Libro dodicesimo
1. Dopo l’uccisione di Messalina, tra i famigliari dell’imperatore vi fu grande fermento per la gara tra i liberti su chi avrebbe scelto la nuova sposa di Claudio. Questi infatti non amava vivere da celibe, anzi, gli piaceva sottostare all’autorità di una moglie. Non meno accesa la competizione delle donne: ciascuna vantava la propria nobiltà, la bellezza, la ricchezza e si dichiarava degna di nozze così altolocate. Rivaleggiavano soprattutto Lollia Paolina, figlia del consolare M. Lollio, e Giulia Agrippina, figlia di Germanico1; questa era appoggiata da Pallante, l’altra da Callisto, mentre Narciso era fautore di Elia Petina, della famigerata famiglia dei Tuberoni. Claudio propendeva ora per l’una ora per l’altra, a seconda dei suggerimenti dei consiglieri, poi li convocava e li costringeva a esprimere le rispettive opinioni e addurre ciascuno le ragioni di esse.
2. Narciso sosteneva che tornare alle prime nozze, dalle quali era nata una figlia (Antonia infatti era figlia di Petina) non avrebbe introdotto novità nella famiglia; una sposa già conosciuta non avrebbe nutrito avversione da matrigna verso Ottavia e Britannico, anzi, li avrebbe considerati quasi figli suoi; Callisto invece la riteneva screditata dal divorzio prolungato e temeva che sarebbe montata in superbia per esser stata ripresa. Di gran lunga più opportuno scegliere Lollia: questa non aveva mai avuto figli, sarebbe stata immune da gelosia e verso i figliastri si sarebbe comportata da madre.
Pallante in Agrippina metteva in rilievo soprattutto il fatto che avrebbe portato con sé il figlioletto, nipote di Germanico, e come tale degno di appartenere alla famiglia imperiale: questo nobile giovinetto avrebbe unito la famiglia Giulia, dalla quale discendeva, agli eredi della famiglia Claudia; così si sarebbe evitato che una donna, notoriamente feconda, nel fiore della giovinezza, introducesse la gloria dei Cesari in un’altra casata.
3. Questi argomenti, avvalorati dalle grazie di Agrippina, prevalsero. Ella si recava spesso a visitare lo zio, con la scusa della parentela, e tanto lo avvinse che, preferita alle altre, esercitava l’autorità di moglie, pur non essendolo ancora. Non appena fu sicura delle sue nozze, concepì disegni ambiziosi; progettò di unire il figlio che aveva avuto da Cn. Enobarbo, Domizio, con Ottavia, cosa che non avrebbe potuto attuare senza commettere una scorrettezza grave, poiché Claudio aveva promesso Ottavia a Silano, incoraggiando le simpatie del popolo verso di lui, già celebre, del resto, per altre ragioni: le insegne trionfali e splendidi spettacoli di gladiatori. Ma non c’è cosa che appaia difficile a un principe, nel quale simpatie o avversioni sono o suggerite o imposte.
4. Vitellio adunque, che sotto il titolo di censore albergava un’anima di servo e prevedeva quali sarebbero stati i potenti di domani, per ingraziarsi Agrippina e introdursi nei suoi progetti, incominciò con l’attribuire gravi colpe a Silano, la cui sorella, bella e procace, non molto tempo innanzi era divenuta sua nuora. Da qui mosse l’accusa, presentando come non addirittura incestuoso ma eccessivo l’affetto che regnava tra fratello e sorella. L’imperatore gli prestava ascolto, incline, per affetto verso la figlia, ad accogliere sospetti sul conto del futuro genero. Ma Silano, ignaro dell’insidia, quell’anno rivestiva la carica di pretore; improvvisamente fu espulso dall’ordine senatorio a seguito d’un editto di Vitellio, benché la lista fosse stata da tempo confermata e questi avesse raggiunto il lustro2. Contemporaneamente Claudio rinnegò la promessa di matrimonio. Silano fu costretto ad abbandonare la carica e l’ultimo giorno di pretura che restava fu conferito a Eprio Marcello.
5. (49 d.C.) Sotto il consolato di C. Pompeo e Q. Veranio, le voci che correvano e gli amori illeciti di Claudio e Agrippina confermavano l’imminenza delle nozze. Tuttavia essi non osavano ancora celebrarle solennemente poiché non esistevano precedenti d’uno zio che prendesse in moglie la figlia del fratello; e si temeva, se non si fosse tenuto conto dell’incesto, che avrebbe potuto derivarne una sciagura pubblica. L’esitazione non cessò fino a che Vitellio non si assunse il compito di condurre in porto la cosa con le sue manovre. Domandò all’imperatore se avrebbe ottemperato alla volontà del popolo e all’autorità del Senato; questi gli rispose che non era che un cittadino come gli altri e non certo in grado di opporsi al volere generale; egli allora gli ordinò di aspettarlo a palazzo. Indi, si recò alla Curia e dichiarò che si trattava dell’interesse supremo dello Stato, si scusò se parlava prima degli altri; e incominciò col dire che un principe sul quale pesavano compiti oltremodo gravosi riguardanti il mondo intero ha bisogno d’un appoggio, per potersi dedicare agli interessi comuni, immune da cure domestiche. Secondo l’animo d’un censore non esiste ristoro più onesto che avere al fianco una consorte, compagna nella buona e nella cattiva sorte, alla quale confidare i più intimi pensieri, affidare i piccoli figli, specie per un uomo come Claudio che fin dalla prima giovinezza era stato alieno dalla lussuria e dai piaceri e ligio alle leggi.
6. Come ebbe pronunciato questa orazione a favore dell’imperatore, i Padri manifestarono il più vivo consenso e Vitellio riprese a parlare. Se tutti, disse, consigliavano l’imperatore a contrarre nuove nozze era opportuno che si scegliesse una donna insigne per la nobiltà della nascita, la fecondità e la castità. E non servivano prolungate indagini per appurare che Agrippina era superiore a tutte per la nobiltà della stirpe, che aveva dato prova di fecondità e possedeva alte qualità morali. Ed era effettivamente singolare che, per provvido disegno degli dèi, essendo vedova potesse unirsi a un principe che non aveva conosciuto altre donne che le proprie mogli. I senatori senza dubbio avevano appreso dai rispettivi genitori, o lo avevano visto essi stessi, spose altrui rapite per il piacere dei Cesari: ben lungi dalla morigeratezza del principe simili azioni! E dunque si sarebbe dato un esempio di come un imperatore dovesse prender moglie. Effettivamente, matrimoni con le figlie dei fratelli da noi non se n’erano visti mai; ma presso altri popoli avvenivano di frequente e nessuna legge li vietava. Anche le nozze tra cugini erano state ignote per lungo tempo, ma col passare degli anni erano divenute frequenti. I costumi si adeguano ai tempi e in futuro anche questo sarebbe stato praticato usualmente.
