Frammento del Libro quinto1
1. (29 d.C.) Sotto il consolato di Rubellio e Fufio, entrambi soprannominati Gemino, morì Giulia Augusta, giunta ad estrema vecchiezza, di nobiltà eccelsa sia per la nascita dai Claudi, sia per l’adozione da parte dei Livii e dei Giuli2. Sposò in prime nozze Tiberio Claudio Nerone, fuggito dopo la guerra di Perugia e rientrato a Roma dopo la pace tra Sesto Pompeo e i triunviri. Ottaviano, preso dalla sua bellezza, la portò via al marito, non si sa se con il suo consenso. La condusse nella sua casa con tale fretta da non lasciarle il tempo di partorire il bambino di cui era gravida. Dopo di allora non ebbe più figli, ma, legata ad Augusto per le nozze di Agrippina con Germanico, ebbe nipoti in comune con lui3. Per la dignità della vita familiare si conformò al costume antico; fu più amabile di quanto si permettesse un tempo alle donne, madre autoritaria, moglie indulgente, perfettamente adeguata alle astuzie del marito, alla simulazione del figlio. Ebbe un funerale modesto e per lungo tempo non fu data esecuzione al suo testamento. Pronunciò l’elogio dai rostri il pronipote Caio Cesare, che in seguito salì al potere.
2. Tiberio si scusò per lettera di non aver partecipato alle esequie della madre, non modificando in nulla i piaceri della sua esistenza, e addusse per giustificarsi la gravità dei suoi impegni. Diminuì quasi per modestia le onoranze decretate con larghezza dal Senato alla memoria di lei; ne accettò solo poche e aggiunse che non si doveva decretarle l’apoteosi, poiché ella avrebbe voluto così. Anzi, in una parte della lettera medesima deplorò le amicizie femminili; biasimo allusivo al console Fufio, il quale aveva fatto carriera grazie alla protezione dell’Augusta, abile com’era a ingraziarsi l’animo delle donne e al tempo stesso faceto e solito a schernire Tiberio con celie pungenti; cosa di cui i potenti serbano a lungo memoria.
3. Da quel giorno la tirannide si fece insopportabile, opprimente: fino a che viveva l’Augusta c’era ancora un rifugio, poiché Tiberio aveva una soggezione radicata verso la madre e Seiano non si permetteva di anteporre la propria autorità a quella di lei; ma in seguito, quasi avessero spezzato un freno, non conobbero limiti. Fu inviata una lettera contro Agrippina e Nerone, che, secondo l’opinione pubblica, era stata composta già in precedenza, ma Augusta l’aveva fermata. Infatti, fu resa nota poco dopo la sua morte. Conteneva parole d’una durezza straordinaria, ma non conteneva accusa di moti armati o rivoluzionari: l’imperatore rimproverava il nipote di omosessualità e di condotta immorale. Non osando inventare alcunché di simile nei confronti della nuora, l’accusò di carattere intemperante e superbo. I senatori atterriti tacquero. Fino a che alcuni di quelli che non sperano nel bene e traggono vantaggio dalle sventure pubbliche chiesero che si discutesse su la questione. Cotta Messalino parlò per primo ed espose un parere feroce. Ma gli altri, i notabili e specie i magistrati, tremavano; poiché Tiberio si era espresso con grande asprezza, ma sul resto non s’era pronunciato.
4. C’era in Senato Giunio Rustico, che Tiberio aveva scelto per redigere gli atti del Senato e per questa ragione si riteneva che fosse addentro nei suoi pensieri. Questi, quasi mosso da un impulso fatale – poiché prima non aveva mai dato prova di forza d’animo – oppure per una malintesa astuzia, trascurando i pericoli imminenti e temendo quelli incerti, si schierò con coloro che apparivano esitanti e invitò i consoli a non aprire il dibattito; in brevi istanti, disse, situazioni della massima importanza si possono capovolgere; poteva accadere che il vecchio si pentisse d’aver sterminato la famiglia di Germanico. Nello stesso momento il popolo, innalzando ritratti di Agrippina e di Nerone, circonda la Curia e grida che la lettera è falsa e che si cerca di distruggere la famiglia dell’imperatore senza il suo consenso. Così quel giorno non furono emesse deliberazioni nefaste; sotto il nome di alcuni consolari furono anche divulgate false opinioni avverse a Seiano, nelle quali alcuni esprimevano occultamente, e quindi con odio ancor più violento, le loro indegne brame. Ne conseguì l’ira ancor più furibonda di Seiano e nuovi motivi di denunce: il Senato non teneva alcun conto del dolore del principe, il popolo scendeva in rivolta; che cosa mancava ancora che prendessero le armi e seguissero come loro capi quelli di cui avevano inalberato i ritratti a guisa di stendardi?
5. L’imperatore ribadì le accuse contro il nipote e la nuora e in un editto si dolse amaramente con la plebe e si lamentò con i senatori perché per la malizia d’uno solo di loro si fosse pubblicamente mancato alla maestà dell’imperatore; tuttavia chiese che ogni decisione fosse lasciata interamente a lui. Dopo di che non furono emesse deliberazioni di sorta, non solo quelle estreme, poiché era vietato, ma non si potè neppure dichiarare che, pronti ad infliggere la pena, i senatori ne erano stati impediti dalla volontà del principe.
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