Introduzione
L’eredità di Giulio Cesare
Abbondano i nomi antonomastici, ma solo uno, quello di Cesare – singolare e di etimologia problematica anche per i contemporanei – è divenuto istituzionale; presto fu «il Cesare». Il cognomen non era a rigore ereditario, e già per Ottaviano, anche se figlio di Cesare, rappresentava soprattutto un’eredità politica e morale, sottolineata dai suoi seguaci e dai suoi poeti; molto di più dopo l’estinzione della dinastia Giulio-Claudia, del 69 d.C. Con Cesare e con Ottaviano antiche espressioni repubblicane, imperium e imperator, si fecero autocratiche. La radicale rivoluzione istituzionale si accompagnò a una piccola rivoluzione sintattica: da Ottaviano il Caesar imperator – uno dei «generali» – divenne l’imperator Caesar. L’epiteto restò immobile.
Molto tempo dopo, divenuto più che un’istituzione, un concetto – il Sacro Romano Impero «di nazione germanica», il Reich – primo, secondo i posteri – ebbe a capo, al di sopra di tutti i Könige, un Kaiser, che conservò traccia della grafia e della pronuncia originaria. Unico per definizione non meno del papato, l’Impero durò un millennio dopo la restaurazione ufficiale di Carlo Magno, dell’800, cioè fino alla pace di Presburgo del 1806, quando Napoleone l’abolì. Disegnava un nuovo Impero di nazione francese, e incoronandosi con le proprie mani simboleggiò lo spirito laico e teista di tempi che non sentivano più imperi di legittimazione sacra. Dopo la caduta dell’ordo Napoleonica l’unicità era spezzata, eppure la moltiplicazione del titolo restò eccezionale e legata al concetto d’una sovranità superiore e comune a popoli diversi. Ci fu lo Zar (da Czar, ancora Caesar) di tutte le Russie o un Impero inglese delle Indie, all’interno di un Commonwealth.
Inseparabile da tutto questo è l’idea di Europa, di cui l’opera di Cesare pose le basi. Pensò a un imperium massimo e perciò sicuro, cui Augusto sancì i limiti del Reno e del Danubio come invalicabili, restando aperto il problema dell’impero dei Parti. Esattamente gli spazi previsti da Cesare. La conquista, cioè la romanizzazione della Gallia, ha fatto d’un Impero mediterraneo uno Stato che comprendeva di fatto i popoli assimilabili del continente. Inoltre, impedendo una Gallia germanizzata, improntò per sempre l’Europa a una civiltà prevalentemente greco-romana. Tutto il nostro mondo è impensabile senza l’opera di Cesare.
Questo in sé non ne dice la grandezza, e forse è impossibile che gli uomini del libro capiscano la grandezza dell’uomo d’azione; e resta in parte confusa con i suoi risultati. Si può però intuirne la forza, l’originalità, la personalità. C’è da domandarsi quanto dei risultati dell’azione siano stati coscientemente voluti. Nel caso di Cesare si può dire che se ne rendeva oscuramente conto. Cesare voleva dare un senso alla storia eccezionalmente intensa e drammatica del suo tempo e lo vedeva in una monarchia, che naturalmente salvasse la sostanza dello Stato romano, la sua dialettica di «democrazia» e «aristocrazia», e dove il nome di rex era giudicato mostruoso e barbarico. Questo, dopo il suo assassinio, fu continuato e realizzato da Ottaviano.
Le premesse
Gaio Giulio Cesare nacque a Roma il 13 luglio dal 102 al 100 a.C. La gens Iulia era di antica aristocrazia e si faceva risalire a Iulo, figlio di Enea, e perciò, Omero alla mano, a Venere; la zia paterna aveva sposato l’eroe nazionale, Gaio Mario, ed era già madre di quel Mario omonimo che ne continuerà l’opera, più anziano e autorevole cugino di Cesare. La nascita segnava già molto del suo destino.
Mario era un plebeo di Arpino, incolto, nemico viscerale della nobiltà, d’un patriottismo elementare e guerriero nato; un’edizione molto rozza di Catone il Vecchio. Verso i quarant’anni ebbe il tribunato, la potente magistratura popolare, e continuò il cursus honorum, ma dovette la sua ascesa alla guerra contro Giugurta (107/105). Risolvendola con energia confermò la convinzione popolare che la condotta lenta della guerra fosse dovuta alla corruzione della nobiltà: la tesi di Sallustio nel suo Bellum Iugurthinum. Certo era necessaria la gloria per un matrimonio con una Iulia.
Ma al tempo della nascita di Cesare avvenne l’apoteosi. Si profilò all’improvviso un pericolo terribile, che poteva essere l’inizio delle invasioni barbariche, o della Völkerwanderung, come le chiamano i tedeschi. Le tribù germaniche dei Cimbri (i favolosi Cimmeri?), e dei Teutoni si mossero verso occidente in cerca di nuovi stanziamenti; secondo dati di Plutarco potevano avvicinarsi al milione di persone; non solo erano popoli agguerriti, ma disperatamente decisi a trovarsi una terra. Il terrore trovò l’uomo giusto in Gaio Mario, nominato console per quattro volte consecutive dal 104 al 100. La fortuna volle che i migratori non osassero varcare le Alpi e vagarono fino alla Spagna, come i futuri Vandali; ma l’anno dopo ricomparvero decisi a penetrare con una manovra a tenaglia; i Teutoni da ovest e i Cimbri da nord, dal Brennero. A Mario fu affidato il fronte occidentale e a Lutazio Catulo quello settentrionale. Il primo scontro avvenne ad Aquae Sextiae (Ave) e si risolse con una spaventosa carneficina dei barbari, che lasciarono almeno centomila morti sul terreno. Catulo non riuscì a bloccare i Cimbri, che si spostarono verso occidente per ricongiungersi con i loro «fratelli», di cui non sapevano il destino. Si batterono presso Vercelli con disperato coraggio, ma la strage fu di poco minore. Portavano elmi con draghi, armature e spade pesanti. Durante la fuga le donne, vestite di nero, li accolsero massacrandoli, poi uccisero i figli e se stesse. È lecito pensare che l’opera di Mario abbia ritardato di secoli le migrazioni germaniche, e si capisce perché la fantasia popolare ne restò catturata. E anche quella del nipote Gaio Cesare, allora in fasce.
Ma aveva ragione Plutarco: Mario «non era fatto per la pace e la vita civile». Era un popolare che amava il popolo solo in divisa. Nella «contesa civile era vile», aggiunge Plutarco; e finì per recitare la parte peggiore della brutale demagogia di un Saturnino o di un Sulpicio Rufo; il generoso populismo dei Gracchi era scomparso e la dialettica tra le due grandi classi, già ammirata da Polibio, pareva impossibile. Da parte loro i Patres, il Senato, cercavano un difensore; le individualità e le personalità prevalevano sulle istituzioni, cioè sulla legalità. La cosiddetta guerra civile tra Mario e Silla, non poco paradossale, ne è il primo esempio. L’uomo dell’aristocrazia era Cornelio Silla; eppure tra lui e Mario non ci fu mai uno scontro diretto. Anzi, Silla era stato agli ordini di Mario durante la guerra giugurtina e avevano collaborato bene, nonostante le gelosie e le rivalità; Mario ne aveva ancora favorito la carriera militare e lo ebbe a fianco durante l’invasione germanica. Poi un’altra guerra interna, la cosiddetta guerra «sociale» contro le città italiche che non godevano dei pieni diritti, portò Silla molto in alto, fino al consolato dell’88, quando si profilava uno scontro molto grave in Asia, dove Mitridate si costituiva un impero e preparava la liberazione della Grecia. Il comando della guerra spettava a Silla.