7. Non mancarono senatori che, uscendo dalla Curia, dichiararono che se l’imperatore avesse esitato lo avrebbero costretto con la forza; e intanto si adunò una folla promiscua, che gridava che il popolo romano esponeva la stessa preghiera. Claudio non perdette altro tempo; scese nel Foro a incontrare quelli che si congratulavano con lui. Poi entrò in Senato e chiese che fosse emanato un decreto in base al quale in futuro fossero ritenute legittime le nozze tra lo zio e la figlia del fratello. Si trovò peraltro uno solo, il cavaliere romano Alledio Severo che, secondo i più per ingraziarsi Agrippina, aveva sollecitato lo stesso tipo di matrimonio.
Da quel momento, nella città tutto fu sovvertito, tutto si faceva conforme ai voleri di una donna, non tuttavia per ludibrio degli interessi di Roma, come faceva Messalina, anzi, quella di Agrippina era una disciplina di ferro, quasi virile; in pubblico, austerità e più spesso alterigia, in privato non la minima impudicizia, se non quel tanto che le serviva a dominare; un’avidità smodata d’oro, con il pretesto di assicurare riserve all’impero.
8. Il giorno delle nozze, Silano si tolse la vita, sia che fino a quel momento avesse sperato di salvarsi, sia che avesse scelto quella data per attizzare maggiormente odio. Sua sorella Calvina fu espulsa dall’Italia. Claudio inoltre volle che i pontefici celebrassero cerimonie di espiazione presso il bosco di Diana, secondo le leggi del re Servio Tullio, cosa che suscitò una generale irrisione, perché si compivano riti espiatori d’un incesto proprio in quel momento. Agrippina intanto, onde non farsi conoscere soltanto per le cattive azioni, ottenne che Anneo Seneca fosse richiamato dall’esilio6 e gli fosse conferita la pretura, nella certezza che la cosa sarebbe stata gradita al pubblico per la notorietà dei suoi studi e inoltre Domizio nella fanciullezza avrebbe avuto un tale maestro; entrambi poi avrebbero profittato dei suoi consigli nella speranza di conquistare il potere. Seneca lo si riteneva fedele ad Agrippina in memoria del beneficio ricevuto e ostile a Claudio per il risentimento della condanna subita.
9. Di conseguenza non si volle più perder tempo e con grandi promesse si indusse il console designato, Mummio Pollione, a esporre una proposta, e cioè la preghiera a Claudio di promettere Ottavia a Domizio; la cosa non era incompatibile con l’età di entrambi e foriera d’un prospero futuro. Pollione parlò in termini non dissimili da quelli recentemente usati da Vitellio. Così Ottavia fu promessa a Domizio, il quale, oltre alla parentela con l’imperatore che possedeva già, ormai come promesso sposo della figlia e futuro genero, si trovò sullo stesso livello di Britannico, grazie all’astuzia della madre e alle trame di coloro che, avendo accusato Messalina, temevano la vendetta del figlio.
10. In quel periodo arrivarono legati dei Parti a chiedere, come ho già detto, che fosse loro consegnato Meerdate. Introdotti in Senato, così iniziarono l’esposizione del loro mandato: non erano venuti disconoscendo l’alleanza né come traditori degli Arsacidi, ma per reclamare il figlio di Vonone, nipote di Fraate, contro la tirannide di Gotarze, intollerabile del pari ai nobili e al popolo: ormai erano stati sterminati i fratelli, i consanguinei, persino i più lontani parenti. Ora se la prendeva con le spose gravide, con i piccoli figli, per mascherare la sua vigliaccheria con la ferocia, poiché era inetto in pace, deleterio in guerra. Tra i Parti e i Romani esisteva da tempo un patto d’alleanza, pubblicamente concluso; ora toccava a loro venire in aiuto di alleati che, pari di forza, si inchinavano a noi per rispetto. Per questa ragione, essi erano disposti a consegnare come ostaggi i figli dei loro sovrani, affinché, qualora fossero insoddisfatti del proprio governo, potessero ricorrere all’imperatore e ai senatori per mettere sul trono un re migliore, educato ai costumi romani.
11. Dopo che ebbero esposto questa e altre ragioni, l’imperatore prese a dissertare sulla somma potenza di Roma, sulla reverenza dei Parti, ponendo se stesso sullo stesso livello del divo Augusto e citando il fatto che a lui pure era stato chiesto un re; ma omise di rammentare Tiberio, che ne aveva inviato uno anche lui. Dato che Meerdate era presente, proseguì proferendo moniti di buon governo; gli disse che non doveva ritenere la sovranità come il dominio d’un despota su schiavi, ma d’un capo di governo su cittadini, e di esercitare clemenza e giustizia, tanto più gradite ai barbari quanto più insolite tra loro. Poi, volgendosi ai legati, pronunciò alti elogi di quel figlio adottivo dell’Urbe, che fino a quel momento aveva dato prova di modestia esemplare; ad onta del fatto, aggiunse, che il carattere d’un re bisogna sopportarlo e non è bene cambiarlo di frequente. Lo Stato romano era asceso ormai a tali vette di gloria da desiderare la pace anche negli altri paesi. Indi affidò a C. Cassio, governatore della Siria, rincarico di accompagnare il giovane fino alle rive dell’Eufrate.
12. In quell’epoca Cassio era al di sopra di tutti per la conoscenza del diritto; in tempo di pace, infatti, non si conoscono le arti della guerra e la pace mette sullo stesso piano uomini d’azione ed inetti. Tuttavia, per quanto gli era possibile in tempo di pace, Cassio faceva del suo meglio per ripristinare la disciplina antica; teneva le legioni in esercizio, si comportava con vigile previdenza, come se fosse imminente un attacco nemico, convinto che ciò fosse degno dei suoi avi e della famiglia Cassia, famosa anche presso quei popoli. Di conseguenza, fece venire quelli che erano stati del parere di richiamare il re, indi pose il campo presso Zeugma, nel punto dove l’attraversamento del fiume è più agevole. Al sopraggiungere delle autorità partiche e del re arabo, Acbaro avvertì Meerdate che per il suo ritardo l’entusiasmo dei barbari si andava spegnendo, anzi si tramutava in ostilità, sì che era urgente condurre a termine l’impresa. Ma non servì a nulla per l’inganno di Acbaro, il quale trattenne il giovane parecchi giorni nella città di Edessa; inesperto com’era, egli riteneva che il piacere rappresentasse il culmine della fortuna. E mentre Carene lo sollecitava e gli faceva capire che tutto era pronto purché si affrettasse, il giovane non si recò direttamente in Mesopotamia, ma ripiegò verso l’Armenia, che in quel momento era impraticabile poiché si era all’inizio dell’inverno.
