Libro secondo

 

1. Mentre questo accade in Spagna, il legato Gaio Trebonio, che era stato lasciato ad assediare Marsiglia, inizia a costruire da due diversi punti, verso la città, terrapieno, vinee e torri. Un punto era vicinissimo al porto e ai cantieri navali, l’altro alla porta attraverso la quale si entra provenendo dalla Gallia e dalla Spagna, sulla costa, vicino alla foce del Rodano. Marsiglia è infatti bagnata dal mare quasi su tre lati; non resta che il quarto ad essere accessibile da terra. E anche su questo lato, la parte che conduce alla rocca, difesa dalla conformazione naturale del terreno e da una valle profondissima, richiede un assedio lungo e difficile. Per portare a termine i lavori, Gaio Trebonio fa venire da tutta la provincia una gran quantità di uomini e animali da soma; ordina di raccogliere vimini e materiale da costruzione. Messo insieme l’occorrente fa innalzare un terrapieno alto ottanta piedi1.

 

2. Ma la città era da tempo talmente provvista di ogni tipo di apparato bellico e possedeva una tale quantità di macchine da lancio, che nessun riparo mobile fatto di vimini intrecciati poteva resistere. Travi di dodici piedi2 con le punte di ferro, lanciate da enormi baliste, potevano trapassare quattro strati di graticcio e conficcarsi nel terreno. Si costruivano quindi dei portici con assi di legno dello spessore di un piede3, al riparo dei quali si passava di mano in mano il materiale per costruire il terrapieno. Una testuggine di sessanta piedi4, costruita anche questa con legno resistentissimo, coperta di quanto era necessario per proteggerla dai proiettili incendiari e dal lancio di pietre, apriva la strada pareggiando il terreno. Ma l’imponenza dei lavori, l’altezza del muro e delle torri, le macchine da lancio tanto numerose, rallentavano tutte le operazioni. Gli Albici, inoltre, effettuavano frequenti sortite dalla città, nell’intento di appiccare il fuoco al terrapieno e alle torri. I nostri soldati respingevano facilmente gli assalti ricacciando nella città coloro che avevano fatto irruzione, dopo aver inflitto loro gravi perdite.

 

3. Frattanto Lucio Nasidio5, mandato da Gneo Pompeo in aiuto di Lucio Domizio e dei Marsigliesi con una flotta di sedici navi, di cui poche con la prua corazzata di bronzo, attraversa lo stretto di Sicilia prendendo di sorpresa Curione, che non se lo aspettava, e spintosi fino a Messina, dove per l’improvviso terrore che aveva preso i capi politici e il senato6, la popolazione era in fuga, preleva dai cantieri una nave. Aggiuntala alla sua flotta, prosegue la rotta per Marsiglia e, inviata di nascosto una piccola imbarcazione, informa Domizio e i Marsigliesi del suo arrivo e li esorta vivamente a scontrarsi nuovamente con la flotta di Bruto, ora che possono valersi dei suoi rinforzi.

 

4. I Marsigliesi, dopo la precedente disfatta, avevano reintegrato le navi perdute tirando fuori dai cantieri delle vecchie imbarcazioni, e le avevano riparate ed equipaggiate con ogni cura – disponevano in abbondanza di rematori e timonieri – aggiungendovi battelli da pesca pontati, per proteggere i rematori dai proiettili; su tutte le imbarcazioni erano imbarcati arcieri e macchine da lancio. Allestita in tal modo la flotta, spinti dalle suppliche e dai pianti di tutti, vecchi, donne e fanciulle, perché salvassero la città nell’estremo pericolo, con non minore coraggio e fiducia della prima volta che avevano combattuto, si imbarcarono. Accade infatti, per comune difetto della natura, che nelle situazioni insolite e sconosciute, o acquistiamo maggiore fiducia o veniamo presi da uno sproporzionato terrore, come appunto allora accadde. L’arrivo di Lucio Nasidio aveva infatti riempito la cittadinanza di una grandissima aspettativa e determinazione. Col favore del vento escono dal porto e raggiungono Nasidio a Tauroento7 – una piccola piazzaforte dei Marsigliesi – e qui preparano le navi, si rafforzano nel proposito di venire allo scontro, si scambiano pareri. L’ala destra dello schieramento viene assegnata ai Marsigliesi, la sinistra a Nasidio.

 

5. Verso lo stesso luogo si dirige anche Bruto, con la flotta accresciuta di diverse unità. Alle navi che erano state fatte costruire da Cesare ad Arles aveva infatti aggiunto le sei tolte ai Marsigliesi, che aveva riparato nei giorni precedenti e completamente attrezzato. Esortati quindi i suoi a non temere un nemico ormai vinto, che avevano battuto quando aveva tutte le forze intatte, pieno di buone speranze e di coraggio, muove all’attacco. Dall’accampamento di Gaio Trebonio e da tutte le alture si poteva agevolmente vedere quanto accadeva nella città: tutti i giovani che erano rimasti nella piazzaforte e tutti gli uomini più adulti, con i figli e le mogli, nei luoghi pubblici, nei posti di guardia o sulle mura, tendevano le mani al cielo o si recavano nei templi degli dèi immortali e, prostrati davanti alle statue, pregavano per la vittoria. Non vi era nessuno che non pensasse che nell’esito di quella giornata non si decidesse della sorte di tutti. La migliore gioventù, infatti, e i più influenti cittadini di ogni età, obbedendo al richiamo e cedendo alle suppliche, si erano imbarcati sulle navi, cosicché, se avessero avuto la peggio, non restava loro neanche la possibilità di fare un nuovo tentativo; se invece avessero vinto, potevano sperare nella salvezza della città, difendendosi da soli o grazie agli aiuti esterni.

 

6. Attaccata battaglia, il valore dei Marsigliesi fu ineccepibile. Memori delle raccomandazioni ricevute poco prima dai loro concittadini, combattevano con lo spirito di chi sa che non avrà un’altra occasione per tentare di nuovo, di chi crede che quanti in battaglia perderanno la vita, non precederanno di molto i concittadini, che verranno colpiti dallo stesso destino, una volta che la città sia caduta. Poiché le nostre navi si erano leggermente distanziate le une dalle altre, il nemico aveva la possibilità di giostrare con l’abilità dei timonieri e la mobilità delle imbarcazioni, e se i nostri, presentandosene l’opportunità, gettati i rampini d’abbordaggio, bloccavano la nave nemica, da ogni parte accorrevano i rinforzi. Assieme agli Albici, non erano da meno nei combattimenti corpo a corpo e non erano molto inferiori ai nostri in valore. Contemporaneamente, dalle imbarcazioni più piccole, da lontano, un fitto lancio di proiettili investiva, ferendoli, i nostri soldati che, impegnati in altre azioni, venivano presi alla sprovvista. Due triremi, avvistata la nave di Bruto, facilmente riconoscibile dalle insegne, vi si erano lanciate contro da due diverse direzioni. Ma Bruto si accorge della manovra quel tanto che basta ad anticiparla un attimo, e riesce a sfuggire grazie alla velocità della nave. Le due imbarcazioni, trascinate dall’abbrivio, entrarono in collisione con tale violenza che ambedue rimasero gravemente danneggiate per lo scontro, anzi, una delle due ne ebbe spezzato il rostro e si sfasciò completamente8. Le navi della flotta di Bruto che si trovavano nelle vicinanze, accortesi dell’incidente, assalgono le due navi che non potevano manovrare e rapidamente le affondano.