Mario non lo sopportò. Non voleva onori, voleva battersi. Frequentava ogni giorno il Campo Marzio provandosi nelle armi, tra i sorrisi pietosi dei giovani. Era quasi settantenne, obeso, malato, ma non poteva lasciare ad altri quel grandioso duello mitridatico che si sarebbe svolto nelle terre più ricche e civili del mondo. Plutarco non lo capiva: Mario era un uomo smisurato, shakespeariano; Cicerone lo farà l’eroe d’un’epopea. Intanto veniva coinvolto nei delitti dei popolari contro gli aristocratici e i sillani; si arrivò a distruggere il palazzo e le ville del generale in guerra; la moglie e i parenti si salvarono a stento e lo raggiunsero al fronte con molti altri fuggiaschi. Silla s’affrettò a comporre una pace difensiva con Mitridate e tornò a Roma, dove si trovò «nemico pubblico». Con la sua solita fredda energia travolse le resistenze e ristabilì l’ordine; Mario dovette fuggire. Vagò per mare, fino al Circeo, fu più volte riconosciuto e salvato, migrò fino alle rovine di Cartagine, fu respinto, ammirato e commiserato. Mitridate riprese la guerra e Silla tornò in oriente. Alle sue spalle Mario, con l’aiuto di Cinna, ricostituì la sua fazione, installandosi a Roma come un satrapo selvaggio. Ci fu una vera orgia di sangue. Aveva covato fin dalla giovinezza una profezia che gli prometteva sette consolati: il settimo, per pochi giorni, l’ottenne. Morì nell’86, tra orrori e incubi.
Intanto Silla si batteva bene in Grecia, dove Atene si era svegliata a un’anacronistica passione di libertà; la espugnò e l’abbandonò al saccheggio, ma ne risparmiò i monumenti, disse, in omaggio ai grandi morti. Fece una seconda pace con Mitridate e tornò a Roma nell’82. Non fu il ritorno del generale vincitore; dovette farsi strada tra le resistenze dei mariani «usando della golpe e del lione», avrebbe detto Machiavelli e disse anche Plutarco. Gli fu prezioso l’aiuto di un giovane dal grande avvenire, Gneo Pompeo, che salutò per primo con il nome di Magnus, destinato a rimanergli nella storia. Infine ottenne dai Patres l’autorità del dictator, che gli permise quella che riteneva insieme giustizia, vendetta e ordine. Aumentò il potere del senato, eliminò in gran parte quello del tribunato e s’illuse di avere restaurato una normalità costituzionale. Ma nelle fantasie e nelle memorie restarono soprattutto le sue glaciali «proscrizioni»; il proscritto doveva essere eliminato da qualunque cittadino, i beni erano sequestrati e all’uccisore, fosse anche un parente, si dava un premio di ben due talenti. Nei primi due giorni furono proscritti trecento cittadini. Qualcuno osò domandargli chi aveva intenzione di risparmiare, e Silla rispose che non l’aveva pensato. Chiesero almeno chi avrebbe colpito. Rispose che li avrebbe informati. Inutile dire che abusi e delitti personali abbondarono. Un giorno si vide Sergio Catilina attraversare la città con la testa di un proscritto tenuta per i capelli, a ritirare la taglia. Eppure Silla, che si fregiava del soprannome di Felix, il «fortunato», si ritirò dopo soli due anni a vita privata e visse a Roma, pronto, diceva, a rendere conto del suo operato. Ci fu anche un reciproco coup de foudre, si sposò ed ebbe un figlio. Morì poco dopo, nel 78.
Verso il consolato
Intanto Cesare era cresciuto, fra tutti questi eventi. A sedici anni perdette il padre. Un anno dopo sposò la figlia di Cornelio Cinna e gli nacque una Giulia. È facile pensare quali posizioni avesse e come poteva apparire a Silla dittatore: ma trovò forti difensori a cui Silla cedette a fatica, avvertendoli che in quel giovane vedeva molti Marii. Si limitò a sequestrargli i beni dotali e a imporgli il ripudio della moglie: Cesare rifiutò e la proscrizione raggiunse anche lui. Si salvò a stento pagando la taglia dei due talenti all’ufficiale che l’aveva scovato. Poi andò in Grecia, ma non solo a studiare; combatté contro gli ultimi seguaci di Mitridate e meritò la «corona civica». In un viaggio fu catturato dai pirati: offeso da Un riscatto indegno di lui, aumentò il riscatto, li trattò con alterigia, promettendo loro di crocifiggerli. Poco dopo mantenne la promessa. Tornò a Roma senza fretta e solo dopo la morte di Silla.
Divenne presto un personaggio. Osservava il metodo di Cicerone, di stare sempre sotto gli occhi dei concittadini. Le sue posizioni politiche erano immaginabili, ma Cesare le manifestò solo quando fu il caso. Aveva fascino: colorito pallido, occhi vivaci, un’aria distaccata di dandy, la fama di tombeur de femmes, calunnie di omosessualità che rintuzzava con spirito, una cultura autentica e aggiornata, che spaziava dai problemi linguistici (era sostenitore estremista dell’analogia, anche ortografica) a quelli filosofici, in cui aveva le posizioni epicuree dei temperamenti artistici. Ma soprattutto sapeva parlare, l’arte per eccellenza. Sia pure molto più tardi e in un momento opportuno ma non insincero, Cicerone lo lodava come oratore non superato del suo tempo e aggiungeva: «Usa una forma di discorso vistoso e insieme grandioso, sostenuto da un concetto aristocratico della parola» (generosam... rationem dipendi, Svetonio, Caes. 55).
Si sentiva molto di più dell’esponente principale dei popolari; era l’erede di Mario, e questo non sfuggiva. A proposito c’è un aneddoto prezioso, rimasto sbandato in Svetonio. Nel 68 morì la vedova di Mario, e l’orazione funebre del nipote fu così poco una semplice formalità d’uso che fu trascritta e divenne classica, con il particolare sorprendente dell’origine divina della gens, esplicitamente affermata. Parrebbe poco opportuno in bocca a un democratico, ma Cesare non peccò mai di vanità inutili; se lo disse, intuì una verità sotterranea, che il popolo è per un istinto oscuro eternamente monarchico; può detestare le oligarchie molto più che un sovrano di antico sangue nazionale. Si preparava a risuscitare la memoria di Mario, sempre latente nel popolo e resa più viva dal predominio aristocratico; intanto aspettava, con vigile e tesa pazienza. Alle persone acute come Cicerone la sua ambizione non sfuggiva, solo si meravigliava che albergasse in quel personaggio elegante che si grattava il capo con un dito solo per non guastare l’acconciatura.
Intorno salivano personalità molto forti: l’ambiziosissimo Crasso, il più ricco uomo di Roma, e l’accattivante Pompeo, cortese, legalitario, disponibile; mostrava d’interpretare la restaurazione sillana nel modo più misurato. Drizzò le orecchie quando si profilò una terza offensiva di Mitridate. Casus belli fu la Bitinia, che il re Nicomede, morendo, lasciò in eredità a Roma. Là in Asia c’era già un altro dei grandi ambiziosi, Lucullo, e si batteva bene; ma Pompeo aspettava. Intanto in Italia scoppiò la rivolta degli schiavi guidati da Spartaco (73), e occorreranno due anni per ristabilire l’ordine, con enormi perdite. Protagonista della repressione fu Crasso, ma anche Pompeo ebbe la sua parte; il loro consolato comune nel 70 fu un duumvirato di fatto. Gli uomini si facevano più forti delle istituzioni; erano lontani i tempi in cui Catone il Vecchio poteva scrivere una storia senza i nomi dei generali, in quanto pure emanazioni del senato. Ma ora anche il popolo era protagonista, e i duumviri dovettero restituire ai tribuni il loro potere e la loro inviolabilità. Cesare aspettò il 65 per avere la prima carica e il 63 per ottenere, non senza contrasto, quella di pontifex maximus. Poi fu pretore e nel 61 propretore in Spagna, dove ebbe il suo collaudo militare, non senza opportuni proventi economici. Era uno degli uomini più indebitati del tempo. È di allora un altro aneddoto sbandato di Svetonio: leggendo un libro su Alessandro Magno scoppiò in una crisi di pianto. A chi gliene chiese la ragione rispose, quasi stupito, che c’era di che disperarsi pensando che atta sua età Alessandro aveva da tempo conquistato il mondo. Ci dà la misura della sua terribile attesa.