13. Finalmente, esausti per la neve e il percorso tra i monti, mentre si avvicinavano alla pianura si unirono agli eserciti di Carene, e, attraversato il Tigri, giunsero nella terra degli Adiabeni. Il loro re Izate aveva stretto pubblicamente amicizia con Meerdate, ma in cuor suo segretamente sosteneva Gotarze. Durante il cammino fu occupata la città di Ninive, antichissima residenza degli Assiri, fortezza celebre perché nell’ultima battaglia tra Dario e Alessandro qui era stata annientata la potenza persiana. Gotarze intanto presso il monte Sambulo scioglieva voti alle divinità locali; qui è particolarmente venerato Eracle, il quale in momenti determinati ammonisce nel sonno i sacerdoti di tenere davanti al tempio i cavalli bardati per la caccia. E i cavalli, quando sentono il carico delle faretre piene di dardi, vagano tutta la notte nelle foreste e poi rientrano ansanti, con le faretre vuote. Il dio allora nel sonno indica in quali selve s’è aggirato e dove si trovano sparse le belve abbattute.
14. Gotarze intanto, dato che il suo esercito non era ancora forte a sufficienza, si riparava dietro il fiume Corma e, benché sfidato a combattere da provocazioni e messaggi, escogitava indugi, si spostava continuamente e sguinzagliava uomini incaricati di indurre i nemici a tradire. Uno di questi, l’Adiabeno Izate, e di lì a poco l’arabo Acbaro, si allontanano con i rispettivi eserciti, con l’incostanza tipica di quei popoli e anche perché, come sappiamo per esperienza, ai barbari piace chiedere sovrani a Roma, ma non averli. Sicché Meerdate, rimasto privo di validi alleati, sospettando che l’avrebbero tradito anche gli altri, si appigliò all’unico partito che gli restava, sfidare la sorte e tentare lo scontro armato. Gotarze, sicuro del fatto suo perché le forze del nemico erano scemate, non rifiutò la battaglia, che ebbe luogo, con grande massacro ed esito incerto; Carebe sbaragliò quelli che aveva di fronte, ma fu trascinato lontano e accerchiato alle spalle da uno stuolo ancora intatto. Meerdate allora, cadute tutte le sue speranze, si affidò alle promesse di Parrace, un cliente di suo padre; ma questi con l’inganno lo mise in catene e lo consegnò al vincitore. Questi lo coprì d’ingiurie, chiamandolo non suo parente e arsacide, ma straniero e romano. Gli fece mozzare le orecchie e lo lasciò in vita, per dar prova della sua clemenza e della nostra vergogna. In seguito Gotarze morì di malattia e sul trono fu messo Vonone, che in quel momento era governatore dei Medi. Questi non ebbe né grandi fortune né avversità tali che metta conto di rammentarle; esercitò un governo breve e senza gloria; dopo di lui il regno dei Parti fu trasmesso al figlio Vologese.
15. Mitridate, re del Bosforo, aveva perduto il trono e vagava ramingo; come seppe che il generale romano Didio e il nerbo dell’esercito se n’erano andati e avevano lasciato nel nuovo regno Coti, un giovane inetto, e poche coorti al comando d’un cavaliere romano, Giulio Aquila, disprezzando sia quelle che questo, si dette a sollevare le popolazioni e ad attirare disertori; infine, raccolse un esercito, espulse il re dei Dandaridi e s’impadronì del regno. Quando questi avvenimenti furono noti, e si riteneva che Mitridate si accingesse a invadere il Bosforo, Aquila e Coti, poco sicuri delle proprie forze, poiché il re dei Siraci, Zorsine, aveva ripreso le ostilità, cercarono anch’essi aiuti stranieri e inviarono legati ad Eunone, capo del popolo degli Aorsi. Stringere alleanza non fu difficile, poiché essi vantavano la potenza di Roma contro il ribelle Mitridate e si accordarono che Eunone si sarebbe battuto con la cavalleria e i Romani avrebbero cinto d’assedio la città.
16. Avanzarono in formazione di battaglia, gli Aorsi in prima linea e alla retroguardia, mentre al centro marciavano le coorti e i Bosforani, muniti di armi romane. Il nemico fu respinto e si giunse a Soza, città fortificata dei Dandaridi. Mitridate l’aveva abbandonata per l’atteggiamento infido degli abitanti e i nostri ritennero opportuno lasciarvi un presidio. Indi si diressero contro i Siraci e, attraversato il fiume Panda, accerchiarono la città di Uspe, situata in alto e difesa da mura e da fossati; ma quelle mura non erano di pietra, bensì di vimini e fascine, e terra nel mezzo, e quindi non resistevano agli assalti. Le nostre torri, dalle quali scagliando dardi e torce si investivano gli assediati, si levavano più alte delle mura. E se non avessimo dovuto interrompere per il sopraggiungere della notte, in un solo giorno avremmo assalito ed espugnato la città.
17. Il giorno successivo i cittadini inviarono legati a implorare grazia per gli uomini liberi, offrendo diecimila schiavi. I vincitori rifiutarono, poiché sarebbe stata una crudeltà trucidare gente che s’era arresa e difficile custodire una moltitudine siffatta. Piuttosto, secondo il diritto di guerra, era meglio ucciderli. Ai soldati, che erano scesi dalle scale, fu dato l’ordine della strage. Il massacro degli abitanti di Uspe diffuse il terrore negli altri, convinti che non ci fosse salvezza, poiché uomini armati, fortificazioni, luoghi inaccessibili o elevati, fiumi e città, tutto veniva espugnato allo stesso modo. Zorsine allora rifletté a lungo se era meglio curare gli interessi di Mitridate, ormai a mal partito, o conservare il regno avito. Prevalse l’utilità della sua stirpe, sicché consegnò ostaggi, si prosternò davanti all’immagine dell’imperatore, con immensa soddisfazione dell’esercito romano, che si trovò a tre giorni di marcia dal fiume Tanai4, senza spargimento di sangue e vittorioso. Ma al ritorno la sorte fu diversa, poiché i barbari accerchiarono alcune delle navi – dato che ritornavano per mare – che erano state portate sulle rive della Tauride e fu ucciso il Prefetto della coorte con la maggior parte degli ausiliari.
18. Mitridate intanto, dato che non poteva più contare sull’aiuto delle armi, rifletté a chi era opportuno chiedere misericordia. Del fratello Coti, che già un tempo l’aveva tradito e poi gli era nemico, aveva paura; nei Romani non c’era nessuno di tanta autorità da potersi fidare delle sue promesse; si rivolse dunque ad Eunone, il quale personalmente non gli era ostile e gli appariva valido per l’alleanza recentemente conclusa con noi. Di conseguenza, adeguandosi alla situazione, nelle vesti, nel volto, entra nella reggia e abbracciandogli le ginocchia: «Mitridate» esclama «inseguito dai Romani per tanti anni in terra e in mare, ora spontaneamente viene a te; fa quello che vuoi del discendente del grande Achemene, il solo pregio che i nemici non m’abbiano portato via».
19. Eunone fu commosso dal nome illustre dell’uomo, dal rovescio di fortuna in cui si trovava, dalla preghiera non vile; sollevò il supplice e lo lodò per aver scelto nello stendere la mano supplichevole la gente degli Aorsi. E subito invia legati e una lettera a Cesare così concepita: l’amicizia tra gli imperatori romani e i sovrani di grandi nazioni ebbe origine dalla parità della situazione: tra Claudio e lui, anche dalla vittoria comune. Egregia la fine delle guerre, quando si concludono con il perdono. Così a Zorsine sconfitto nulla fu tolto; Mitridate, anche se meritava un trattamento più duro, non implorava potenza né regno ma soltanto di non esser portato nel corteo del trionfo né punito con il supplizio.
