Corbulone, che in quel momento si trovava al comando d’una grande armata e che, se venivano uccisi i più illustri e senza macchia, era il primo in pericolo. Si diceva inoltre che l’Asia aveva preso le armi in difesa del giovane Plauto e che i soldati inviati per commettere l’assassinio o perché non sufficienti come numero o non abbastanza arditi, non avendo potuto eseguire gli ordini, erano passati dalla parte dove sorgevano nuove speranze. Queste dicerie senza fondamento venivano esagerate, come avviene, perché la gente è pronta a credere quando non ha nulla da fare; e intanto un liberto di Plauto, con l’aiuto di venti propizi, giunse da lui prima del centurione e gli consegnò un messaggio del suocero Antistio. Che si sottraesse, gli scriveva, a una morte imbelle; fino a che era in tempo per riguardo al suo nome avrebbe tro vato favorevoli gli onesti, avrebbe raccolto attorno a sé i valorosi; e intanto non rifiutasse l’aiuto di nessuno. Se fosse riuscito a respingere sessanta soldati – tanti erano in arrivo – prima che ne sia portata la notizia a Nerone e s’imbarchi un secondo manipolo, possono succedere tante cose, fino, forse, a scoppiare una guerra. Infine, cercasse di salvarsi con questo mezzo oppure, se avesse osato, non gli sarebbe accaduto nulla di peggio che se restava senza far nulla.
59. Ma questi consigli non persuasero Plauto, sia che, inerme e lontano dalla patria, non prevedesse di potersi salvare, sia che fosse stanco di vane speranze o lo movesse l’amore per la moglie e i figli, verso i quali forse l’imperatore sarebbe stato più clemente quando non fosse più turbato da alcun timore. C’è chi dice che avesse ricevuto altri messaggi dal suocero, nei quali gli diceva che non correva alcun pericolo e che due maestri di filosofia, il greco Cerano, l’etrusco Musonio8, l’avessero convinto ad affrontare la morte con coraggio, anziché vivere nell’incertezza e nel timore. È certo che fu trovato a mezzo il giorno, nudo, mentre faceva ginnastica; così lo trucidò il centurione, al cospetto dell’eunuco Pelagone, che Nerone aveva posto a capo del manipolo, come un dipendente regio alla testa di sgherri. A Nerone fu recata la testa dell’ucciso; e il principe nel vederla esclamò: «Nerone, come hai fatto ad aver paura d’un uomo con un naso così enorme?»9.
Ormai immune da timori, il principe si affretta a preparare le nozze con Poppea, che aveva differite a causa dei suoi terrori, e a ripudiare la sposa Ottavia: benché vivesse con grande riserbo, questa gli era odiosa per il nome del padre e perché il popolo l’aveva cara. Mandò poi una lettera ai senatori, per informarli della morte di Silla e di Plauto, senza confessare d’esserne il responsabile, ma anzi accusandoli entrambi d’esser dei facinorosi, e affermando d’aver molto a cuore la salvezza dello Stato. Furono decretate suppliche a suo nome e Silla e Plauto furono espulsi dal Senato, ingiuria più grave del delitto.
60. Come ricevette il decreto del Senato, accorgendosi che tutti i suoi delitti venivano accolti come azioni egregie, ripudiò Ottavia, affermando che era sterile, e sposò Poppea. Da tempo essa era l’amante di Nerone, e lo dominava come concubina, poi come moglie; ora indusse uno dei servi di Ottavia ad attribuirle un rapporto d’amore con uno schiavo. Fu scelto come complice un certo Eucero, nato ad Alessandria, abile a cantare con il flauto. Sul fatto furono interrogate le ancelle; alcune, vinte dall’atrocità dei tormenti, confermarono il falso; la maggior parte però persistette nel difendere la castità della loro signora; una di esse, a Tigellino che insisteva perché parlasse, disse che il sesso di Ottavia era più casto che la bocca di lui. Comunque, Ottavia fu allontanata come se si trattasse di separazione civile e ricevette, doni infausti, la casa di Burro, i poderi di Plauto. Poi, fu inviata in Campania e messa sotto custodia militare. Ne seguirono proteste frequenti e palesi da parte del popolo, che è meno cauto e, data la scarsa fortuna, corre minori pericoli. A queste voci si aggiunse quella che Nerone, pentito della cattiva azione, avesse richiamato la sposa.
61. Il popolo allora sale lietamente sul Campidoglio e venera gli dèi. Abbattute le statue di Poppea, portano su le spalle quelle di Ottavia, le cospargono di fiori, le collocano al Foro e nei templi. Nel clamore degli adoranti, si arriva al punto da lodare persino l’imperatore. E già il palazzo era pieno di gente e di grida, quando schiere di soldati irrompono con verghe e spade sguainate e disperdono la moltitudine. Tutte le cose che erano state rovesciate durante la manifestazione furono rimesse al loro posto e reintegrato il culto di Poppea. E questa, sempre feroce per odio, ma ora anche per paura che la violenza del popolo si volga ancor più furiosa contro di lei, e che Nerone cambi parere per influenza del popolo, si getta ai piedi di lui e grida che ora non si tratta di lei né delle sue nozze, che pure le sono più care della vita, ma dell’esistenza stessa messa in estremo pericolo da clienti e schiavi di Ottavia, i quali si fingono gente del popolo, e osano in tempo di pace tali eccessi che a stento si commettono in tempo di guerra. Quelle erano armi impugnate contro l’imperatore; mancava solo un capo: sarebbe stato facile trovarne uno, in quel tumulto. Bastava solo che Ottavia lasciasse la Campania e venisse personalmente nell’Urbe, se anche da lontano bastava un suo cenno a scatenare la rivoluzione. E del resto, che colpa aveva lei, Poppea? A chi aveva fatto del male? Forse perché stava per dare una progenie legittima ai Penati dei Cesari? il popolo romano preferiva che si innalzasse al potere imperiale il figlio d’un flautista egiziano? Dunque, se la situazione è giunta a questo punto, che Nerone richiami la sua padrona, ma di sua volontà, non costretto, oppure provveda alla sua sicurezza: quella prima sedizione era stata soffocata con un giusto castigo e con misure moderate; ma se perdessero la speranza che Ottavia torni ad essere la sposa di Nerone, ci penserebbero loro a darle un altro marito.