L’ora di Pompeo venne con la guerra contro i pirati. Erano divenuti una potenza, un banditismo universale quasi organizzato che disponeva di un migliaio di navi e che finì per strozzare le finanze romane, perché il traffico avveniva quasi tutto per mare. Il Senato votò i pieni poteri per Pompeo, nel 67, con mezzi grandiosi, e il generale si mostrò d’una capacità organizzativa unica: divise in sezioni tutte le coste e le rastrellò sistematicamente in soli tre mesi. Gli si affidò anche la conclusione della guerra mitridatica, e anche qui il successo fu pieno. Si aprirono orizzonti quasi imprevedibili, perché per la prima volta eserciti romani s’inoltravano nel vero oriente, la Siria, l’Armenia, la Palestina. Pompeo, a Gerusalemme, entrò nel Santo dei Santi, con rispetto e con un immenso stupore, riferisce Giuseppe Flavio, per questo Dio ebraico senza forma né immagine.
La lunga assenza di Pompeo favorì di fatto i popolari, come Cesare e Crasso, e peggio, un Catilina. Era un aristocratico ex sillano, o almeno brutale approfittatore delle proscrizioni. Demagogo drammatico e folle, tentò più volte il consolato; fu battuto da Cicerone per quello del 63. Non era uomo da rassegnarsi e tentò una cosa inaudita: quello che diciamo un colpo di Stato, un Putsch, termine che in latino si traduce male. Èla famosa coniuratio della monografia di Sallustio. Il console era il maggiore oratore di Roma e certo si parlò e si scrisse di questo golpe, fallito e in ogni caso destinato al fallimento, più di quanto meritasse. Ma la novità era nel concetto di colpo di Stato. Roma conosceva spaventosi abusi di potere, violenze e vere «tirannie», come si diceva con termine filosofico più che politico, ma sempre sorrette da formali magistrature. È difficile per un moderno capire che cosa significasse una magistratura; bisogna pensare a qualcosa di sacrale. Ora un privato, per giunta di grandi natali, seguito da una ventina di personaggi da tragedia, organizzò la conquista arbitraria del potere, con l’eliminazione del console, incendi terroristici e l’intervento d’un piccolo esercito di disperati o, diceva Catilina, di «infelici». Qui intervenne la banalità: la delazione d’una mantenuta scontenta. Cicerone aveva in mano un segreto terribile e non ancora dimostrato, ma il tempo stringeva. Assalì con la sua eloquenza Catilina in piena Curia, dove regolarmente sedeva, costringendolo a lasciare la città e a raggiungere i suoi in Etruria. Un esercito regolare li annienterà presso Pistoia e morirono, Catilina compreso, da eroi. Ma il vero problema erano gli arrestati, tutti nobili e tutti del partito popolare. Cicerone orchestrò da maestro lo sdegno e lo sgomento, anche perché li condivideva, e ottenne dal senato la condanna a morte, che fece subito eseguire. Il popolo pareva con lui, ma mancò il suo consenso legale, ciò che costerà al «salvatore della patria», tra poco, l’esilio e la distruzione dei beni, angosce che sopportò con troppa eloquenza, e dovrà partecipare più drammaticamente a una vita pubblica molto brutale per la sua vera natura – aveva ragione Boissier – di studioso e di uomo d’ordine.
Ma Cesare che parte ebbe nel tentato colpo di Stato? Non ostante l’abbondanza delle fonti, ne sappiamo poco; anche perché Sallustio, suo partigiano, volle coprire quello che si sospettava. Certo era a conoscenza di molte cose ma non si compromise; il suo intervento contro la condanna a morte dei catilinari, che quasi gli costò un linciaggio, fu un omaggio alla sua parte e soprattutto al popolo, sempre più legato a lui. Quanto da parte sua capisse il sentimento popolare dimostra un episodio raccontato da Plutarco: una mattina, sul Campidoglio, ben vistose, si rividero le figure di Mario, di Cinna, degli altri: erano le loro statue viventi, scintillanti d’oro. Molti piansero di nostalgia.
Anche Crasso si appoggiava a Cesare; e Pompeo, reduce da tanti trionfi, si sentì più lodato che appoggiato dai patres, che non ebbero il buon senso di distribuire le terre demaniali ai veterani. Sono queste le premesse di quello che diciamo il triumvirato e che Cicerone, scrivendo ad Attico, chiamava «il mostro dalle tre teste»: Pompeo, Cesare e Crasso. Venne da solo ravvicinamento dei tre «generali» (imperatores) privati, per occasioni militari future, a cui s’aggiungevano le bande armate di Clodio, un aristocratico della gens Claudia che in omaggio all’uso popolare cambiò il nome in Clodius; come si sa, era fratello della «Lesbia» di Catullo. Tra parentesi, adorava sua sorella, causa di mille maldicenze di cui anche Catullo sarà partecipe, per delusione d’amore. Clodio fu un nemico molto pericoloso per Cicerone, ma l’origine di tutto sembrano proprio quelle maldicenze: Cicerone aveva una vera passione per le battute di spirito, e non ne risparmiò una crudele con Clodio, in quelli che oggi diremmo «i corridoi» della Curia. Cicerone la riferisce, divertito, in una lettera ad Attico. Cesare strinse con Pompeo una vera alleanza sancita dal matrimonio di questi con Giulia; fu facile ottenere un consolato di Cesare per il 59, con un collega fantomatico (Bibulo, che gli sarà sempre nemico) e piani straordinari. Cesare aveva vinto. Che cosa? La guerra, anzi la guerra migliore.
La guerra in Gallia
Cesare volle che gli fosse affidata la Cisalpina, di cui fu proconsole appena spirato il suo consolato. Aveva anche ritenuto opportuno un matrimonio con la figlia del console designato per quel 58, Calpurnio Pisone.
Era una provincia ricca e popolosa fin dal tempo di Polibio; Cicerone la chiamerà tra poco firmamentum Italiae, la base dell’Italia. Cesare, preparando la cittadinanza per i cisalpini, ne ebbe la gratitudine e si assicurò una fonte copiosa di arruolamenti. Tre legioni erano di stanza ad Aquileia, probabilmente in vista di agitazioni nell’Illirico, che poi non avvennero. Ma Cesare era bene informato sul problema degli Elvezi, tribù germanica stanziata tra la catena impervia del Giura e più aspre montagne a est; a nord confinava con il Reno e aveva perpetui scontri con gli Svevi di Ariovisto, a sud con il lago di Ginevra: era qui la porta naturale d’un’emigrazione, che era l’aspirazione di questo popolo di 368.000 unità, con 92.000 combattenti (come risultava dai registri anagrafici di cui Cesare entrerà in possesso). Al pericolo generico s’aggiungeva la seria colpa di essere mescolati con Cimbri e Teutoni, di avere battuto i romani nel 107, sottoponendoli all’umiliazione del giogo (B.G. I, 7), di avere ucciso in quel combattimento un avo dell’attuale console, nonché suocero di Cesare. Nel 61 un loro capo potente, Orgetorige, aveva concepito un grande piano: con l’alleanza delle due tribù galliche più influenti, Edui e Sequani, avrebbe guadagnato il predominio su tutta la Gallia. I suoi compatrioti lo abbatterono in circostanze non chiare, ma conservarono lo stesso programma; ad ogni modo Cesare poteva aspettarsi, o sperare, un casus belli su quel fronte. E infatti nell’inverno 59-58 cominciò il movimento; Cesare, che esercitava il consolato a Roma, si precipitò con la sua famosa velocità nella zona minacciata, dove gli Elvezi, dopo avere distrutto i loro villaggi, chiedevano un passaggio in territorio romano.