20. Ma Claudio, benché mite verso i nobili stranieri, tuttavia era incerto se accogliere il prigioniero con il patto di salvargli la vita o se fosse più giusto pretenderne la consegna con le armi. Da una parte era mosso dal risentimento per le offese e il piacere della vendetta; ma lo dissuadeva il pensiero di dover intraprendere una guerra su un territorio impervio, su un mare privo di porti; e oltre a ciò sovrani feroci, popolazioni erranti, un territorio povero di messi, stanchezza per il lento procedere, ma pericolo nell’affrettarsi, scarsa gloria nel caso di vittoria, molto disdoro se fossero respinti. Quindi era meglio accettare l’offerta e conservare in vita l’esule, poiché, dato che era caduto in miseria, più a lungo fosse vissuto, maggiore sarebbe stata la pena. Convinto da queste ragioni, scrisse ad Eunone che Mitridate meritava l’estremo supplizio né a lui mancava la forza per l’esecuzione; ma, conforme all’esempio degli avi, quanto più ci si doveva mostrare inflessibili con i nemici, tanto più clementi verso i supplici; poiché i trionfi si conquistano su popoli e regni in piena forza.
21. Dopo di che Mitridate fu consegnato e portato a Roma da Giunio Cilone, procuratore del Ponto; la gente diceva che s’era rivolto all’imperatore con più fierezza di quanto comportasse la sua situazione e si diffuse una sua frase di questo tenore: «Non sono stato rimandato a te, sono tornato; se non mi credi, lasciami andare e cercami». Rimase impassibile anche quando fu esposto al popolo dai rostri, circondato dalle guardie. A Cilone furono consegnate le insegne consolari, ad Aquila quelle pretorie.
22. (49 d.C.) Sotto gli stessi consoli, Agrippina, implacabile nell’odio e ostile a Lollia, perché era stata sua rivale nella competizione per le nozze con l’imperatore, meditò di attribuirle dei reati e trovò un accusatore, il quale le imputasse la consultazione di maghi Caldei e dell'oracolo di Apollo Clario, a proposito del matrimonio.
Di conseguenza Claudio, senza averla interrogata, parlò a lungo in Senato della stirpe insigne dalla quale essa discendeva, perché figlia d’una sorella di Volusio, pronipote di Cotta Messalino e sposa di Memmio Regolo (senza però accennare alle nozze con Caio Cesare); aggiunse che ella concepiva piani pericolosi per lo Stato ed era bene sottrarle i mezzi per attuarli; e perciò, confiscati i suoi averi, lasciasse l’Italia. Così, del suo patrimonio ingentissimo, all’esule furono lasciati cinque milioni di sesterzi. Fu ridotta in rovina anche Calpurnia, matrona di nobile famiglia, perché l’imperatore aveva espresso apprezzamento della sua avvenenza, non perché la desiderava ma in una conversazione casuale; onde il risentimento di Agrippina arrivò quasi alla condanna a morte. A Lollia fu mandato un tribuno a convincerla che si togliesse la vita. Dietro accusa dei Bitini fu poi condannato per il reato di concussione Cadio Rufo.
23. Alla Gallia Narbonese, per la particolare deferenza verso il Senato, fu concesso un diritto di cui già godeva la Sicilia, e cioè che i senatori di quella provincia potessero recarvisi per controllare i loro interessi senza chiedere il permesso all’imperatore. Alla provincia della Siria furono aggregate l’Iturea e la Giudea, dopo la morte dei rispettivi sovrani, Soema ed Agrippa. Piacque ripristinare la cerimonia dell’augurio della Salute, sospesa già da settantacinque anni, e seguitare a celebrarla. L’imperatore inoltre ampliò il pomerio dell'Urbe5, secondo l’uso antico, per il quale a coloro che hanno esteso i confini dell’impero è consentito anche dilatare le mura della città. E tuttavia i comandanti romani, pur avendo soggiogato grandi nazioni, non avevano mai esercitato questo diritto, tranne L. Silla e il divo Augusto.
24. Su questo argomento la condotta dei sovrani è stata variamente interpretata, se abbiano agito per ambizione o gloria. Ma ritengo non sia fuor di luogo conoscere l’inizio della fondazione di Roma e quale sia stato il pomerio segnato da Romolo: dunque, a partire dal Foro Boario, dove vediamo la statua di bronzo d’un toro, poiché questa razza di animali si aggioga all’aratro, ebbe inizio il solco per delimitare la città, in modo che abbracciasse l’ara massima di Ercole6. Di là, furono posti a intervalli regolari cippi di pietra, dai piedi del Palatino fino all’ara di Conso, poi fino alle Curie antiche, e poi fino al santuario dei Lari. Perciò si ritiene che il Foro Romano e il Campidoglio furono aggiunti alla città non da Romolo ma da Tito Tazio. In seguito, il pomerio fu ampliato in proporzione alle fortune di Roma. Quanto ai limiti posti da Claudio, è facile conoscerli ed è registrato nei documenti ufficiali.
25. Sotto il consolato di G. Antistio e di M. Suillio, fu accelerata l’adozione di Domizio grazie all’autorità di Pallante, il quale, già legato ad Agrippina come pronubo delle sue nozze, poi avvinto a lei con l’adulterio, sollecitava Claudio a provvedere allo Stato ed a proteggere la fanciullezza di Britannico con un valido sostegno. Allo stesso modo Augusto, benché sostenuto dai nipoti, aveva messo in valore i figliastri7; così Tiberio, oltre al proprio figlio, aveva adottato Germanico: lui pure adottasse un giovane, che avrebbe assunto una parte delle sue mansioni. Convinto da questi argomenti, Claudio antepose Domizio, che aveva tre anni di più del proprio figlio, ad esso, dopo aver pronunciato in Senato un discorso dello stesso tenore di quello che aveva udito dal liberto. I competenti osservarono che nella stirpe dei patrizi Claudi non si riscontrava alcuna adozione e che questi si erano continuati in linea diretta da Atto Clauso.
26. E tuttavia furono rese grazie all’imperatore, con adulazione ancor più smaccata riguardo a Domizio; e venne emanata una legge conforme alla quale egli entrava a far parte della famiglia dei Claudi e assumeva il nome di Nerone. Ad Agrippina si conferì il titolo di Augusta. Dopo che furono compiuti questi atti, non vi fu persona così sprovvista di misericordia da non affliggersi per la sorte di Britannico. Privato, poco a poco, anche di schiavi, egli scherniva le intempestive prove d’affetto della matrigna, di cui intuiva la falsità.
Dicono infatti che fosse d’ingegno acuto, sia vero sia che ne abbia serbato la fama senza alcuna prova per la situazione pericolosa in cui si trovava.