 

7. Le navi di Nasidio non furono di nessun aiuto e abbandonarono dopo poco la battaglia. Non si sentivano certo in dovere di mettere a repentaglio la propria vita, visto che non erano costretti dal fatto di trovarsi in vista della patria o dalle esortazioni dei parenti. Così, delle loro navi, nessuna mancò all’appello; della flotta marsigliese, cinque navi furono affondate, quattro catturate, una fuggì con quelle di Nasidio, che si diressero tutte verso la Spagna Citeriore. Delle rimanenti, una fu inviata a Marsiglia per portare la notizia, e si era appena avvicinata alla città, quando tutta la popolazione si riversò fuori per sapere e, come seppe, si levò un tale compianto che la città sembrava esser caduta in quello stesso momento in mano ai nemici. Ciò nonostante, tuttavia, i Marsigliesi si diedero a completare i preparativi per la difesa della città.

 

8. I legionari che si occupavano delle opere d’assedio sul lato destro della città si resero conto che si sarebbero potuti difendere molto meglio dai frequenti assalti dei nemici se avessero costruito in quel luogo, come fortino e riparo, ai piedi del muro, una torre di mattoni. In un primo momento, dovendo servire contro le improvvise incursioni, la costruirono piccola e bassa. Qui si ritiravano; di qui si difendevano, in caso di una maggiore pressione nemica; di qui si slanciavano a respingere ed inseguire il nemico. La torre misurava trenta piedi su ogni lato ed aveva pareti spesse cinque piedi9. Ma in seguito, poiché l’esperienza insegna in ogni circostanza, quando ad essa si aggiunge l’umana solerzia, si trovò che avrebbe potuto essere di grande utilità soprelevare la torre. Il lavoro fu condotto nel modo seguente.

 

9. Quando le mura della torre furono innalzate fino al punto in cui doveva essere costruito il tavolato del primo piano, questo fu connesso alle pareti in modo che le estremità delle travi non sporgessero fuori dallo spessore delle pareti, di modo che non vi fosse nulla cui i nemici potessero appiccare il fuoco. Al di sopra di questa travatura gettarono una pavimentazione di piccoli mattoni, per quanto lo permise il riparo dei parapetti e delle tettoie mobili, vi poggiarono poi sopra due travi trasversali che non arrivavano alle pareti, con cui sollevare la trabeazione che avrebbe dovuto costituire la copertura della torre; sopra quelle travi posero perpendicolarmente delle traversine tenute insieme con assi. Queste travi erano un po’ più lunghe e sporgevano dalle estremità delle pareti per potervi sospendere le coperture necessarie a ripararli dai proiettili, respingendoli, mentre costruivano le pareti all’interno di quella trabeazione; coprirono la superficie di quel tavolato con mattoni e fango, perché i nemici non potessero appiccarvi il fuoco, e vi gettarono sopra dei materassi per evitare che i proiettili scagliati dalle macchine da lancio spezzassero il tavolato o che i massi lanciati dalle catapulte frantumassero l’ammattonato. Intrecciarono poi tre stuoie con gomene da ancora, della lunghezza delle pareti e larghe quattro piedi10 e le appesero alla travi che sporgevano intorno alla torre, sui tre versanti rivolti al nemico. Sapevano, per averlo sperimentato in altre occasioni, che questa era l’unica protezione efficace contro i proiettili, anche se lanciati dalle macchine da guerra. Quando la parte di torre che era stata terminata fu protetta e messa al sicuro da qualsiasi lancio di proiettili nemici, spostarono i ripari a protezione di altri lavori; il tetto della torre, che era stato costruito a parte, cominciarono a spostarlo e sollevarlo dalla travatura del primo piano a mezzo di puntelli. Quando lo ebbero sollevato tanto quanto permetteva la lunghezza delle stuoie, nascosti e protetti da questi ripari, costruivano le pareti in mattoni e poi di nuovo, puntellando ancora più in alto il tetto, si procuravano lo spazio per continuare la costruzione. Quando era venuto il momento di costruire il tavolato del secondo piano, disponevano come prima delle travi all’interno dello spessore delle mura di mattoni, su quella travatura disponevano il tavolato e appendevano più in alto le stuoie. In questo modo, al sicuro e senza venir colpiti, innalzarono sei piani, lasciando delle feritoie per le macchine da lancio nei punti che sembrarono più opportuni.

 

10. Quando si convinsero che da quella torre potevano proteggere entro un certo raggio gli uomini impegnati nei lavori, decisero di costruire una galleria coperta lunga sessanta piedi, con tavole dello spessore di due piedi11, che conducesse dalla torre di mattoni alla torre nemica e alle mura. La galleria era così formata: disposero innanzi tutto sul terreno due travi della stessa lunghezza, distanti tra loro quattro piedi12, sulle quali conficcarono delle piccole colonne alte cinque piedi13. Le uniscono mediante cavalletti in lieve pendenza sui quali collocare le travi che avrebbero costituito la copertura della galleria. Vi collocano poi sopra travi dello spessore di due piedi tenute insieme da lastre di metallo e chiodi. Alle estremità della copertura della galleria, e delle travi, fissano dei listelli di legno sporgenti quattro dita14, per trattenere i mattoni che vi avrebbero disposto. Completata a regola d’arte la copertura a doppio spiovente, man mano che venivano fissate le travi sui cavalietti, le si copriva con mattoni e fango, per proteggere la galleria dai proiettili infuocati che venivano lanciati dalle mura. Sui mattoni vengono poi disposte delle pelli, per evitare che questi vengano sconnessi con getti d’acqua e sulle pelli vengono gettate delle spesse coltri perché non venissero a loro volta danneggiate dal fuoco e dal lancio di pietre. L’intero lavoro viene completato al riparo delle vinee, proprio sotto la torre, e all’improvviso, senza che il nemico se lo aspetti, con le falanghe15 in uso nella marina, viene fatto scivolare fin sotto la torre nemica a contatto con le mura.

 

11. Allarmati dall’improvvisa minaccia, gli assediati spingono innanzi con leve dei massi quanto più grandi è possibile e, scaraventandoli dalle mura, li fanno rotolare sulla galleria. Il solido materiale da costruzione sostiene l’urto e la copertura a doppio spiovente della galleria fa scivolare tutto quanto vi piomba sopra. Come vedono ciò, ricorrono ad altri mezzi: danno fuoco a barili pieni di resina e pece e, dalle mura, li fanno rotolare sulla galleria. Rotolando, questi scivolano via lungo i fianchi e vengono allontanati dalla costruzione con pertiche e forche. Nel frattempo, sotto la galleria, i soldati scalzano con delle leve i blocchi che, alla base della torre nemica, tengono salde le fondamenta. Dalla nostra torre di mattoni, un lancio di copertura di frecce e proiettili scagliati dalle macchine protegge la galleria; i nemici vengono respinti dal bastione e dalle torri; non viene lasciata loro la piena facoltà di difendere le mura. Essendo già stati scalzati parecchi blocchi dalla torre vicina alla galleria, una parte di questa crollò rapidamente e l’altra parte sarebbe di conseguenza crollata, quando i nemici, atterriti all’idea di un saccheggio della città, si precipitano tutti fuori dalle porte inermi e con le bende sacre16, tendendo supplichevoli le mani verso i legati e l’esercito.

 

12. Di fronte a quest’insolito spettacolo, tutte le operazioni di guerra si bloccano, e i soldati, distolti dal combattimento, vengono presi dal desiderio di ascoltare e sapere. Quando i nemici giungono di fronte ai legati e all’esercito, si gettano tutti ai loro piedi, e supplicano perché si attenda l’arrivo di Cesare. Si rendevano conto che la loro città era ormai presa, le opere d’assedio erano state completate, la torre era crollata: cessavano quindi di difendersi. Se, appena Cesare fosse arrivato, essi non avessero immediatamente obbedito agli ordini, nulla poteva impedire che la città fosse abbandonata al saccheggio ad un semplice cenno. Fanno notare che, se la torre fosse crollata del tutto, non sarebbe stato possibile trattenere i soldati dall’irrompere nella città nella speranza di far bottino e di distruggerla. Questi e molti altri argomenti dello stesso genere, come c’era da aspettarsi da gente colta17, furono esposti in maniera degna di compassione e tra le lacrime.