Cesare guadagnò tempo ma quando dispose di truppe sufficienti bloccò con una muraglia la strettoia tra il lago e il monte. Gli Elvezi furono costretti a passare in Gallia attraverso il Giura, con l’appoggio politico del capo eduo Diviziaco, del partito filoromano; Cesare li tallonò, ne colpì duramente la retroguardia, che era, tenne a sottolineare, la tribù colpevole dell’antica sconfitta romana. Sempre inseguiti, affamati e temuti per le loro requisizioni, gli Elvezi si decisero a uno scontro aperto, a Bibracte, che fu per i Romani una vittoria molto dura. Ma ormai questa gente disperata dovette cedere: Cesare impose il ritorno alla terra di origine. Erano ridotti a meno di un terzo.
Allora si vide la ragione dell’ostinazione di Cesare, forse brutale e non indispensabile: il prestigio romano aveva sostituito il timore per Ariovisto, e Cesare si trovava nel cuore della Gallia proprio tra le tribù tributarie del re germanico. Gran parte della Gallia chiese una sorta di dieta, presieduta da Cesare, a cui chiesero apertamente soccorso. Ariovisto fu costretto a uno scontro in cui fu battuto; Cesare lo inseguì oltre il Reno, su cui costruì un ponte, e devastò il territorio nemico. Se si pensa che a nord l’influenza germanica lambiva il territorio dei Remi (Reims), ci si rende conto del pericolo.
Cesare faceva conoscenza diretta di questo ricco paese, che era già un po’ la Francia di oggi, con i suoi pascoli, i suoi fiumi, il suo legname, una popolazione di almeno dodici milioni, di più di tutta l’Italia. Queste tribù valorose ed emotive, dalle memorabili cavalcate, che avevano invaso l’Europa dalla Galizia alla Galazia e occupato perfino Roma, dotate di una civiltà notevole e di una interessante religiosità, fondata sul concetto di reincarnazione e custodita dalla casta religiosa dei Druidi, esercitavano sullo spirito dominatore e aperto di Cesare un indiscutibile richiamo. E saranno infatti i più romanizzati fra tutti i barbari e tra quattro secoli le bellissime truppe – per ricordare un simbolo – di Giuliano imperatore.
Si capisce perché nel secondo anno la guerra si spostò nella Belgica, e fu guerra non facile; per ribadire il successo Cesare costruì un secondo ponte e passò il Reno portando la devastazione in Germania. Nel terzo anno si combatté nella periferia, l’Aquitania e la Bretagna; infine una duplice incursione in Britannia, l’Inghilterra attuale, produsse l’effetto che Cesare voleva, lo stupore dei concittadini. Era un paese più che sconosciuto, quasi favoloso, e c’era, dice Plutarco, chi dubitava persino della sua esistenza. Da lassù Cesare mandò qualche ostaggio e molte leggende. Era il 55. Catullo che lo ammirava e lo dileggiava con spavalderia, lo ricordò seriamente in una poesia dolorosa, chiamandolo per la prima volta e per primo, «grande» (Carm. 11).
Naturalmente Cesare seguiva con la massima attenzione la politica di Roma, dove tornò tutti gli inverni, meno quello cruciale. Il partito dei patres era stato tenuto buono dall’allontanamento drammatico di Cicerone e da quello un po’ umoristico di Catone, incaricato, data la sua autorevole onestà, a ritirare di persona a Cipro il tesoro di Tolomeo passato ai Romani. Il povero galantuomo prese perfino la precauzione di chiuderlo in casse che, in caso di naufragio, sarebbero state segnalate da galleggianti; ma la sorte ironica gli distrusse gli accuratissimi inventari che aveva stilato. Non lo avrebbero sospettato, ma ne fu lo stesso addoloratissimo. Ma bisognava risolvere le esigenze del triumvirato e una sorta di dieta a Lucca ottenne il consolato per Pompeo e Crasso e una proroga del comando di Cesare di cinque anni. Era il caso, perché la Gallia era in piena rivolta.
Questo popolo dalla sorte paradossale, che è scomparso ma sopravvive nei suoi discendenti in buona parte d’Europa, a cominciare dalla Francia, trovò il suo eroe, Vercingetorige. Con energia e durezza estreme riuscì a conglobare contro gli invasori romani (hos latrones...) anche le tribù più filoromane. Ogni riassunto guasterebbe l’epopea del racconto cesariano. Resta nella memoria il ricordo della difesa di Alesia assediata dai Romani, un soccorso esterno di trecentomila guerrieri, la doppia difesa di Cesare assediante e assediato, e infine la naturale dissoluzione d’un coacervo troppo grande di tribù, che finirono per lasciare il campo. Cesare avrà pensato che i Galli, impetuosi e valorosi, non sapevano «reggere», resistere; giudizio ereditato dai francesi per molti secoli. L’epopea ideale si chiude con i fossati che si colmano di armi e con il vinto che dice poche parole grandi; si avvicina, con un cavallo bianco, a Cesare seduto, che non parla. Lo serberà per il trionfo e l’esecuzione del 46.
Cesare stese veramente la storia di quegli otto anni di guerra come il titolo promette: Commentarii, cioè «appunti» piuttosto che «memorie». Altri, come Silla o Lutazio Catulo, aveva già raccontato il proprio operato ma senza questo titolo elegante, all’insegna dell’impersonalità, accentuata dall’uso narrativo della terza persona, come aveva già fatto Senofonte (il precedente, più che il modello del suo stile). Cicerone, parlando di questi recentissimi Commentarii nel Brutus, seppe essere insieme adulatorio ed esatto: «sono spogli, snelli, belli... solo che l’autore pretendeva di dare materiali agli storici futuri, e ne ha già tolto la voglia alle persone pensanti: perché niente è più gradevole nella storia di una limpida, tersa rapidità» (Brutus 263).
Tanto più quanto drammatici sono i fatti. Il lettore moderno è così abituato al maggior rilievo delle parole rispetto a quello dei fatti che sente a volta una sorta di glaciale crudeltà o impassibilità o laconicità superba in quello che in fondo è un resoconto. Non esistono memorie personali così prive di esclamazioni e di commenti. Solo nel De bello civili si notano alcune «sentenze»; nel Gallico c’è qualche troppo rara osservazione estemporanea, come l’utilità dell’analfabetismo dal punto di vista della memoria. Vorremmo molto di più sul piano degli usi e dei linguaggi; davvero Cesare non ha tempo.