27. Ma Agrippina, per ostentare il suo prestigio anche alle nazioni alleate, ottiene di trasferire una colonia di veterani nella città degli Ubii, dove era nata, e che prendesse il suo nome. Il caso volle che proprio il suo avo Agrippa avesse accolto in alleanza quel popolo, quando si era trasferito al di qua del Reno. Nello stesso periodo, la Germania Superiore fu sconvolta da un’irruzione dei Catti, intenti al saccheggio. Quindi il legato P. Pomponio inviò sul posto ausiliari Vangioni e Nemeti, con l’aggiunta di forze di cavalleria, con l’avvertimento di anticipare l’arrivo dei saccheggiatori e improvvisamente accerchiarli quando erano dispersi. Solerti, i soldati eseguirono gli ordini del comandante: si divisero in due formazioni. Quelli che avevano preso il sentiero di sinistra circondarono i nemici, reduci dal recente saccheggio consumato in bagordi e appesantiti dal sonno. La gioia fu accresciuta dal fatto d’aver liberato dalla schiavitù, dopo quarant’anni, alcuni scampati dalla strage di Varo.
28. Quelli poi che si erano diretti a destra e avevano preso le scorciatoie più vicine massacrano ancor più numerosi i nemici e fanno ritorno, onusti di gloria e di preda, al monte Tauno, dove li attendeva Pomponio con le legioni, qualora i Catti, per il desiderio di vendetta, avessero offerto l’occasione di uno scontro. Ma questi, per la paura d’essere accerchiati da una parte dai Romani, dall’altra dai Cherusci, con i quali sono perennemente in conflitto, mandano nell’Urbe legati ed ostaggi; a Pomponio fu decretato l’onore del trionfo, ma presso i posteri di lui permane modica gloria, poiché più alta è la sua fama di poeta.
29. Nello stesso periodo viene espulso dal regno Vannio, che Druso Cesare aveva imposto agli Svevi. Agli inizi del suo dominio era stato famoso e ben accetto ai sudditi, ma in seguito con l’andar del tempo montò in superbia e venne in odio ai vicini e al tempo stesso fu vittima di conflitti familiari. Autori dell’espulsione furono Vibilio, re degli Ermonduri, e Vangione e Sidone, figli d’una sorella di Vannio. Claudio, benché spesso fatto segno a preghiere, non si intromise con le armi tra i dissidi dei barbari; promise un rifugio sicuro a Vannio, qualora lo avessero cacciato e scrisse a Palpellio Istro, governatore della Pannonia, di schierare lungo le rive8 la legione e le milizie ausiliarie reclutate nella provincia per proteggere i vinti e intimorire i vincitori, onde evitare che, imbaldanziti dal successo, turbassero anche la nostra pace. Si avventava infatti una folla innumerevole, attratta dalla fama delle ricchezze che Vannio aveva accumulato in trentanni di saccheggi e di imposte. Egli disponeva di forze proprie, composte di fanteria e cavalleria di Sarmati Jazigi, ma impari alla moltitudine dei suoi nemici, sì che aveva stabilito di difendersi nelle fortezze e di comandare la guerra.
30. Gli Jazigi però, intolleranti dell’assedio, scorrazzando per i campi vicini resero inevitabile la battaglia, poiché Lugi ed Ermonduri erano piombati sul territorio.
Quindi Vannio, uscito dalle fortezze, è sconfitto in battaglia; anche nella sorte avversa, va elogiato per essersi gettato nella mischia e aver ricevuto una ferita nel petto. Indi si rifugiò nella flotta, che era in attesa sul Danubio; lo seguirono i suoi seguaci e ricevettero terreni in Pannonia, dove si stabilirono. Vangione e Sidone si divisero il regno; di ammirevole fedeltà verso di noi, furono molto amati dai sudditi fino a che conquistarono il potere, ma ancor più odiati, quando l’ebbero ottenuto, non si sa se a causa del loro carattere o di quello dei sudditi.
31. In Britannia intanto P. Ostorio, il propretore, fu accolto da una situazione burrascosa, poiché i nemici si erano riversati nei campi dei nostri alleati con tanto maggior accanimento perché non credevano che un comandante nuovo, non pratico dell’esercito e dopo l’inizio dell’inverno, avrebbe preso l’offensiva. Ma questi, convinto che le prime azioni producono o timore o fiducia, si aggira con coorti leggere e, massacrati quelli che gli opponevano resistenza, insegue gli sbandati, per impedire che tornino a riunirsi e che una tregua pericolosa e infida non consenta né al comandante né ai militari di stare tranquilli; disarma i sospetti e si accinge a contenere tutte le forze negli accampamenti al di qua dei fiumi Trisantona e Sabrina. Si opposero per primi gli Iceni, un popolo robusto e non indebolito da combattimenti, perché si erano alleati con noi spontaneamente. Sollecitate da loro, le popolazioni dei dintorni scelsero il campo di battaglia, un terreno cinto da un rustico terrapieno, con un accesso angusto, affinché non fosse accessibile alla cavalleria. Il duce romano, benché privo della forza delle legioni, comandava soltanto milizie alleate; si gettò a infrangere quelle difese e, distribuite le coorti, affidò funzioni di fanteria anche alle squadre dei cavalieri. Poi, dato il segnale, sfondano il terrapieno e scompigliano i nemici, ostacolati dalle loro stesse barriere. E quelli, consapevoli della propria rivolta, e dell’impossibilità di fuggire, compirono molti atti di valore. Per questa battaglia il figlio del legato, M. Ostorio, ottenne la corona civica.
32. La disfatta degli Iceni riportò l’ordine tra quelli che erano incerti tra la guerra e la pace, e l’esercito fu condotto nel paese dei Decangi. Furono devastati i campi e qua e là furono fatte prede, poiché i nemici non osavano dar battaglia o, se di nascosto cerca vano di molestare l’esercito in marcia, l’insidia veniva punita. Ormai si era giunti non lontano dal mare che guarda l’isola Ibernia9, quando scoppiarono dissidi tra i Briganti, che costrinsero a tornare indietro il generale, deciso a non intraprendere nuove imprese senza aver consolidato le precedenti. I Briganti a loro volta si calmarono, dopo aver soppresso quei pochi che avevano preso le armi e concesso il perdono agli altri; il popolo dei Siluri invece non si riusciva né con la ferocia né con la mitezza a dissuaderlo dalle ostilità, sì che fu necessario tenerlo a bada accampandovi una legione. Affinché la cosa si risolvesse prontamente, nei campi conquistati presso Camuloduno fu fondata una colonia di veterani, per servire a difesa contro i ribelli e insegnare agli alleati il rispetto delle leggi.