 

13. Commossi da queste suppliche, i legati richiamano i soldati dai lavori, sospendono gli assalti, lasciano delle sentinelle presso le opere d’assedio. Accordata per pietà una specie di tregua, si attende l’arrivo di Cesare. Si sospende il lancio di proiettili dalle mura e dalle nostre linee; come se la guerra fosse conclusa, tutti rallentano l’attività e la vigilanza. Cesare aveva infatti vivamente raccomandato per lettera a Trebonio di non permettere che la città venisse presa d’assalto, per evitare che i soldati, fortemente inaspriti dallo sdegno per la defezione dei Marsigliesi, dal disprezzo mostrato nei loro confronti e dalla lunga fatica, massacrassero tutti gli adulti, che era appunto quanto minacciavano di fare, e furono a stento trattenuti, in quel momento, dall’irrompere nella città: un ordine che tollerarono di mala voglia, perché sembrava che la mancata conquista della città dipendesse da Trebonio.

 

14. Ma i nemici cercarono proditoriamente il momento e l’occasione adatti per la frode e l’inganno e, lasciato passare qualche giorno, mentre i nostri erano rilassati e tranquilli, all’improvviso, verso mezzogiorno, quando alcuni si erano allontanati e altri si stavano riposando dalla quotidiana fatica sul luogo stesso dei lavori, e tutte le armi erano riposte e al coperto, fanno irruzione dalle porte e, favoriti da un forte vento, appiccano il fuoco alle opere d’assedio. Il vento propaga a tal punto le fiamme che in un momento terrapieno, gallerie, testuggine, torre, macchine da guerra s’incendiano e bruciano completamente prima che si possa capire come sia accaduto. I nostri, colpiti dall’improvviso rovescio di fortuna, afferrano le armi che possono, altri si precipitano fuori dall’accampamento. Si va all’assalto del nemico. Ma le frecce e i proiettili lanciati dalle mura impediscono di inseguire i fuggitivi. Questi si pongono al riparo delle mura e di là incendiano senza trovare resistenza la galleria e la torre di mattoni. In un attimo, il lavoro di tanti mesi viene distrutto dalla perfidia dei nemici e dalla violenza del vento. Il giorno dopo i Marsigliesi tentarono di ripetere il colpo. Approfittando dello stesso vento, con maggiore sicurezza attaccano facendo irruzione dalla parte dell’altra torre e dell’altro terrapieno, appiccando il fuoco in parecchi punti. Ma i nostri, come prima avevano completamente abbandonato la sorveglianza, così ora, messi in guardia dal colpo subito il giorno precedente, erano prontissimi a difendersi. Quindi, dopo aver inflitto molte perdite al nemico, respinsero i superstiti nella piazzaforte, senza che avessero recato alcun danno.

 

15. Trebonio, con un impegno ancora maggiore da parte dei soldati, iniziò la ricostruzione di quanto era andato distrutto. Quando videro, infatti, che tante fatiche e tanti preparativi erano finiti nel nulla, e che, a causa della tregua proditoriamente violata, il loro valore sarebbe stato deriso, se ne sentirono profondamente feriti. Poiché non restava assolutamente nulla con cui costruire un qualsiasi terrapieno, dato che erano stati tagliati e raccolti tutti gli alberi in lungo e in largo nel territorio di Marsiglia, decisero di costruire un terrapieno di nuovo genere, come non si era mai visto, formato da due muri di mattoni dello spessore di sei piedi18 ciascuno, uniti da una travatura, alto quasi quanto il precedente, che era stato fatto con legname ammassato. Dove la distanza tra i muri o la scarsa resistenza dei materiali sembra richiederlo, inseriscono dei pilastri. Vi gettano di traverso delle travi, che servano a consolidare l’opera e ricoprono la travatura di graticci che vengono a loro volta ricoperti di fango. I soldati, al coperto, protetti a destra e a sinistra dai muri, sul davanti dallo sbarramento del parapetto, trasportavano senza rischi tutto ciò che serviva ai lavori. La ricostruzione procede rapidamente; la perdita delle opere costate tanta fatica viene in breve compensata grazie all’impegno e al valore dei soldati. Dove sembra opportuno, vengono aperte nel muro delle porte per permettere le sortite.

 

16. Quando i nemici si rendono conto che quelle opere che essi avevano sperato non si potessero ricostruire neanche in moltissimo tempo, erano state ricostruite con pochi giorni d’intenso lavoro, e in modo tale da non lasciar più spazio alle loro subdole sortite, e che non restava nemmeno più un punto attraverso il quale colpire i soldati o appiccare il fuoco alle costruzioni, capiscono che nello stesso modo la città, dalla parte della terraferma, può essere circondata con mura e torri, di modo che non avrebbe avuto più senso per loro collocarsi a difesa dei propri bastioni, dal momento che sembrava che i nostri soldati avessero costruito i muri quasi a contatto delle loro mura, e che i proiettili si potessero lanciare con le mani; l’uso delle macchine da lancio, dalle quali molto si aspettavano, era vanificato dall’eccessiva vicinanza e comprendono che, combattendo ad armi pari con i nostri dalle mura e dalle torri, non possono eguagliarli in valore. Ricorrono allora alle medesime condizioni di resa.

 

17. Marco Varrone, in un primo momento, avendo avuta notizia in Spagna Ulteriore di quanto era accaduto in Italia, diffidando del successo di Pompeo, parlava di Cesare in modo molto favorevole: egli aveva avuto da Pompeo la nomina a legato ed era vincolato dal giuramento; vincoli non minori, tuttavia, lo legavano a Cesare, ed egli non ignorava quali fossero i doveri di un legato, che ricopre un incarico di fiducia; né ignorava la consistenza delle proprie forze e come l’intera provincia mostrasse inclinazione verso Cesare. Erano questi gli argomenti dei suoi discorsi, mentre non si dichiarava né per una parte né per l’altra. Ma in seguito, quando seppe che Cesare era trattenuto davanti a Marsiglia, che le truppe di Petreio si erano unite all’esercito di Afranio, che si erano raccolte molte truppe ausiliarie e molte altre se ne aspettavano o erano in arrivo, e che tutta la Spagna Citeriore era dalla loro parte, quando conobbe gli avvenimenti successivi, quelli relativi alla carestia di frumento che aveva colpito Cesare a Ilerda, e le notizie gli arrivavano gonfiate ed ampliate nelle lettere che gli scriveva Afranio, cominciò anche lui a volgersi dalla parte verso cui spirava il vento della fortuna.