62. Quelle parole, intese a suscitare paura e sdegno, atterrirono Nerone e lo infuriarono. Ma il sospetto su lo schiavo valeva poco e l’avevano dimostrato infondato gli interrogatori delle ancelle. Allora si decise a sollecitare la confessione di qualcuno, a cui attribuire anche propositi rivoluzionari. Il più adatto parve Aniceto, l’esecutore del matricidio, Prefetto, come ho già detto, della flotta di Miseno, poco gradito dopo il delitto e in seguito sempre più detestato, poiché gli esecutori dei misfatti sono visti come un rimprovero vivente. Di conseguenza l’imperatore lo chiama e gli rammenta il servigio che gli ha reso; lui solo aveva provveduto all'incolumità dell’imperatore contro le trame della madre. Ora gli si presentava l’opportunità d’una benemerenza non minore, se fosse riuscito a stornare l’ostilità della moglie. Non c’era bisogno di violenza o di armi: bastava che confessasse d’aver commesso adulterio con Ottavia. Gli promette premi cospicui, segreti sul momento, e un ritiro in località amena; se si rifiuta, lo minaccia di morte. Quello, per malvagità innata e condiscendente per i delitti precedenti, inventa anche di più di quanto gli era stato ordinato e confessa in presenza di amici, che l’imperatore li aveva convocati come per un consiglio. Dopo di che è mandato in Sardegna, dove trascorse esule una vita non disagiata e morì di morte naturale.
63. Nerone allora con un editto dichiara che Ottavia ha sedotto il prefetto nella speranza di ottenere il sostegno della flotta e, dimentico d’averla accusata poco tempo prima di sterilità, d’aver abortito più volte perché consapevole della propria dissolutezza, reati di cui aveva avuto la prova; e la relega nell’isola di Pandataria10. Nessuna donna esule suscitò maggiore compassione in coloro che la videro. C’era chi si ricordava di Agrippina, esiliata da Tiberio, e l’esilio più recente di Giulia, voluto da Claudio11. Ma quelle erano entrambe nel pieno vigore degli anni, avevano avuto qualche momento felice, e alleviavano la crudele situazione attuale rievocando un passato migliore. A questa il primo giorno di nozze era stato funesto; era stata condotta in una casa nella quale non avrebbe trovato che dolore, le era stato avvelenato il padre e sùbito dopo il fratello; poi c’era stata un’ancella più potente della padrona e infine Poppea, sposata non per altro che per la sventura della moglie legittima; e infine era accusata d’un crimine più terribile della morte.
64. Quella fanciulla, di vent’anni appena, sotto la guardia di centurioni e soldati, già tolta alla vita per il presagio di sventure, non trovava ancora riposo nella morte. Dopo pochi giorni, le si ordina di togliersi la vita, mentre ella protestava d’esser ormai soltanto una vedova, una sorella, e invocava il nome degli avi comuni, di Germanico12 e infine Agrippina; fino a che essa era ancora in vita, aveva dovuto subire un matrimonio infelice; ma non la morte. Viene stretta in catene, le si aprono tutte le vene; e poiché per la paura il sangue scorreva troppo lento, viene soffocata dai vapori d’un bagno bollente. Si compie un atto ancor più atroce, mozzato il capo viene portato a Roma, affinché Poppea lo veda. A che scopo dovrei ricordare le offerte ai templi, fatte in questa occasione? Chiunque attraverso me o altri autori verrà a conoscere le vicende di quei tempi, abbia per certo che tutte le volte che l’imperatore aveva ordinato deportazioni o esecuzioni, altrettante volte erano state rese grazie agli dèi, e che quelle cerimonie, destinate un tempo a celebrare eventi lieti, ora furono il segno d’una sventura pubblica. E tuttavia non passerò sotto silenzio quei decreti senatoriali che giunsero ai vertici dell’adulazione e del servilismo.
65. (62 d.C.) Quello stesso anno si credette che Nerone avesse fatto avvelenare i liberti più potenti: Doriforo, perché contrario alle sue nozze con Poppea, Pallante, perché la sua prolungata vecchiaia teneva immobile un patrimonio ingente. Romano aveva accusato Seneca di complicità con C. Pisone, ma Seneca ritorse con maggiore fondatezza l’accusa contro di lui. Ne derivò la paura di Pisone e una cospirazione contro Nerone, ampia ma sfortunata.