33. Quindi ci si diresse contro i Siluri, i quali, oltre che nella propria forza, confidavano in Carataco. Questi in molti scontri di esito incerto e in molti fortunati si era distinto tanto da superare gli altri comandanti Britanni. Ma in quel momento, se ci era superiore per la città fortificata e per l’insidia dei luoghi, ci era inferiore per il numero dei combattenti; cosicché portò la guerra nel territorio degli Ordovici, si aggregò quelli che temevano la pace romana e fece un tentativo estremo, scegliendo per la battaglia uno spazio nel quale l’accesso o l’uscita fossero impraticabili per noi e favorevoli ai suoi: da un lato montagne ripide e se in qualche punto era più accessibile lo aveva fatto chiudere accumulandovi blocchi di pietra, a guisa di terrapieno. Davanti scorreva un fiume dal guado difficile e dietro alle fortificazioni era schierata una turba di uomini armati.
34. I comandanti delle tribù inoltre non cessavano di aggirarsi attorno a queste, le incoraggiavano, ne spronavano gli animi, attenuavano la paura, accendevano in loro la speranza con altri incitamenti di guerra.. Carataco soprattutto, trascorrendo ora qua ora là, dichiarava che quella giornata, quello scontro sarebbero stati l’inizio della libertà recuperata o dell’eterno servaggio; rievocava i nomi degli avi, che avevano respinto il dittatore Cesare; per il loro valore essi erano rimasti indenni dalle scuri e dai tributi e avevano conservato intatti i corpi delle mogli e dei figli. Mentre pronunciava questi e altri discorsi la folla lo applaudiva con clamore e ciascuno secondo le formule della propria religione s’impegnava a non retrocedere né per dardi né per ferite.
35. Il comandante romano fu stupefatto da tanto fervore; e al tempo stesso atterrito dal fiume che scorreva davanti, il terrapieno che vi era stato aggiunto, le cime sovrastanti: non un palmo di terreno che non fosse arduo e gremito di combattenti. Ma i soldati chiedevano battaglia, gridavano che con il coraggio tutto è possibile; i prefetti, i tribuni gridando del pari stimolavano l’ardore dell’esercito. Ostorio allora, dopo aver ispezionato quali punti fossero impenetrabili e quali accessibili, guida i più decisi e senza difficoltà attraversa il fiume. Come giunsero al terrapieno, mentre si combatteva con uno scambio di dardi, le ferite erano più frequenti tra i nostri e avveniva un massacro; ma poi, quando si formò la testuggine10, i macigni rozzamente accatastati furono divelti e lo scontro avvenne in condizioni di parità, allora i barbari si ritirarono sulle cime dei monti. Ma anche lassù si avventarono i nostri, sia quelli armati alla leggera sia i legionari, quelli lanciando dardi, questi avanzando compatti, mentre le file dei Britanni si scompigliavano, privi com’erano della protezione di elmi e corazze; se resistevano agli ausiliari, li colpivano i legionari con le spade e le aste; fu una grande vittoria. Furono catturate la moglie e la figlia di Carataco, i fratelli si arresero.
36. Come avviene sempre, la sorte è malfida a chi perde; egli si affidò alla protezione della regina Cartimandua, sovrana dei Briganti, ma messo in catene, fu consegnato ai vincitori nove anni dopo l’inizio della guerra in Britannia. Da qui, la fama di lui si era diffusa nelle isole, divulgata nelle province vicine e celebrata persino in Italia, dove tutti erano impazienti di vedere colui che per tanti anni aveva tenuto in scacco le nostre forze. Anche a Roma, il nome di Carataco era tutt’altro che ignoto; e l’imperatore, per esaltare la propria dignità, aumentò la gloria del vinto. Il popolo fu invitato come ad uno spettacolo eccelso; le coorti dei pretoriani vennero schierate in armi nello spiazzo prospiciente il loro accampamento. Allora sfilarono i vassalli del re recando le fàlere, i collari e tutte le spoglie che egli aveva conquistato nelle guerre con i re stranieri, poi il fratello, la moglie e la figlia e infine fu esposto allo sguardo lui stesso. Tutti gli altri pronunciarono suppliche ignobili, mossi da terrore, ma non Carataco; non piegò la fronte, non chiese pietà, ma come fu al cospetto della tribuna imperiale così parlò:
37. «Se nella buona sorte avessi avuto tanta moderazione quanto ho avuto di nobiltà e di fortuna, sarei venuto in questa città da amico e non da prigioniero e tu non avresti avuto a sdegno di accogliere in pace e in alleanza un uomo di nobile lignaggio, signore di molti popoli. La mia sorte attuale è tanto umiliante per me quanto splendida per te. Ho avuto cavalli, uomini, armi: c’è forse da meravigliarsi se non volevo perderli? E poi, se voi pretendete di dominare su tutti, ne consegue che tutti accettino di servire? Se fossi trascinato davanti a te senza aver opposto resistenza, né la mia sorte né la tua gloria avrebbero acquistato splendore; al mio supplizio seguirebbe l’oblio; ma se mi lascerai vivere, sarò per sempre un esempio della tua clemenza».
A queste parole, Cesare concesse il perdono a lui, alla moglie, al fratello; ed essi, sciolte le catene, espressero gli stessi elogi e gratitudine al principe e ad Agrippina, che si trovava non lontano su un’altra tribuna. Era effettivamente un fatto nuovo ed estraneo al costume dei padri, che una donna prendesse posto al cospetto delle insegne; ma ella si considerava partecipe di quell’impero che i suoi antenati avevano conquistato.
38. Dopo di che, i senatori furono convocati e pronunciarono molti e bellissimi discorsi a proposito della cattura di Carataco, definirono l’impresa non meno eccelsa di quelle compiute da P. Scipione contro Siface, da Paolo Emilio su Perseo, e quanti altri avevano mostrato re incatenati al popolo romano. A Ostorio furono decretate le insegne trionfali, poiché fino a quel momento le sue gesta avevano avuto esito propizio; in seguito però furono incerte, poiché sia che, tolto di mezzo Carataco, sembrava che la guerra fosse conclusa, sia che il nostro esercito fosse meno accanito, sia che i nemici per compassione d’un re così grande fossero indotti con maggiore impegno alla vendetta. Accerchiarono il Prefetto del campo e le coorti dei legionari lasciate nel territorio dei Siluri per edificare fortezze; e se alla notizia non si fosse provveduto immediatamente a liberare i soldati assediati, sarebbero stati uccisi; caddero tuttavia il prefetto, otto centurioni e dei manipoli i più valorosi. Non molto tempo dopo, misero in fuga i nostri, inviati a fare foraggio e i cavalieri di rinforzo.
39. Ostorio allora inviò a fermarli le coorti armate alla leggera; e non sarebbe riuscito ad arrestare la fuga, se non si fossero gettate nella battaglia anche le legioni; per la loro forza, lo scontro divenne pari, poi volse a nostro favore. I nemici fuggirono con poche perdite, perché tramontava il giorno. Da allora furono frequenti gli scontri, spesso a guisa di scorrerie per balze e per acquitrini, secondo il caso o il volere di ciascuno, alla ventura e senza un piano, per impeto d’ira o per far preda, su comando dei capi e talvolta a loro insaputa. Fortissima in ispecie la resistenza dei Siluri, infuriati per una frase che s’era diffusa del comandante romano e cioè che come un tempo i Sigambri erano stati annientati e trasferiti nelle Gallie, così il nome dei Siluri sarebbe stato totalmente cancellato. Catturarono due coorti ausiliarie che l’avidità dei prefetti aveva spinto incautamente a far saccheggio; distribuendo senza risparmio spoglie e prigionieri inducevano alla diserzione anche le altre popolazioni, fino a che Ostorio, affranto dalle preoccupazioni, finì di vivere, con grande esultanza dei nemici, poiché un comandante tutt’altro che spregevole s’era spento, se non in battaglia certamente a causa della guerra.