 

18. Fece una leva in tutta la provincia e, completate due legioni, vi aggiunse una trentina di coorti ausiliarie. Raccolse grandi scorte di frumento da inviare ai Marsigliesi e anche ad Afranio e Petreio. Ordinò ai Gaditani19 di costruire dieci navi da guerra e curò che se ne facessero parecchie altre ad Ispali20. Fece portare nella piazzaforte di Cadice tutto il danaro e tutti gli arredi preziosi del tempio di Ercole21, vi mandò a presidiarla sei coorti dalla provincia e affidò il comando della piazzaforte di Cadice a Gaio Gallonio22, cavaliere romano, amico intimo di Domizio, che si trovava lì su incarico di quest’ultimo per occuparsi dell’amministrazione di un’eredità; in casa di Gallonio fece portare tutte le armi, private e pubbliche. Si mise lui stesso a tenere discorsi ostili nei confronti di Cesare. Spesso proclamò, dalla tribuna23, che Cesare aveva subito delle disfatte, che moltissimi soldati lo abbandonavano per unirsi ad Afranio, e che aveva avuto queste notizie da persone ben informate e da fonte sicura. Dopo aver così terrorizzato i cittadini romani di quella provincia, li costrinse ad impegnarsi per le necessità pubbliche ad un versamento di diciotto milioni di sesterzi e di ventimila libbre d’argento24, più una fornitura di centoventimila moggi di frumento. Imponeva oneri ancora più pesanti alle città che sospettava favorevoli a Cesare, vi stabiliva presìdi ed autorizzava processi contro privati cittadini, accusati di aver espresso opinioni o tenuto discorsi sovversivi contro lo Stato, e faceva confiscare i loro beni. Faceva giurare fedeltà a tutta la provincia a sé e a Pompeo. Quando seppe ciò che era accaduto in Spagna Citeriore, iniziò i preparativi per la guerra. Il suo piano era di portarsi a Cadice con le due legioni e concentrarvi la flotta e tutto il frumento; sapeva, infatti, che tutta la provincia stava dalla parte di Cesare. Riteneva che non gli sarebbe stato difficile, disponendo di vettovaglie e della flotta, condurre la guerra stando sull’isola. Cesare, benché molte urgenti questioni richiedessero la sua presenza in Italia, aveva tuttavia deciso di non lasciare in Spagna nessuno focolaio di guerra, perché sapeva che nella provincia citeriore Pompeo poteva contare su un vasto credito e su grandi clientele.

 

19. Mandate quindi due legioni nella Spagna Ulteriore sotto il comando di Quinto Cassio, tribuno della plebe, si mosse personalmente con seicento cavalieri, procedendo a marce forzate, facendosi precedere da un editto nel quale fissava il giorno in cui i magistrati e i primi cittadini di tutte le città si sarebbero dovuti trovare a Cordova a sua disposizione. Quando quest’editto fu reso noto, non vi fu nessuna città che non inviasse a Cordova, alla data stabilita, parte del senato, né cittadino romano provvisto di una qualche notorietà che non si presentasse puntualmente. Contemporaneamente la comunità romana25 di Cordova, di sua iniziativa, chiuse le porte a Varrone, dispose sentinelle e posti di guardia sulle torri e sulle mura, trattenne in città a scopo difensivo due coorti, dette coloniche26, che si trovavano lì per caso. In quegli stessi giorni, gli abitanti di Carmona27, la città più forte di tutta la provincia, la cui rocca era presidiata da tre coorti mandate da Varrone, scacciarono di propria iniziativa il presidio e chiusero le porte.

 

20. Questi avvenimenti inducono Varrone ad affrettarsi per raggiungere Cadice con le legioni il più presto possibile, per evitare che gli venga tagliata la strada sia per terra che per mare; tale e tanto grande era il favore manifestato dalla provincia nei confronti di Cesare. Egli aveva già percorso un breve tratto di strada, quando gli venne recapitata una lettera proveniente da Cadice, nella quale si diceva che, appena avevano saputo dell’editto di Cesare, i capi gaditani si erano trovati d’accordo con i tribuni delle coorti di presidio per cacciare Gallonio dalla piazzaforte e conservare per Cesare l’isola e la città. Presa questa decisione, avevano intimato a Gallonio di andarsene di sua volontà, finché poteva farlo senza rischi; se non avesse obbedito, avrebbero preso i loro provvedimenti. Gallonio, intimorito, aveva lasciato Cadice. A queste notizie, una delle due legioni di Varrone, quella detta indigena28, in sua presenza e proprio sotto i suoi occhi, prese le insegne, uscì dal campo e si portò ad Ispali, dove, senza far male a nessuno, si accampò nel foro e sotto i portici. L’associazione dei cittadini romani si mostrò così soddisfatta della loro azione che ciascuno era ben felice di offrire ospitalità ai soldati nella propria casa. Varrone, profondamente colpito da questi avvenimenti, avendo mandato ad annunciare che, cambiato itinerario, si sarebbe diretto ad Italica29, fu informato dai suoi che gli erano state chiuse le porte. Allora, senza più via di scampo, manda a dire a Cesare di essere pronto a consegnare la sua legione a chi egli avesse ordinato. Questi gli manda Sesto Cesare30 con l’ordine di consegnarla a lui. Fatto ciò, Varrone si reca da Cesare a Cordova; dopo avergli presentato un fedele rendiconto sulla situazione finanziaria della provincia, gli consegna il danaro che ha presso di sé e gli indica quanto frumento e quante navi sono in suo possesso e dove si trovino.

 

21. Cesare, pronunciando un discorso a Cordova, porge a tutti il suo ringraziamento: ai cittadini romani, perché avevano fatto di tutto per tenere sotto controllo la città, agli Spagnoli, perché avevano scacciato i presidi, ai Gaditani, perché avevano vanificato il tentativo degli avversari e avevano riconquistato la loro libertà, ai tribuni dei soldati e ai centurioni, che erano stati inviati nella città per presidiarla, perché avevano sostenuto le loro decisioni con il proprio coraggio. Libera i cittadini romani dall’impegno assunto con Varrone di versare delle somme per le pubbliche necessità; restituisce i loro beni a coloro che avevano subito la confisca per essersi espressi liberamente. Dopo aver fatto donazioni pubbliche e private ad alcuni, riempie gli altri di buone aspettative per il futuro e, fermatosi due giorni a Cordova, parte per Cadice31; ordina di riportare nel tempio di Ercole il tesoro e i doni votivi che erano stati trasportati in una casa privata. Egli stesso, sulle navi che Marco Varrone e i Gaditani, per ordine di Varrone, avevano costruito, giunge in pochi giorni a Tarragona32. Qui legazioni di quasi tutta la provincia citeriore aspettavano l’arrivo di Cesare. Dopo aver distribuito con gli stessi criteri onori pubblici e privati ad alcune città, lascia Tarragona e raggiunge via terra Narbona e di là Marsiglia33. Qui viene a sapere che era stata presentata una legge sulla dittatura e che lui stesso era stato nominato dittatore dal pretore Marco Lepido34.

 

22. I Marsigliesi, stremati da ogni sorta di avversità, esaurite ormai le scorte di frumento, battuti due volte sul mare, sbaragliati nelle diverse sortite, afflitti inoltre da una grave epidemia dovuta al lungo assedio e alla scadente qualità del vitto – si nutrivano infatti di miglio stantio e d’orzo andato a male, da tempo accumulato nei granai pubblici per eventi di questo genere – dopo la distruzione della torre e il crollo di gran parte delle mura, senza più la speranza di ricevere aiuti dalla provincia né dagli eserciti, che sapevano ormai nelle mani di Cesare, stabiliscono di arrendersi senza tramare inganni. Ma, pochi giorni prima, Lucio Domizio, sapute le intenzioni dei Marsigliesi, procuratesi tre navi, due delle quali aveva assegnato ai suoi seguaci, imbarcandosi lui stesso sulla terza, approfittando del tempo burrascoso, prese il largo. Le navi, che per ordine di Bruto montavano quotidianamente la guardia davanti al porto, avvistano le imbarcazioni e, levate le ancore, si danno ad inseguirle. Di queste solo una, quella di Domizio, accelera e continua nella fuga, scomparendo alla vista col favore della tempesta, le altre due, intimorite dall’accorrere delle nostre navi, si ritirano nel porto. I Marsigliesi portano fuori, secondo gli ordini, le armi e le macchine da guerra che avevano nella piazzaforte, fanno uscire dal porto e dai cantieri le navi e consegnano il danaro dell’erario. Fatto ciò, Cesare, risparmiata la città, non perché lo avesse meritato, ma in considerazione della sua fama e delle sue antiche origini, vi lascia due legioni a presidiarla, manda le altre in Italia e parte lui stesso per Roma35.