Il sentimento che traspare è piuttosto la Kamaradschaft. Cesare scrivendo pensa ai suoi uomini. Li ritiene superiori agli elogi; preferisce a volte qualche leggero sorriso nei momenti inconfessati di paura e di apprensione; per esempio quando hanno notizia dei Germani di Ariovisto come uomini immani e valorosissimi, i soldati rimangono tranquilli solo in apparenza. Ma nell’accampamento comparvero oggetti insoliti, tavolette cerate, calami e sigilli: tutti facevano testamento. I più orgogliosi nascondevano la paura sotto un’apparenza di responsabile pessimismo. C’è lo spirito del «ricordate?». Come quando il generale, in un brutto momento, va in prima linea con lo scudo tolto a un soldato; o come quando il soccorso alle legioni assediate fu avvertito da un messaggio legato a una freccia, che s’infisse in una tenda senza esser visto per qualche tempo. Forse per questo Cesare dà un’idea sommaria della sua strategia: perché vinse tante battaglie? Tutti lo sapevano come andò. Come in tutti i veri eserciti, domina lo spirito collettivo, e la tesi di Tolstoi in Guerra e pace deve avere molta verità. Gli ordini di Cesare avevano la sensatezza della necessità e i risultati gli davano ragione; ma era fondamentale che fossero gli ordini di un capo riconosciuto, che aveva conquistato la fiducia dei suoi uomini e forgiato un esercito. Cesare non dice quello di cui c’informa Plutarco, che condivideva con la truppa le stesse fatiche, sacrifici e pericoli. Questo epilettico, i cui attacchi costringevano all’assoluta immobilità (Plutarco, Cesare 53), aveva deciso di curarsi con le più dure prove fisiche. Superava in velocità i suoi messaggeri, attraversava i fiumi a nuoto, comunicava alla truppa un po’ della sua vertiginosa rapidità di decisione. E gli altri, i barbari, i nemici? I Galli li raffigura un po’ come un ufficiale inglese che racconti le vicende d’una guerra coloniale. Una volta risero a crepapelle vedendo quei soldati di piccola statura costruire una torre così lontana, ma quando si accorsero che erano in grado di muoverla, si arresero, ammirati. Ariovisto trattava alla pari e diceva che gl’importava poco dell’amicizia romana se lo danneggiava, e che se avesse eliminato Cesare avrebbe fatto un piacere a molti, a Roma. Basta l’uscita d’un soldato per dare idea del morale della truppa. Bisognava incontrarsi con Ariovisto in territorio neutro con una scorta di cavalleria, ma Cesare non si fidava dei Galli e pensò bene di farli smontare e sostituirli con soldati «amici», quelli della X legione. «Caspita – disse uno – Cesare fa per noi di più di ciò che ha promesso: aveva promesso di metterci nella coorte pretoriana e ci nomina cavalieri.» Domina in un linguaggio così schietto e limpido una moderata paratassi, salva l’antipatia per il discorso diretto, cha sa di oratoria; era l’esempio del purus sermo e l’applicazione della sua aurea poetica: «il vocabolo che non hai sentito, non nell’uso, scansalo come uno scoglio!» (tamquam scopulurn fugias inauditum atque insolens verbum).
La guerra dei cittadini
La storia conosce molte guerre civili, ma nessuna è memorabile e singolare come quella che durò nell’Impero tra il 49 e il 31. Dopo questi diciotto anni restò delle antiche magistrature più il nome e l’onore che non la sostanza, e la secolare contesa tra patriziato e plebe si risolse in quello che diciamo l’Impero, cioè nel governo d’un «generale», parola che non suona bene alle nostre orecchie; ma nessuno pensa di definire quello romano uno Stato militare. Perché in sostanza era stato un esercito di cittadini, e la pane cesariana rappresentava il vero popolo in anni. Tuttavia nessuna delle antiche magistrature fu annullata. Cesare e, con più diplomazia e morbidezza, Ottaviano, accumularono tutti i poteri senza alterarli; la contesa tra i patres e i popolari fu assorbita nelle immense distribuzioni di terre, e politicamente in una diarchia in cui il senato eleggeva nell’imperatore un potere assoluto; potendo intervenire in situazioni eccezionali. Fu questa la mai scritta costituzione romana. Il tempo mostrò che l’immensità dell’Impero non permetteva più magistrature arcaiche. Roma restò, più che una capitale, la città madre d’un mondo che portò il contributo di tutte le sue civiltà e si fonderà in una cittadinanza sempre «romana».
L’imperatore aveva bisogno d’un potere morale che ipopoli gli conferirono nella forma naturale agli antichi, quella religiosa. Furono proprio i paesi orientali a «divinizzare» l’imperatore; la religiosità antica attribuiva al concetto di «divino» un’estensione oggi impensabile (tranne che in India): deus-theós comprendeva sia l’unità che la molteplicità del divino come tutto ciò che ad esso partecipasse. Poteva non essere divus il reggitore dell’ordine del mondo? Quell’aggettivo, su cui Vespasiano si permetterà di scherzare, era inevitabile.
Era il sentimento dei popoli. È significativo che proprio Cesare fosse il primo «divinizzato» e non dall’autorità ma da infinite certezze: una cometa che brillò in cielo nel 44 fu la sua anima assunta. Così il primo eroe del Wahlhalla romano fu un epicureo; ma dopo la sua morte, come se la morte non appartenesse tanto a Cesare quanto alla storia.
Una rivoluzione così profonda, una sintesi così ricca di futuro, non poteva forse avvenire con un’evoluzione normale. Fu questo il senso delle guerre civili, che i superstiti ricordarono con un profondo senso di colpa: «Ahi, vergogna delle nostre cicatrici, del delitto, dei fratelli!... Noi, i maledetti, nulla abbiamo lasciato intatto», dirà Orazio (Carm. I, 35, 32-36). La generazione d’Augusto, con i suoi poeti, percepì l’intervento divino nella storia. Il Carmen saeculare non è un inno di esaltazione, ma di speranza e di espiazione, cantato da generazioni nuove.
Con la resa di Vercingetorige la guerra in Gallia era finita. Era costata ai Galli un milione di morti e un altro milione era caduto in servitù; ogni soldato romano aveva per lo meno uno schiavo. Non ostante la spietatezza, l’immenso paese non costituì più un pericolo alle spalle di Cesare. Molte tribù rimasero per secoli «alleate del popolo romano», e i tributi imposti da Cesare furono minimi. Numerosi Galli si offrirono volontari nella guerra civile e non si ha documento di defezioni o insurrezioni, neppure quando Marsiglia, centro di commerci e d’incivilimento di tutta la Gallia, cadrà sotto i colpi di Cesare.
A Roma la situazione era molto mutata. Clodio fu ucciso in uno scontro armato con la banda senatoriale di Milone, ciò che provocò il furore popolare; si ottenne almeno il processo del responsabile, che fu difeso da Cicerone, in un’orazione divenuta presto classica ma pronunciata con timore e in un’atmosfera da stato d’assedio, con le strade e gli edifici pubblici presidiati.
Il «mostro dalle tre teste» era morto. Crasso, partito con molte ambizioni per il fronte dei Parti, era finito, con tutto il suo esercito, nel deserto siriaco a Carré. D’ora in poi il deserto sarà il valico insuperabile per entrambi gli imperi. Pompeo era poi un altro uomo, o meglio sentiva un altro ruolo. Giulia era morta da due anni e ora sposava una Cornelia, figlia del collega nel consolato del 52. Stava diventando il magistrato ideale, l’esponente dei patres. Propose una legge sugli abusi elettorali, de ambitu, e una per atti di violenza, de vi, che colpiva molti cesariani.
La diffusa diffidenza per Cesare si trasformò in un odio sordo, soprattutto negli anni 50 e 49, sotto i consolati rispettivamente di Claudio Marcello e di un parente omonimo. Non è facile ricostruire il maligno gioco delle astuzie politiche di quel momento. Pompeo era adulato, aiutato, invocato e fornito di legioni. Gliene aggiunsero anche due tolte a Cesare col pretesto di inviarle sul fronte partico. La seduta d’apertura del primo gennaio 49 fu una tempesta: ormai si parlava, o meglio si urlava chiaro. L’ingenua proposta di Canidio di allontanare Pompeo rimandandolo alle sue legioni fu accolta da tali improperi che Canidio la ritirò. Una lettera di Cesare in cui chiedeva, con una moderazione che stupisce, la deposizione del comando di entrambi gli eserciti, fu letta solo perché i due tribuni cesariani, Curione e Marco Antonio, lo pretesero, ma non fu neppure discussa. Si votò invece un Senatus consultum ultimum che dava i pieni poteri al senato e a Pompeo. I tribuni furono costretti al silenzio e dovettero fuggire travestiti da schiavi, per raggiungere Cesare a Ravenna.