40. Ma Cesare, appresa la morte del legato, lo rimpiazzò con A. Didio, per evitare che la provincia rimanesse priva di un capo. Questi fu trasportato sul luogo rapidamente, ma trovò la situazione tutt’altro che tranquilla, perché nel frattempo una legione al comando di Manlio Valente aveva perduto una battaglia; l’avvenimento fu esagerato dai nemici per incutere terrore nel comandante al suo arrivo e a sua volta anche da lui, per procurare a se stesso maggior merito se fosse riuscito a rimediare all’accaduto e, se ne fossero durate le conseguenze, potesse ottenere più equa indulgenza. Anche questo danno ce lo avevano procurato i Siluri, i quali seguitavano a imperversare in lungo e in largo, fino a che furono respinti dall’intervento di Didio. Ma dopo la cattura di Carataco, il più esperto nell’arte militare era Venuzio, del popolo dei Briganti, il quale per lungo tempo era stato fedele ai Romani e difeso dalle loro armi, fino a che era stato legato in matrimonio con la regina Cartimandua; ma ora, come avvenne la separazione tra loro, e subito dopo la guerra, aveva assunto un atteggiamento ostile anche verso di noi. Sulle prime combatterono soltanto tra di loro e Cartimandua, con astute manovre, s’impadronì del fratello di Venuzio e di alcuni suoi congiunti. Gli avversari ne furono infuriati e, mossi dalla vergogna, per non sottostare al dominio d’una donna, i giovani più validi e più selezionati invasero il regno di lei. L’avevamo previsto e le coorti inviate a soccorso combatterono un’aspra battaglia, che si concluse felicemente, mentre all’inizio era di esito incerto. Non fu diverso il risultato del combattimento sostenuto da una legione, al comando di Cesio Nasica; Didio infatti, aggravato dall’età e da un gran numero di onori, era pago di agire attraverso i suoi ufficiali e di tenere a freno il nemico. Queste campagne, benché combattute da due propretori durante parecchi anni, le ho riferite assieme poiché separatamente non risalterebbero in proporzione all’importanza. Ora tornerò a seguire l’ordine cronologico.
41. Sotto il consolato di Claudio e di Servio Cornelio Orfito, fu anticipata la toga virile a Nerone, affinché apparisse atto a governare lo Stato. E l’imperatore cedette volentieri alle adulazioni del Senato, affinché Nerone ottenesse il consolato a vent’anni e intanto fosse designato a rivestire l’impero proconsolare fuori di Roma e fosse chiamato principe della gioventù. In suo nome fu distribuito un donativo ai militari e alimenti alla plebe. Ai giochi nel circo, che furono celebrati per attirare le simpatie del popolo, sul cocchio Britannico fu trasportato con indosso la toga pretesta, Nerone la veste trionfale: che dunque il popolo vedesse questo nella maestà imperiale, quello nelle vesti di giovinetto e presumesse già la sorte dell’uno e dell’altro. Al tempo stesso quelli dei centurioni e dei tribuni che commiseravano la sorte di Britannico furono trasferiti con varie scuse o con il pretesto d’una promozione; anche i liberti, se ve n’era ancora di fedeltà incorrotta, furono espulsi nell’occasione seguente: nell’incontrarsi, Nerone salutò Britannico per nome, questi invece lo chiamò Domizio. Agrippina sdegnata riferì la cosa al marito, ravvisandovi un indizio di discordia: or dunque, non si teneva conto dell’adozione e tra le pareti domestiche veniva ignorato ciò che i senatori avevano decretato, il popolo aveva voluto; e se non si fosse posto un freno all’iniqua ostilità dei precettori, ne sarebbe conseguita una pubblica jattura. Indignato per queste proteste, quasi si fosse trattato d’un delitto, Claudio inflisse l’esilio e la pena capitale ai migliori educatori del figlio e lo affidò alla vigilanza di altri, scelti dalla matrigna.
42. Agrippina tuttavia non osava ancora vibrare il colpo finale, fino a che non fossero esonerati dall'incarico delle coorti Lusio Geta e Rufrio Crispino, che riteneva memori di Messalina e affezionati ai figli di lei. Cominciò con l’asserire che la rivalità tra i due provocava discordia tra le coorti, che la disciplina sarebbe stata più rigida se fosse affidata a uno solo e conferì il comando delle coorti a Burro Afranio. Era un uomo di fama egregia come soldato; ma ben consapevole per volontà di chi avesse ottenuto quell’avanzamento. Agrippina intanto promoveva il proprio prestigio: si recava in Campidoglio in vettura da cerimonia, onore che un tempo era riserbato ai sacerdoti o alle immagini sacre, il che aumentava la reverenza verso una donna che era figlia d’un comandante di grado elevato, sorella, sposa e madre di uomini che avevano raggiunto il potere supremo: un esempio unico fino ai giorni nostri. Il suo più attivo sostenitore intanto, Vitellio, suo grande protetto, ormai molto avanti negli anni – così incerta è la sorte dei potenti – fu colpito da una denuncia, sporta da Giunio Lupo. Questi gli imputava il reato di lesa maestà e brama di potere; e Cesare gli avrebbe prestato orecchio, se non avesse mutato parere a seguito delle minacce, più che le preghiere, di Agrippina, tanto che condannò l’accusatore all’esilio. Esattamente quel che Vitellio aveva voluto.
43. (51 d.C.) Durante quell’anno si verificarono numerosi prodigi. Sul Campidoglio si posarono uccelli di malaugurio, crollarono parecchie case per frequenti scosse di terremoto, e per la paura di ulteriori sciagure, gli invalidi rimasero schiacciati dalla folla atterrita; anche la scarsità del raccolto e la carestia che ne conseguì fu ritenuta un prodigio. E non vi furono soltanto malumori segreti; Claudio fu circondato con grida minacciose mentre rendeva giustizia, fu sospinto con violenza ai limiti del Foro, fino a che un drappello di soldati riuscì ad aprirgli un varco tra la folla ostile. Si seppe che alla città rimanevano alimenti per quindici giorni, non di più, e solo la grande benevolenza degli dèi e la mitezza dell’inverno impedirono atti disperati. Ma per Ercole un tempo l’Italia forniva di vettovaglie le legioni nelle lontane province eppure oggi, che non soffriamo di sterilità, preferiamo coltivare le terre dell’Africa e dell’Egitto e l’esistenza del popolo romano dipende dalle navi e dagli incerti del mare.