 

23. In quel periodo, Gaio Curione, che era partito dalla Sicilia per l’Africa, sottovalutando fin dall’inizio le forze di Publio Attio Varo, vi trasferiva solo due delle quattro legioni ricevute da Cesare, con cinquecento cavalieri e, dopo due giorni e tre notti di navigazione, approdava nella località chiamata Anquillaria36. Il luogo dista da Clupea37 ventidue miglia ed offre, durante la buona stagione, un comodo ancoraggio protetto da due elevati promontori. Al largo di Clupea, Lucio Cesare figlio, che attendeva con impazienza il suo arrivo con dieci navi da guerra, che erano state tirate in secca ad Utica dopo la guerra con i pirati38 e fatte riparare da Attio Varo per questo conflitto, impressionato dal numero delle imbarcazioni, si era diretto verso terra con una trireme pontata, era sbarcato sulla costa più vicina, aveva lasciato l’imbarcazione sulla spiaggia e si era rifugiato a piedi ad Adrumeto39. La piazzaforte era tenuta da Gaio Considio Longo40 col presidio di una sola legione. Dopo la sua fuga, anche le altre navi di Lucio Cesare ripararono ad Adrumeto. Il questore Marcio Rufo, con dodici navi che Curione aveva portato dalla Sicilia perché facessero da scorta alle navi da carico, si lanciò all’inseguimento, e quando vide la nave abbandonata sulla spiaggia la prese a rimorchio; poi raggiunse Gaio Curione con la sua flotta.

 

24. Curione manda avanti Marcio con le navi verso Utica, mentre lui muove con l’esercito nella stessa direzione e, dopo due giorni di marcia, giunge al fiume Bagrada41. Qui lascia il legato Gaio Caninio Retilo con le legioni, mentre lui stesso va in avanscoperta con la cavalleria per fare una ricognizione a Campo Cornelio42, una località ritenuta particolarmente adatta per accamparsi. Consiste infatti in un promontorio ripido che si spinge nel mare, aspro e scosceso sui due lati, ma con un pendio un po’ più dolce dalla parte prospiciente Utica. In linea retta dista da Utica poco più di un miglio, ma il cammino è interrotto da una sorgente nella quale il mare penetra piuttosto profondamente, formando un vasto acquitrino, per evitare il quale, ed arrivare alla città, bisogna compiere un giro di sei miglia43.

 

25. Nel corso della ricognizione, Curione vede l’accampamento di Varo addossato alle mura della piazzaforte, accanto alla porta detta Belica, eccezionalmente protetta dalla conformazione naturale del luogo, e le vie d’accesso al campo strette e rese poco praticabili, da un lato, dalla città stessa di Utica, dall’altro, dall’edificio del teatro, che si trova davanti alla città, le cui strutture di base sono vastissime. Si accorge nello stesso tempo che una moltitudine di convogli provenienti da ogni direzione ingombra le strade d’accesso, carichi di tutto ciò che dalla campagna si può ammassare in città nel timore di un improvviso sconvolgimento. Contro questi convogli manda la cavalleria per saccheggiarli e farne bottino; contemporaneamente, Varo manda fuori dalla città, in aiuto dei convogli, seicento cavalieri Numidi e quattrocento fanti, inviati di rinforzo ad Utica pochi giorni prima dal re Giuba, legato a Pompeo da vincoli di ospitalità contratti col padre, e ostile a Curione che, come tribuno della plebe, aveva proposto una legge con la quale si voleva annettere il regno di Giuba ai beni dello Stato romano44. I cavalieri si scontrano, ma i Numidi non riescono a sostenere nemmeno la prima carica dei nostri e, perduti circa centoventi uomini, i superstiti riparano nell’accampamento presso la città. Frattanto, all’arrivo delle navi da guerra, Curione ordina di proclamare a tutte le navi da carico, che in numero di circa duecento erano ancorate davanti a Utica, che egli avrebbe considerato nemici tutti coloro che non fossero immediatamente passati con le navi a Campo Cornelio. A questo bando, in un attimo, tutte le navi levano l’ancora, lasciano Utica e si portano dove era stato loro ordinato. Questo contribuì a rifornire l’esercito di approvvigionamenti di ogni genere.

 

26. Fatto ciò, Curione si ritira nel campo di Bagrada ed è acclamato col titolo di imperator45 da tutto l’esercito; il giorno dopo conduce le truppe ad Utica e si accampa nei pressi della città. Non erano ancora terminate le opere di fortificazione del campo, quando dei cavalieri, provenienti dal loro posto di guardia, annunciano che nutriti rinforzi di cavalleria e fanteria, mandati dal re Giuba, muovevano in direzione di Utica; nello stesso tempo si scorgeva una nube di polvere e, in un attimo, l’avanguardia era in vista. Curione, allarmato dall’avvenimento inatteso, distacca la cavalleria con il compito di sostenere il primo assalto e ritardare l’avanzata, mentre lui, richiamate in fretta dal lavoro le legioni, le schiera a battaglia. La cavalleria impegna il combattimento e, prima che le legioni abbiano il tempo di dispiegarsi e prendere posizione, tutte le truppe ausiliarie del re, impacciate e scompigliate, volgono in fuga, mentre la nostra cavalleria, quasi incolume, poiché ripiega subito verso la città passando lungo il litorale, fa strage della fanteria nemica.

 

27. La notte successiva46, due centurioni Marsi con ventidue uomini del loro manipolo disertano dal campo di Curione e passano ad Attio Varo. Questi, sia che gli riferissero una loro effettiva opinione, sia che intendessero lusingare Varo, – poiché siamo inclini a credere ciò che desideriamo e a sperare che gli altri abbiano le nostre stesse opinioni – gli assicurano che tutto l’esercito era ostile a Curione ed era assolutamente necessario che i due eserciti fossero messi a confronto, dando loro la possibilità di discutere. Seguendo questo consiglio, la mattina dopo Varo fa uscire le legioni dal campo. Curione attua la stessa manovra e tutti e due schierano le loro truppe, separate da una valle di modesta estensione47.

 

28. Nell’esercito di Varo si trovava quel Sesto Quintilio Varo che, come abbiamo detto, era stato a Corfinio. Lasciato libero da Cesare, si era recato in Africa, e le legioni che Curione aveva condotto con sé erano le stesse che allora, a Corfinio, si erano consegnate a Cesare, cosicché, a parte la sostituzione di alcuni centurioni, la formazione degli ordini e dei manipoli era rimasta identica. Approfittando di questa situazione per rivolgere loro un appello, Quintilio si mette a girare tra le linee dell’esercito di Curione e supplica i soldati di non dimenticare il primo giuramento di fedeltà reso a Domizio e a lui stesso come questore, di non volgere le armi contro i loro compagni di sventura, con i quali avevano condiviso le stesse sofferenze durante l’assedio, e di non combattere per coloro che, con disprezzo, li chiamavano disertori. Aggiunse a questo un accenno a una promessa di ricompensa che avrebbero dovuto aspettarsi dalla sua generosità, se avessero seguito lui e Attio. Dopo questo discorso, l’esercito di Curione non dette segno di approvazione o disapprovazione, e ciascuno ricondusse le proprie truppe negli accampamenti.

 

29. Ma nel campo di Curione una grande inquietudine serpeggiava nell’animo di tutti, rapidamente accresciuta dalle diverse voci che i soldati si scambiavano l’un l’altro. Ciascuno infatti si costruiva una propria opinione ed aggiungeva a ciò che aveva udito dall’altra parte le sue personali inquietudini. Quando una voce, proveniente da un’unica fonte, giungeva a più persone e passava di bocca in bocca, sembrava acquistare l’autorità dell’opinione comune. Era una guerra civile; erano uomini ai quali era lecito agire liberamente e prendere il partito che desideravano. Quelle legioni, che poco prima avevano militato nel campo avversario... del resto anche i benefici ottenuti da Cesare perdevano di valore, vista la frequenza con la quale venivano offerti. Anche se erano schierate in campi avversi, appartenevano agli stessi municipi (provenivano infatti dai Marsi e Peligni); come quelli che la notte precedente... nelle tende... e alcuni commilitoni maggiori pericoli... Questi i discorsi dei soldati48. Le notizie dubbie venivano interpretate come ancora più gravi; alcune venivano addirittura inventate da chi voleva mostrarsi più al corrente.