Cominciano da quella seduta di guerra aperta i Commentarii de bello civili; conoscendo l’atmosfera incandescente di Roma, ancora una volta Cesare stupisce per la sua laconicità. Osserva però che la maggioranza dei senatori votò controvoglia, trascinata dalla violenza verbale (conviciis) d’un console e da un’atmosfera di terrore. Probabilmente era esatto. La proposta di Cesare era anche troppo conciliante. Evidentemente il senato ebbe paura: di che? Della realtà, cioè che bisognava ammettere che l’autorità senatoria era inferiore a quella degli imperatores. Dovendo scegliere un protettore, si preferiva il più debole, Pompeo. O, come dice realisticamente Dione Cassio, Pompeo era sempre meno odiato di Cesare.
Non sapremo mai il vero stato d’animo di Cesare. È certo solo che sentiva tutta la sua gloria. Aveva raggiunto il suo modello inconscio, che aleggiava del resto sullo spirito dei tempi, Alessandro Magno. Era anche gloria di Roma, e non accettava che non venisse riconosciuta. Catone, il futuro santo degli stoici e dei repubblicani, anni prima, era giunto al punto di proporre la consegna di Cesare ad Ariovisto per la durezza usata contro quel popolo. La storia non presenta una situazione così paradossale, quella di un Napoleone trionfante che avesse alle spalle, supponiamo, la minaccia di quei monarchici che aveva disperso a cannonate prima di iniziare la sua carriera. Cesare era condizionato dalla sua gloria, non dalla sua ambizione. La sua proposta conciliante non poteva essere che dilatoria.
Avvenne l’inevitabile, anche perché il tempo stringeva. «Passato quel ponticello – quello sul Rubicone – la parola è alle armi.» Presa la decisione, parlò ai suoi uomini, diremmo oggi, col cuore, senza enfasi, quasi con sofferenza. I soldati si dichiararono «pronti a respingere le offese arrecate al loro generale e ai tribuni della plebe». Preziosa connessione. Poi, il 12 gennaio del 49 (giuliano, cioè il 17 dicembre del 50) passò il famoso ruscello. Lasciò libero un branco di cavalli come segno propiziatorio. Un uomo presso il greto suonava il flauto. Qualcuno lo vide grande e bellissimo; altri lo videro prendere una tromba e passare il confine con una marcia trionfale. Cesare disse letteralmente: «Andiamo, dove ci chiamano i segni degli Dèi e l’ingiustizia dei nemici. Il gioco è fatto», alea iacta est (Svetonio, Caes., 32-33).
Ma tutta quella gente che lo condannava come nemico della patria non seppe difendere Roma. Pompeo marciò verso nord, ma la velocità di Cesare lo prevenne. Le leve senatoriali combinarono poco. Cesare non trovò resistenza e marciò verso Brindisi. Evidentemente voleva incontrare Pompeo, non per batterlo ma per parlargli, e per questo tentò di impedirne la fuga bloccando il porto. Ma Pompeo, forte della sua flotta, passò lo Ionio con molta truppa; tutti a Roma puntavano sull’oltremare. L’enorme folla descritta da Dione Cassio, che bloccò le porte e gremì la Via Appia non era solo di patres e di potenti. C’era il terrore, sentivano ovunque la cavalleria di Cesare. Roma, luogo necessario per ogni elezione, restò deserta. S’inventò un concetto moderno, quello di governo in esilio. Questi legittimisti erano, come sempre, tanto più feroci e offesi quanto più sentivano la loro pochezza. Ma anche Cesare soffriva d’un complesso di colpa che insieme ne acuiva l’energia e gl’imponeva la famosa clemenza. Era una generosità temutissima e rifiutata; Cicerone la chiamava «una trappola». Cesare prendeva atto dell’ingenerosità e crudeltà degli avversari, senza goderne; i Commentarii abbondano di questi esempi, e non si vede che bisogno aveva di specularci. Ad ogni modo doveva e voleva farsi perdonare le sue vittorie.
Solo dopo la risposta negativa di Pompeo per una ricomposizione, Cesare, lasciando a Durazzo una testa di ponte, partì per la Spagna, per avere le spalle sicure. Marsiglia, l’ultima polis greca libera, una piccola Venezia per la civiltà, le venerande tradizioni e la ricchezza (possedeva anche un vasto retroterra) gli fermò il cammino. Cesare la fece assediare e proseguì con sei legioni. Lo scontro con i pompeiani, al comando di Petreio e Afranio, avvenne a Ilerda (nell’attuale Catalogna) e fu molto difficile; lo spirito di corpo e la fedeltà ai comandanti sostituivano l’amor di patria, ma fu un dramma per quelle truppe che si battevano con valore e senza odio. Dopo la battaglia chiamavano dolorosamente, nel campo avversario, parenti e amici (I, 74). Il fanatismo e la durezza erano tra gli ufficiali pompeiani, che consideravano traditori tutti gli avversari (l, 76,4). I pompeiani dovettero cedere, col diritto di optare sul loro futuro, e molti passarono dalla parte di Cesare. Intanto anche Marsiglia cadeva e perdeva la sua secolare libertà.
Non mancarono insuccessi. Curione con due legioni puntò sulla Sicilia, difesa da Catone che l’abbandonò e si rifugiò a Utica, in Africa, dove poteva far conto sull’alleanza del re numida Giuba; Curione lo inseguì, convinto che il re non si sarebbe battuto, ma sbagliò i suoi calcoli e subì una seria sconfitta; preferì la morte in combattimento «piuttosto che tornare in presenza di Cesare dopo aver perduto un esercito affidato alla sua fides»; testo esemplare per intendere su che cosa si fondava la disciplina e l’onore del soldato romano. Nascevano gravi crisi di coscienza, discusse nelle assemblee militari (II, 29-33).
Un altro insuccesso toccò direttamente a Cesare, durante e dopo le operazioni di sbarco nella testa di ponte in Epiro. Tornato a Roma e eletto dittatore, poi console per Vanno seguente, 48, si era diretto a Brindisi per l’ultimo sforzo, con dodici legioni di cui tre di veterani, condotte da Marco Antonio. Ma la superiorità navale dei pompeiani rese il trasbordo difficile, e nel continente una lunga guerriglia con la truppa di Pompeo subì uno scacco, apertamente riconosciuto (III, 64). Cesare conobbe fino in fondo la potenza dell’imprevedibile, della Tyche (III, 26; 27; 69: fortuna quae plurimum potest), l’odio insanabile dei legittimisti e infine l’irriducibilità di Pompeo. Un’estrema proposta di conciliazione ottenne una risposta sprezzante (III, 18): da allora, nei Commentarii, lo spirito del resoconto si fa spietato con i pompeiani.