 

30. Per questi motivi, convocato il consiglio di guerra, Curione apre la discussione sulla situazione generale. Alcuni erano del parere che bisognasse tentare in ogni modo di dare l’assalto al campo di Varo. Dicevano che in fin dei conti era meglio tentare la sorte coraggiosamente in battaglia, piuttosto che, abbandonati e circondati dai propri soldati, andare incontro all’estremo supplizio. Altri consigliavano di ritirarsi alla terza vigilia49 nel Campo Cornelio, per dar modo ai soldati di recuperare col tempo la calma, e inoltre, se la situazione si fosse aggravata, avrebbero potuto servirsi della numerosa flotta per ritirarsi in Sicilia con maggiore tranquillità e sicurezza.

 

31. Curione, disapprovando l’uno e l’altro parere, diceva che l’uno mancava di coraggio tanto quanto l’altro ne aveva in eccesso; quelli proponevano la fuga più vergognosa, questi un combattimento su terreno sfavorevole. «Quale speranza», disse, «possiamo avere di espugnare un accampamento così saldamente protetto dalle opere di fortificazione e dalla conformazione naturale del luogo? E inoltre, quale vantaggio ricaviamo se, dopo aver subito gravi perdite, abbandoniamo l’assedio del campo? Come se non fosse il successo nelle imprese a far guadagnare ai generali la benevolenza dell’esercito e l’insuccesso a suscitarne l’odio! E cambiare campo che altro significato può avere se non quello di una fuga vergognosa, della fine di ogni speranza e dell’avversione dell’esercito? È infatti opportuno che i soldati più avveduti non sospettino di una mancanza di fiducia nei loro confronti e che i più furbi non capiscano di essere temuti, perché il nostro timore accrescerebbe l’insolenza di questi ultimi e il sospetto farebbe scemare la buona volontà dei primi. Ma anche se fossimo ormai sicuri», continua, «di quanto si dice a proposito dell’avversione che l’esercito nutre nei nostri confronti, una voce che io mi auguro del tutto infondata o sicuramente meno grave di quanto non si creda, non sarebbe meglio dissimularlo o nasconderlo, piuttosto che darne conferma noi stessi? Non è forse vero che i punti deboli di un esercito, come le ferite del corpo, vanno tenuti nascosti per non suscitare maggiori aspettative nel nemico? E si vuole anche che la partenza avvenga nel mezzo della notte, per dare un’opportunità in più, suppongo, a quanti hanno intenzione di disertare. Azioni di questo genere, infatti, sono tenute a freno dalla vergogna o dal timore, sentimenti che la notte inibisce completamente. Per ciò non sono né così temerario da decidere un assalto disperato al campo, né così vile da perdere ogni speranza, ma ritengo che bisogna prima cercare ogni altra soluzione e sono in gran parte convinto che presto arriveremo a una decisione unanime.»

 

32. Sciolta la seduta, Curione convoca l’adunanza dei soldati. Ricorda quale vantaggio Cesare avesse tratto davanti a Corfinio dal loro zelo, tanto che, grazie al loro favore e al loro esempio, gran parte dell’Italia era passata a lui. «Uno dopo l’altro», disse, «tutti i municipi hanno infatti seguito la vostra condotta, e non senza ragione Cesare vi ha giudicati con la massima benevolenza e i suoi avversari con la massima severità. Pompeo, infatti, senza essere stato vinto in battaglia, ha lasciato l’Italia spinto da ciò che la vostra azione gli faceva prevedere; Cesare ha affidato a me, che tiene tra i suoi amici più cari, e alla vostra lealtà, la provincia di Sicilia e l’Africa, senza le quali non si può difendere Roma e l’Italia. Ma c’è chi vi vorrebbe indurre alla diserzione. Quale maggior vantaggio per loro, infatti, che stringere noi in una morsa e coinvolgere nello stesso tempo voi in un infame delitto? O cosa possono desiderare di peggio per voi, nel loro odio, se non indurvi a tradire chi ritiene di esservi debitore, e farvi cadere nelle mani di chi vi ritiene responsabili della propria rovina? Non avete forse sentito delle imprese di Cesare in Spagna? Due eserciti sbaragliati, due generali sconfitti, due province sottomesse? E che queste imprese Cesare le ha compiute in quaranta giorni dal momento in cui si era trovato di fronte agli avversari50? Forse che chi non è riuscito a resistere con tutte le sue forze intatte, resisterà ora che ha subito una sconfitta? E voi, che avete seguito Cesare quando la vittoria era incerta, ora che le sorti della guerra son già decise, seguirete il vinto, quando dovreste ricevere il premio del vostro servizio? Dicono poi di essere stati da voi abbandonati e si appellano al primo vostro giuramento. Ma siete stati voi ad abbandonare Lucio Domizio, o Domizio ad abbandonare voi? Non vi ha forse completamente trascurato mentre voi eravate pronti ad affrontare l’estremo sacrificio? Non cercò forse di salvarsi con la fuga a vostra insaputa? Traditi da lui, non siete stati forse salvati dalla grazia di Cesare? Chi poi potrebbe reclamare la vostra fedeltà al giuramento, quando, gettati i fasci e deposto il comando, da privato cittadino e prigioniero egli stesso, fosse caduto nelle mani di un altro? Sarebbe uno strano scrupolo se, trascurando il giuramento al quale ora siete legati, rispettaste quello che è stato annullato dalla resa del generale e dalla sua perdita dei diritti civili. Ma, suppongo, visto che ritenete Cesare degno di approvazione, è me che disapprovate. Non vi parlerò dei miei meriti verso di voi, che sono per ora inferiori ai miei desideri e alle vostre aspettative; ma i soldati hanno sempre chiesto la ricompensa alle loro fatiche solo dopo l’esito della guerra, e quale questo possa essere neppure voi dubitate. Ma perché non dovrei parlare della mia diligenza e della buona sorte che ci ha finora accompagnati? Vi dispiace forse che io abbia condotto l’esercito in Africa sano e salvo, senza perdere nemmeno una nave? Che, nell’arrivare, io abbia sbaragliato la flotta nemica al primo assalto? Che per due volte in due giorni io abbia vinto in scontri di cavalleria? Che dal porto e dalla rada nemica io abbia portato via duecento navi da carico e abbia ridotto gli avversari al punto che non possono procurarsi rifornimenti né per terra, né per mare? E voi, ripudiando questi capi e questa fortuna, preferirete la vergogna di Corfinio, la fuga dall’Italia, la resa della Spagna, presagi tutti dell’esito della guerra d’Africa! Io ho voluto solo esser chiamato soldato di Cesare, e voi mi avete attribuito il titolo di imperator. Se ve ne siete pentiti, vi rendo il vostro dono, quanto a me, restituitemi il mio nome, perché non sembri che mi abbiate attribuito quell’onore per insultarmi.»

 

33. Commossi da questo discorso, i soldati lo interrompevano spesso, anche mentre parlava, tanto che il loro dispiacere nel sentirsi sospettati di infedeltà appariva evidente; mentre si allontanava infatti dall’assemblea tutti lo esortavano a farsi animo, a non esitare ad attaccar battaglia dovunque volesse e a sperimentare la loro fedeltà e il loro valore. Mutato con questo discorso la volontà e lo stato d’animo di tutti, con il generale consenso, Curione decide di tentare la sorte in battaglia non appena gliene venga offerta l’occasione e, il giorno dopo51, condotti i soldati nello stesso luogo in cui si era attestato nei giorni precedenti, li schiera a battaglia. Nemmeno Attio Varo esita a far uscire le sue truppe, per non perdere l’opportunità, sia di sobillare i soldati di Curione sia di combattere su terreno favorevole.

 

34. Tra i due schieramenti si apriva, come si è detto prima, una valle non tanto ampia, ma ripida e difficile da risalire. Sia gli uni che gli altri aspettavano che le truppe avversarie tentassero di attraversarla, per combattere da una posizione più vantaggiosa. Nello stesso tempo, dall’ala sinistra di Publio Attio si vedeva tutta la cavalleria, con molti soldati armati alla leggera tra le loro file, lanciarsi giù nella valle. Curione le manda incontro la sua cavalleria con due coorti di Marrucini; la cavalleria nemica non sostiene la loro prima carica, ma, a briglia sciolta, ripiega verso le sue linee; le truppe leggere che erano andate all’assalto insieme con la cavalleria, lasciate sole, vengono circondate e massacrate dai nostri. Tutto l’esercito di Varo, con lo sguardo fisso da questa parte, vedeva i propri compagni in fuga e massacrati. Allora Rebilo, il legato di Cesare, che Curione aveva condotto con sé dalla Sicilia, perché lo riteneva un grande esperto dell’arte militare, disse: «Vedi che il nemico è atterrito, Curione; che aspetti ad approfittare dell’occasione?». Egli, dopo aver rivolto ai soldati un solo appello: che tenessero a mente quanto gli avevano assicurato il giorno prima, ordina loro di seguirlo e si slancia davanti a tutti. La valle era così ripida che a stento i primi riuscivano a rimontarla senza l’aiuto dei compagni. Ma l’animo dei soldati di Attio era così preso dal terrore per la fuga e la strage dei loro, che non pensavano affatto ad opporre resistenza, e si vedevano già tutti circondati dalla cavalleria. E così, prima che si potesse scagliare un solo proiettile o che i nostri si facessero più vicini, tutto l’esercito di Varo volse le spalle e si rifugiò nell’accampamento.

 

35. Nella fuga generale, un Peligno di nome Fabio, uno dei centurioni di grado più basso dell’esercito di Curione, raggiunte le file più vicine dei fuggiaschi, si diede a cercare Varo chiamandolo per nome a gran voce, tanto che sembrava uno dei suoi soldati che volesse avvertirlo di qualcosa o parlargli. Quando Varo, sentendosi chiamare ripetutamente, lo vede, si ferma, e gli domanda chi fosse e cosa volesse, Fabio tenta di colpirlo di spada sulla spalla scoperta e poco mancò che non lo uccidesse, perché Varo riuscì a scansare il pericolo sollevando lo scudo a parare il colpo. Fabio, circondato dai soldati più vicini, viene ucciso. La folla disordinata dei fuggitivi ostruisce le porte del campo impedendo l’accesso, ne muoiono più lì, senza aver riportato ferite; di quanti non fossero caduti in battaglia o durante la fuga, e poco mancò che fossero cacciati anche dal campo, e parecchi, continuando a fuggire, senza fermarsi, si diressero verso la città. Ma se da una parte la posizione e le fortificazioni del campo impedivano sul momento l’accesso, i soldati di Curione, d’altra parte, usciti per uno scontro campale, mancavano dei mezzi necessari per prendere d’assalto l’accampamento. Quindi Curione riconduce l’esercito al campo, senza aver subito perdite, tranne Fabio, mentre gli avversari avevano perduto circa seicento uomini e ne erano stati feriti circa mille; tutti questi, come Curione si fu allontanato, insieme a molti altri che simulavano ferite, si rifugiarono per paura dall’accampamento nella città. Varo, accortosi di ciò e resosi conto del terrore di cui era preda l’esercito, lasciato al campo il trombettiere e poche tende per ingannare il nemico, in silenzio, alla terza vigilia, ritira l’esercito nella piazzaforte.

 

36. Il giorno dopo Curione inizia ad assediare Utica e a far costruire un vallo. Vi era nella città una plebe che, per aver goduto un lungo periodo di pace, era poco incline alla guerra; gli Uticensi, per alcuni benefici ricevuti da Cesare, gli erano molto favorevoli; l’associazione dei cittadini romani era di varia estrazione e l’esito delle precedenti battaglie aveva causato la più grande apprensione. Quindi, già tutti parlavano apertamente di resa e trattavano con Publio Attio, perché non mettesse in pericolo la sorte di tutti con la sua ostinazione. Mentre si svolgevano queste trattative, giunsero ambasciatori inviati dal re Giuba per annunciare che egli era in arrivo con grandi forze, ed esortarli a sorvegliare e difendere la città. La notizia rinfrancò i loro animi atterriti.

 

37. Le stesse notizie arrivarono a Curione, ma per un certo periodo non riuscì a prestarvi fede, tanto era fiducioso della propria posizione. Già i successi di Cesare in Spagna venivano divulgati in Africa tramite lettere e messaggeri. Esaltato da tutte queste notizie, riteneva che il re non avrebbe tentato nulla contro di lui. Ma appena seppe da fonti sicure che le sue truppe distavano da Utica meno di venticinque miglia, abbandonate le opere d’assedio, si ritirò a Campo Cornelio. Qui si diede a far provvista di frumento, a fortificare il campo, a far trasportare legname da costruzione; mandò immediatamente ordini in Sicilia, perché gli inviassero le altre due legioni e il resto della cavalleria. Il campo era adattissimo per una guerra prolungata per conformazione naturale e fortificazioni, per la vicinanza del mare e l’abbondanza di acqua e di sale, di cui era già stata lì accumulata una gran quantità, proveniente dalle vicine saline. Non poteva mancare né legname, data la grande abbondanza di alberi, né frumento, di cui erano coperti i campi. Quindi, con il pieno consenso dei suoi, Curione si preparava ad aspettare il resto delle truppe e a tirare in lungo la guerra.

 

38. Si erano presi questi provvedimenti e il piano era stato approvato, quando viene a sapere da alcuni disertori della città che Giuba, richiamato da una guerra con un popolo confinante e da una controversia con i Leptitani52, era rimasto nel suo regno e che solo un suo prefetto, Saburra53, si stava avvicinando ad Utica con modeste forze. Fidandosi con troppa leggerezza di queste fonti, Curione cambia i piani e decide di rischiare la sorte in battaglia. La sua giovinezza, la sua magnanimità, i precedenti successi, la fiducia nel buon esito dell’impresa giocano un ruolo determinante nel fargli prendere questa decisione. Spinto da questi motivi, all’inizio della notte54 manda tutta la cavalleria verso il campo nemico nei pressi del fiume Bagrada. Quelle truppe erano sì guidate da quel Saburra di cui parlavano le informazioni, ma erano seguite dal re con tutto l’esercito, che si era fermato a sei miglia55 da Saburra. La cavalleria distaccata da Curione copre il percorso durante la notte e assale di sorpresa il nemico. I Numidi, inoltre, secondo l’uso barbarico, erano accampati qua e là in ordine sparso. Li assalgono dunque nel sonno e dispersi, facendone strage; molti, atterriti, si danno alla fuga. Compiuta questa missione, la cavalleria fa ritorno da Curione portando dei prigionieri.