Era la tarda primavera. Cesare avanzava in Macedonia e l’esercito nemico era accampato nella rossa e calda campagna di Parsalo. Vi si respirava un’atmosfera di trionfalismo e di avidità selvaggia, che Cicerone presente conferma nelle sue lettere. E di gran lusso: freschi pergolati, prati artificiali sotto le tende, grandi ostentazioni di oggetti d’argento, molte armature di ufficiali pure d’argento e d’oro. La guerra imminente non era l’argomento principale. Piuttosto si discuteva del dopoguerra, cioè delle cariche, dei consolati futuri, dei beni mobili e immobili degli usurpatori. Tre personaggi altercavano ogni giorno sull’eredità del pontificato di Cesare, vantando i propri titoli. Solo Cicerone era pessimista, e anche idealista. Sentiva che quella contentio regnandi sarebbe stata in ogni caso la fine della sua res publica. Ma il particolare più crudele Cesare lo tenne per Pompeo, ricordando il giuramento, pronunciato nell’imminenza della battaglia, di non tornare se non vincitore. La battaglia fu combattuta il 29 giugno (giuliano) e Cesare la descrive con la solita ovvietà dell’evento. La cavalleria dei pompeiani cedette al valore dei cesariani, questi cominciarono l’aggiramento e i pompeiani fuggirono in massa; e non sappiamo come fosse così naturale che 22.000 uomini ne circondassero e disperdessero 45.000. Eppure Cesare si era posta la nostra domanda: «Perché, almeno io penso, esiste innato in tutti gli uomini uno slancio misterioso, un fuoco, che si accende nella passione della battaglia»; e accusa Pompeo di non avere fatto nulla per accenderlo (XCII 4-5). Dà poi per scontato il valore dei suoi, di cui fu simbolo un oscuro Crastino che disse le parole giuste al suo manipolo, lanciandosi all’attacco.
Pompeo prese il primo cavallo che trovò e fuggi verso nord, dove c’erano porti liberi; navigò fino a Mitilene dove dimorava sua moglie e con lei cercò ospitalità in Egitto. Qui i cortigiani dei due giovanissimi re, fratelli e sposi, Tolomeo e Cleopatra, lo uccisero, serbando la testa per mostrarla al vincitore. Conservarla era in effetti possibile. Cesare restò turbato a vederla. Dopo, nel romanzo della sua vita s’inserì il breve amore per la diciottenne Cleopatra, che gli diede un figlio, Cesarione.
Qui finisce il De bello civili. Non merita d’essere meno letto degli altri Commentarii. Accusato, già da Asinio Pollione, che scrisse sullo stesso argomento, di avere a volte alterato i fatti, è in realtà meno sorvegliato, meno vittorioso, in sostanza più umano del De bello gallico. Di fronte alla tragedia dei cives, Cesare è diverso che di fronte a un dramma di nemici, cioè di estranei. In una inevitabile apologia, non si poteva essere più sinceri. Jerome Carcopino, il più critico dei suoi ammiratori, scrive che «la grande attenuante di Cesare, ciò che legittimava l’azione fratricida che stava per intraprendere è questa: al punto in cui stavano le cose soltanto la guerra civile avrebbe potuto realizzare il suo ideale rivoluzionario». Certo: ma anche la necessità e il dramma vissuto. La diabolica astuzia dei suoi nemici fu quella di farlo scegliere tra la rovina sua e di quello che rappresentava e la violenza illegale. Il legalitarismo copriva un settarismo spietato, evidente anche nella relativa scarsità dei documenti. Il narratore, il cronista dei fatti, brilla d’arte inconsapevole, quella appunto dei fatti. Se lo spirito del De bello gallico era il pericolo comune, qui è piuttosto l’angoscia comune, quel «non voluto» che Cesare visse più duramente di tutti. Non ci sono nemici, e la parola hostis non appare. Anche quella che si dice la sua «ironia» è amara e severa. Tranne un caso, in cui è addirittura divertito. E quello di Varrone, il famoso dotto, di cui restano preziose reliquie del De lingua latina e del De grammatica e il De re rustica, pochissimo del moltissimo che scrìsse nella sua lunga vita. È facile che in tempi migliori abbia disputato con lui sul problema dell’analogia e dell’anomalia del linguaggio, e ora se lo trovava di fronte alla testa d’un esercito nemico. Bisogna rileggere i capitoli XVII-XX del secondo libro perché lo meritano. Varrone doveva vedere le cose della vita con la pacifica disponibilità dello studioso, e l’invasione di Cesare, da lontano, gli parve tutt’altro che deplorevole. Ma da vicino, così pericoloso e brutale, non lo accettò. E doveva guidare contro di lui delle legioni, e per un uomo di studio è difficile comandare uomini. Pensò un suo piano di guerra che fu quello di difendersi nella penisoletta di Cadice, protetta dalla flotta; così doveva essere una guerra «non difficile». Se non che il piano fu rovinato dagli abitanti della città che gli chiusero le porte in faccia e fecero sloggiare d’urgenza il piccolo contingente d’occupazione. A Varrone non restò che intendersi con l’antico collega di linguistica e si rimise tutto a lui: gli consegnò la sua ultima legione e tutti i quattrini che restavano. Fu prodigo di notizie utili. Peccato che la storiografia antica sia così disperatamente povera di particolari aneddotici, e non sappiamo niente dei loro dialoghi; Cesare era capace di risollevare questioni di analogia, magari la sua pretesa di scrivere il genitivo dei nomi in -ius con tre i.
L’idillio con la giovanissima Cleopatra, con cui navigò a lungo sul Nilo, con la truppa che seguiva seccatissima lungo le sponde, fu bruscamente interrotto dal re d’Armenia Farnace, che obbligò Cesare a una guerra lampo, ricordata per il famoso telegramma Veni vidi vici. Né la resistenza senatoria era finita. La guidava il più degno dei suoi campioni, Marco Porcio Catone. La storia esprime sempre, al momento giusto, il suo personaggio, e in questo caso fu Catone. Era discendente del Censore, e soprattutto a Roma le ascendenze erano un impegno e un vincolo. Il suo ruolo era quello della virtus inflessibile e della rigorosa difesa del mos maiorum. Gliene derivò un prestigio profondo presso tutte le classi sociali, ciò che attesta ancora una volta la sostanza etica del mondo romano. Un piccolo aneddoto dice molto: un giorno, a teatro, il pubblico aspettava uno strip-tease, ma era imbarazzato dalla presenza di Catone, il quale saggiamente uscì dal teatro, per non privare i concittadini del loro divertimento. Si sorrideva a volte di lui, e lo fece anche Cicerone che sarebbe stato il suo maestro, se un uomo del mos maiorum avesse avuto bisogno di teorie libresche; ma non si rideva mai. Quando ci fu la crisi catilinaria, fu il suo intervento sdegnoso a decidere l’assemblea. Era naturale che si ponesse tra i nemici di Cesare; alla disfatta della causa diede ciò che le mancava, il martirio. Si era trincerato a Utica, presso Cartagine, quando i cesariani sbarcarono e vinsero a Tapso, non lontano. Cesare diede l’ordine perentorio di risparmiarlo e portarglielo vivo. Voleva rendergli onore, e sperava di conquistarlo come aveva fatto con Cicerone. Ma Catone era un altro uomo, e non esitò. Prima mise in salvo i cittadini romani, poi pensò all’anima sua: si preparò alla morte leggendo il Fedone e poi si uccise con uno squarcio al ventre. La notizia pericolosissima del suicidio si diffuse subito; contro i primi apologisti Cesare scrisse un Antìcato, che è una sventura aver perduto, e a posteriori si può supporlo ingeneroso, mentre fu legittima difesa. Forse senza Catone non ci sarebbe stato Bruto. E il mito crebbe, politico e, molto di più, morale. Cominciava il tempo, soprattutto per opera di Cicerone, di trasformare i grandi della Roma vecchia in stoici autentici perché pratici; finiva la Roma di Cesare, di Catullo, di Lucrezio, cominciava quella di Orazio, di Seneca, di Marco Aurelio; e l’eroe della libertà oligarchica divenne quello della libertà interiore, di cui gli stoici erano fanatici difensori; più tardi sarà la libertà cristiana dal male-Maligno, incoronata nella poesia da Dante che a Catone condonò volentieri suicidio e paganesimo. Lo raffigurò come un vegliardo dalla lunga barba bianca. Era invece un vigoroso uomo di quarant’anni, forse meno intelligente e ironico dell’avo-modello, ma superbamente convinto della sua scelta e della sua infallibilità.