 

39. Curione era uscito con tutte le truppe alla quarta vigilia56, dopo aver lasciato cinque coorti a presidiare l’accampamento. Dopo sei miglia di marcia incontra la cavalleria e apprende quanto era stato fatto; chiede ai prigionieri chi ha il comando del campo presso il Bagrada; gli rispondono che il comandante è Saburra. Nella fretta di proseguire la marcia, non fa altre domande e, rivolto ai manipoli più vicini: «Non vedete», dice, «soldati, come le parole dei prigionieri concordano con quelle dei disertori? Il re è lontano, le truppe da lui inviate sono poche, tanto che non hanno potuto resistere a un drappello di cavalleria. Affrettatevi quindi alla preda e alla gloria, perché possiamo ormai cominciare a pensare alla vostra ricompensa e al modo di dimostrarvi la nostra gratitudine». L’impresa compiuta dalla cavalleria era stata certo notevole, specialmente se si confronta il loro esiguo numero con l’enorme massa dei Numidi, ma pure veniva gonfiata nei loro racconti, perché gli uomini amano esaltare i propri meriti. Si esibiva l’abbondante bottino, si mostravano i fanti e i cavalieri fatti prigionieri, al punto che ogni più piccolo intervallo di tempo sembrava ritardare la vittoria. Alle aspettative di Curione corrispondeva l’ardore dei soldati. Ordina alla cavalleria di seguirlo e accelera la marcia per poter assalire il nemico ancora in piena fuga ed atterrito. Ma i cavalieri, sfiniti da un’intera notte di marcia, non potevano tenergli dietro e si fermavano chi in un luogo chi in un altro. Ma nemmeno questo rallentava lo slancio di Curione.

 

40. Giuba, informato da Saburra dello scontro avvenuto durante la notte, gli manda di rinforzo duemila cavalieri spagnoli e galli, di cui era solito circondarsi come guardia del corpo, e quei reparti di fanteria in cui riponeva maggiore fiducia; lui stesso, con il resto delle truppe e sessanta elefanti, avanza più lentamente. Sospettando che, dopo aver mandato avanti la cavalleria, Curione sarebbe arrivato di persona, egli forma lo schieramento con fanti e cavalieri e ordina che, simulando timore, cedano poco alla volta, ritirandosi; al momento opportuno, egli avrebbe dato il segnale di battaglia e impartito gli ordini secondo quanto, a suo giudizio, la situazione richiedeva. Curione, sommando alle sue precedenti aspettative l’impressione che ricavava dall’evento presente, crede che il nemico sia in fuga e fa calare le sue truppe dalle alture al piano.

 

41. Dopo essersi allontanato dalle alture per un buon tratto, poiché le truppe erano ormai sfinite per una marcia di sedici miglia, si ferma. Saburra dà ai suoi il segnale, forma lo schieramento e comincia a percorrere le linee esortando i soldati. Ma fa un uso solo secondario della fanteria, lanciando nel combattimento soltanto la cavalleria. Curione non viene meno al suo compito ed esorta i suoi a riporre ogni speranza nel proprio valore. Nemmeno ai soldati, sebbene spossati, né ai cavalieri, per quanto pochi e stremati dalla fatica, mancavano volontà di combattere e coraggio; ma i cavalieri erano solo duecento: gli altri erano rimasti lungo il cammino. Dovunque essi attaccassero, costringevano il nemico alla ritirata, ma non potevano portare a fondo l’inseguimento dei fuggitivi, né lanciare i cavalli con sufficiente impeto. La cavalleria nemica, invece, cominciava a circondare il nostro schieramento sui due fianchi e a schiacciare i nostri, presi alle spalle. Quando le coorti muovevano all’attacco, staccandosi dallo schieramento, i Numidi, freschi di forze, evitavano lo scontro arretrando rapidamente, per poi circondarli e tagliarli fuori dalle linee, mentre tornavano nelle loro file. Appariva quindi rischioso, tanto mantenere la posizione serrando le file, quanto andare all’attacco tentando la sorte. Le truppe nemiche andavano continuamente ingrossandosi per i rinforzi inviati dal re; per la stanchezza, ai nostri mancavano le forze, e inoltre i feriti non potevano né portarsi fuori dalle linee né essere trasportati al riparo, perché tutto lo schieramento era circondato e bloccato dalla cavalleria nemica. Essi, perduta ogni speranza di salvezza, come sogliono fare gli uomini negli ultimi istanti della loro vita, o commiseravano la propria morte o raccomandavano i propri genitori a quanti la sorte avesse concesso di scampare a quel pericolo. Non vi era tutt’intorno che terrore e pianto.

 

42. Quando Curione comprese che, nel generale terrore, le sue esortazioni e le sue preghiere non venivano nemmeno udite, ritenendo che, pur in una situazione così disastrosa, non rimanesse che una sola speranza di salvezza, ordina a tutti di occupare i colli più vicini e fa rivolgere in quella direzione le insegne. Ma anche in questa manovra vengono preceduti dalla cavalleria inviata da Saburra. Allora i nostri toccano il fondo della disperazione: parte di loro, in fuga, viene massacrata dalla cavalleria, parte cade per lo sfinimento. Gneo Domizio57, prefetto della cavalleria, esorta Curione, facendogli scudo con pochi cavalieri, a trovare scampo nella fuga e a raggiungere il campo, promettendo di non abbandonarlo. Ma Curione giura che giammai, dopo aver perduto l’esercito che era stato affidato da Cesare alla sua lealtà, ritornerà al suo cospetto, e cade combattendo. Pochissimi cavalieri riescono a mettersi in salvo dalla battaglia; ma quelli che, come si è detto, si erano fermati nelle retrovie per far riposare i cavalli, vedendo da lontano l’intero esercito in fuga, si ritirano incolumi nell’accampamento. La fanteria viene annientata fino all’ultimo uomo.

 

43. Alla notizia di questi avvenimenti, il questore Marcio Rufo, lasciato da Curione al campo, esorta i suoi a non perdersi d’animo. Ma questi lo pregano e lo scongiurano di riportarli con la flotta in Sicilia. Egli lo promette e ordina ai capitani delle navi di tenere tutte le scialuppe accostate al lido fin dalle prime ore della sera. Ma erano tutti talmente in preda al terrore che alcuni dicevano che le truppe di Giuba erano in arrivo, altri che Varo stava sopraggiungendo con le legioni e già si vedeva la polvere sollevata dal suo avvicinarsi, cosa che non accadeva affatto, altri ancora immaginavano che la flotta nemica stesse per piombare su di loro. Nel generale terrore, ciascuno pensava per sé. Gli equipaggi della flotta si affrettavano a partire. La loro fuga spingeva i capitani delle navi da carico a imitarli; solo poche piccole imbarcazioni si disponevano a compiere il proprio dovere obbedendo agli ordini. Ma sulla spiaggia affollata era tale la lotta a chi, fra tanti, riuscisse per primo ad imbarcarsi, che alcune scialuppe affondavano sotto il carico eccessivo; le altre imbarcazioni non si decidevano ad accostare per paura di fare la stessa fine.

 

44. Accadde quindi che solo pochi soldati o capifamiglia, che godevano di favori o suscitavano pietà o avevano potuto raggiungere le navi a nuoto, furono raccolti e raggiunsero in salvo la Sicilia. Il resto delle truppe, mandata durante la notte a Varo un’ambasceria di centurioni, gli si consegnò. Il giorno dopo, Giuba, viste le coorti di questi soldati davanti alla città, sostenendo che erano sua preda di guerra, ordinò di ucciderne gran parte e mandò nel suo regno pochi elementi scelti, mentre Varo, pur lamentando che venivano così violati gli impegni da lui assunti, non osava opporsi. Giuba entrò in città a cavallo, con parecchi senatori al seguito, tra i quali Servio Sulpicio e Licinio Damasippo58; in pochi giorni, diede disposizioni e ordini ad Utica a suo arbitrio. E ugualmente dopo pochi giorni si ritirò nel suo regno con tutto l’esercito.

 

Questo ebook appartiene a Roberto Giuliattini - 5689 Edito da Newton Compton Editori Acquistato il 18/01/2014 10.55.24 con numero d'ordine 646080
Storici Latini
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