Nell’estate del 46 Cesare poteva e doveva celebrare cinque trionfi: li volle memorabili perché il popolo avesse il senso del rinnovamento. Sapeva bene che ogni restaurazione era impossibile; ma la classe senatoria non era affatto convinta, e avrà assistito a quei trionfi con poco amor patrio. Il popolo si divertì immensamente. Quelle feste esaltavano l’orgoglio, la vista, il palato e l’allegria dei Quiriti. Noi abbiamo perduto il senso e l’esperienza dei tripudi popolari. Cesare apriva il corteo con la tradizionale quadriga di cavalli bianchi; seguivano le truppe, più allegre che marziali; intonarono anche canzoni goliardiche a danno dell’imperator. Poi vennero i vinti, tra cui Vercingentorige portato alla morte. Sfilarono enormi pannelli e carri che rappresentavano episodi memorabili. Ci furono banchetti pubblici con 60.000 invitati, in triclinio, perché per un romano mangiare seduto era un avvilimento (Catone fece questo voto dopo Parsalo, di mangiare senza «divanetto» fino alla vittoria su Cesare). Ogni cittadino ebbe un donativo di grano e di olio per un anno e una notevole cifra in denaro.
Smisurata quella versata nelle casse dello Stato. Seguì il safari, la passione romana, così esaltante che Cesare dovette proibire che i senatori scendessero nell’arena, come molti cittadini che vollero esibirsi nella lotta col leone che risuscitava il mito di Eracle.
Era il momento dei progetti, e quelli di Cesare furono così grandiosi e intelligenti che gli hanno valso l’ammirazione dei posteri, come un Mommsen o un Carcopino: grandiose e preveggenti opere pubbliche, distribuzione di terre, leggi più popolari che demagogiche e alcune suntuarie, tra cui quella che vietava i gioielli e la lettiga alle signore più giovani dei quarantacinque anni, e che possiamo credere osservatissima. Per la politica estera preparava la risoluzione del problema partico, che resterà l’assillo e il sogno dei successori. Ogni piano fu spezzato dalla congiura. Ancora una volta, la storia espresse il suo uomo, e fu Marco Giunio Bruto. La storia si fece tragedia con i giusti personaggi. Il cervello fu Cassio, ma Bruto era insostituibile. Ormai si parlava in termini ideologici, cioè stoici; Cicerone aveva preparato il terreno. Cesare non fu più il dictator ma il «tiranno», cioè il male divenuto personaggio politico. Bruto era stoico puro e discendente dell’antico Bruto, uccisore di Tarquinio il Superbo, colui che soffocò ogni sentimento umano in nome del dovere. Tutti glielo ricordavano; i muri di Roma erano pieni di scritte in questo senso. Inoltre era prezioso come intimo di Cesare, che non solo aveva dato ordine di risparmiarlo a Parsalo ma fu felice di colmarlo di onori e di responsabilità. La scena da tragedia delle idi di marzo, con lo sfondo della loggia del teatro di Pompeo, sede insolita d’una seduta senatoria, è così descritta da Svetonio: «Cesare si era seduto e i congiurati lo circondarono con l’aria di rendergli omaggio, e subito Cimbro Tullio, cui spettavano le prime battute della scena, gli andò molto vicino come volesse domandargli qualcosa: Cesare fece un cenno negativo e un gesto come di rimandare a un altro momento: l’altro gli afferrò la toga sulle spalle. Cesare quasi gridò: «Ma questa è violenza!», e uno dei Casca lo ferì di fronte poco sotto la gola. Cesare gli afferrò un braccio trapassandolo con il punteruolo per scrivere e tentò un balzo. Un’altra ferita lo fermò. Poi vide tutt’intorno i pugnali levati contro di lui. Allora si coprì il capo con la toga... Fu trafitto da ventitré colpi, e al primo diede un gemito senza parlare. Ma alcuni hanno riferito parole dette a Marco Bruto quando lo assalì: «Anche tu, creatura» (kaì sy, téknon)» (Caes., 82).
Non a caso il particolare più famoso è quello delle estreme parole di Cesare, ma non quelle avevano fatto nascere l’opinione che Bruto fosse suo figlio carnale. Era diceria diffusa a Roma, ed era nota la passione giovanile di Cesare per la madre di Bruto, Servilia, sorella di Catone. C’è a proposito un aneddoto gustoso: durante la seduta del 63 in cui si discusse la sorte dei catilinari, Cesare ricevette una missiva segreta. Catone gli puntò il dito contro: si era arrivati al punto di ricevere lettere dall’esterno? Per tutta risposta Cesare consegnò a Catone la lettera: era un biglietto d’amore, molto libero nel linguaggio, di sua sorella. Catone gli gettò la lettera dicendo «Ma va, matto», e passò subito alle cose serie. Ma avremmo voluto vedere la faccia di Cesare.
Contro la paternità militano informazioni che alzerebbero la nascita di Bruto alV85: troppo presto. Ma la storica maldicenza era diffusa tra i contemporanei, che non potevano sbagliare facilmente le date della vita vissuta. È più facile che sbaglino le date del passato. Per la paternità milita il suo comportamento nei riguardi di Bruto, privilegiato ed eccezionale, come lui stesso riconosceva. Anche il comportamento di Bruto ha qualcosa di singolare: gli scrisse per primo dopo Parsalo, mostrando una fiducia eccezionale, e anche l’accettazione di tanti onori era strana in un legalitario fanatico. Un figlio non si sente umiliato dalla generosità paterna. Dunque sapeva tutto? Possibile. Ma particolarmente sconcertanti sono le parole di Cesare, quel paterno, materno «creatura». Fu quando lo vide che si coprì con la toga e rinunciò a una difesa che da altre fonti parrebbe energica. Svetonio sbaglia l’ordine dei fatti perché distingue tra quelli che ritiene certi e gli altri, riferiti da fonti cui crede meno.
Dobbiamo dunque scegliere senza avere argomenti decisivi di scelta. Sospendere il giudizio sarà prudente, ma significa rinunciare a un dato prezioso perché riguarda meno il personaggio storico che l’uomo.
Epilogo
L’uccisione di Cesare fu, non ostante tutto, un incidente. I problemi restavano; Bruto e tutti gli ex pompeiani sperarono in un assurdo ritorno «a prima» per due giorni, fino al funerale. Anche qui sappiamo poco. Perché si volle fare il rogo nel Foro? Perché non si fece sparire e affidare agli intimi quel cadavere? Fu il discorso funebre di Antonio a risvegliare le passioni. Lesse il testamento di Cesare e i suoi ultimi doni al popolo parvero quelli d’un eterno amico. La storia ancora una volta si fece arte: Antonio agitò la veste insanguinata di Cesare, il popolo furibondo arse il morto con gli scanni della Curia saccheggiata. Ancora una volta i conservatori lasciarono Roma, raggiunsero Brindisi, riformarono un esercito meno innocente, furono battuti da Antonio e Ottaviano due anni dopo, nel 42, a Filippi.
La tragedia non era finita, ma aveva bisogno di finire. Occorreranno ancora undici anni, fino all’ultimo scontro tra i concittadini, ad Azio, ma inquinato da presenze straniere. La flotta di Cleopatra diede alla guerra civile un aspetto di guerra esterna, e così la presentò l’abilissimo Ottaviano Cesare e la celebrò Orazio, che non nomina Antonio, nella famosa ode, ma solo Cleopatra. Ad Azio c’erano anche due imponenti eserciti di terraferma, che solidarizzarono e imposero di fatto la pace tra i cesariani, perché era la pace tra i popolari. Il cesarismo era finito con la loro vittoria. Ora si apriranno altri problemi e altre evoluzioni, costitutive della spiritualità europea di tutti i tempi.
ENZO MANDRUZZATO