44. Lo stesso anno11 scoppiò una guerra tra Armeni e Iberi, che provocò gravissimi turbamenti tra Parti e Romani. Sul popolo dei Parti regnava Vologese, figlio d’una concubina greca e giunto al trono per la rinuncia dei fratelli; sugli Iberi regnava Farasmane per diritto d’antica data, mentre suo fratello Mitridate dominava gli Armeni con il nostro appoggio. Farasmane aveva un figlio di nome Radamisto, un giovane aitante, notevole per la forza fisica, esperto nelle arti del suo popolo e famoso tra quelli vicini. Questi andava dicendo che il regno d’Iberia era insignificante e ormai vecchio il padre che lo governava e lo faceva con troppa jattanza e frequenza, per poter nascondere le sue mire. Di conseguenza Farasmane, ansioso perché consapevole della sua età, cercava d’indirizzare verso altre speranze il giovane, che vedeva anelante al potere e circondato dall’affetto del popolo; gli additava l’Armenia, gli rammentava che era stato lui, cacciati i Parti, a cederla a Mitridate; ma lo ammoniva a differire l’uso della forza e piuttosto usare l’inganno, per schiacciarlo di sorpresa. Sicché Radamisto, simulando un dissidio con il padre per insofferenza dell’odio della matrigna, si recò dallo zio, e ne fu ricevuto con grande benevolenza, quasi come un figlio; e cominciò a istillare nei notabili Armeni un desiderio di novità, alle spalle di Mitridate, che sempre più lo onorava.
45. Con la scusa di riconciliarsi con il padre, tornò da lui e gli comunicò che quanto si poteva ottenere con la frode era già compiuto e che ormai era ora di agire con le armi. Farasmane allora inventa pretesti per la guerra; quando egli, in guerra contro il re degli Albani, voleva chiamare in aiuto i Romani, il fratello si era opposto; ora, egli si sarebbe mosso per vendicare quell’offesa e l’avrebbe distrutto; e quindi affidò al figlio forze ingenti. Questi, con un’irruzione improvvisa, atterrì Mitridate e lo indusse a lasciare la campagna e rifugiarsi nella fortezza di Gornea, sicura per la posizione e per la presenza d’un presidio di soldati romani, al comando di Celio Pollio e del centurione Casperio. Nulla è così ignoto ai barbari quanto le macchine da guerra e la tecnica dell’assedio, mentre a noi questa parte dell’arte militare è molto nota. Sicché Radamisto, dopo aver tentato inutilmente e con gravi perdite l’assalto alle fortificazioni, dette inizio all’assedio. Trascurando l’uso della forza, sfruttò la cupidigia del prefetto, mentre Casperio protestava che non doveva rovinare per denaro un re alleato e l’Armenia, dono del popolo romano. Infine, dato che Pollione adduceva il gran numero dei nemici, Radamisto a sua volta gli ordini del padre, Casperio, dopo aver pattuito una tregua, se ne andò per informare il governatore della Siria, Ummidio Quadrato, della situazione in cui si sarebbe trovata l’Armenia, se non fosse riuscito a imporre a Farasmane di rinunciare alle ostilità.
46. Come se la partenza del centurione l’avesse liberato da un controllo, il prefetto incominciò a esortare Mitridate a concludere un accordo, tenendo conto del vincolo fraterno, dell’età più avanzata di Farasmane, e anche dei legami di parentela esistenti tra loro, dato che egli aveva sposato una figlia del fratello ed era a sua volta suocero di Radamisto; gli Iberi inoltre, benché sul momento più forti, non erano contrari alla pace; era nota la perfidia degli Armeni ed egli non disponeva d’altra difesa che d’una fortezza ormai sprovvista di rifornimenti; che non preferisse una guerra di esito incerto a una pace incruenta. Mitridate esitava e non si fidava dei consigli del prefetto, il quale aveva avuto un legame con una sua concubina ed era ritenuto capace di qualsiasi misfatto per denaro. Casperio intanto, arrivato da Farasmane, gli chiese che gli Iberi desistessero dall’assedio. Questi in pubblico gli dava risposte vaghe e il più delle volte concilianti, ma segretamente inviava messi a Radamisto, ingiungendogli di affrettare in qualsiasi modo l'attacco.
Intanto aumentava il costo del compenso e Pollione corruppe i suoi soldati, li indusse a reclamare la pace e minacciare di abbandonare la guarnigione. In questa situazione, Mitridate accetta di fissare il giorno e il luogo dell’incontro ed esce dalla fortezza.
47. Al primo incontro, Radamisto lo stringe tra le braccia, simula reverenza, lo chiama suocero, padre, giura che contro di lui non userà mai né ferro né veleno. Poi, lo trae in un bosco non lontano, perché, gli dice, ivi è stato preparato un sacrificio affinché la pace sia confermata con la testimonianza degli dèi. Tra i re si usa, quando stabiliscono un’alleanza, di stringersi la destra e intrecciare i pollici in un nodo; poi, non appena il sangue è sceso all’estremità delle dita, con una lieve puntura fanno uscire il sangue e lo succhiano a vicenda.
Il patto così sancito si ritiene arcano, quasi consacrato dallo scambio del sangue. Ma in quel momento, colui che toglieva i lacci, finge di cadere e afferrando le ginocchia di Mitridate lo trascina a terra a sua volta; immediatamente accorrono in molti e lo avvolgono in catene; e lo trascinano via, con la catena al piede, cosa che per i barbari è vergogna. La folla intanto, sulla quale aveva esercitato un duro dominio, lo copre d’insulti e di percosse; ma c’era anche chi commiserava un capovolgimento di fortuna così forte, la moglie poi con i piccoli figli lo seguiva e tutto riempiva con i suoi lamenti. Poi li chiudono in carri coperti, separatamente, in attesa degli ordini di Farasmane. In lui la brama di regno era più forte che l’affetto verso il fratello e la figlia e l’animo suo era pronto al delitto; tuttavia, si risparmiò la vista e volle che non fossero uccisi davanti ai suoi occhi. E Radamisto, quasi volesse tener fede al giuramento, non inflisse allo zio e alla sorella né ferro né veleno: li fece stendere a terra e morire coperti da un cumulo di panni pesanti. I figli di Mitridate, che avevano pianto il massacro dei genitori, furono trucidati.
48. Quadrato intanto, informato del fatto che Mitridate era stato tradito e il regno occupato dai suoi assassini, convoca il consiglio, lo informa di ciò che è accaduto e chiede se non sia il caso di fare vendetta. Pochi si curarono della dignità nazionale, i più consigliarono prudenza: qualunque delitto avvenga tra stranieri dev’essere considerato con gioia; è opportuno spargere germi di odio; spesso gli imperatori romani avevano offerto l’Armenia quasi come un dono, per diffondere odio tra i barbari; che Radamisto si tenesse il mal tolto, purché fosse malvisto e coperto d’infamia, il che era molto più utile che se l’avesse conquistato con gloria. Questo parere prevalse. Tuttavia, per non aver l’aria di approvare il delitto e nel caso che l’imperatore fosse di diverso avviso, inviarono messi a Farasmane con l’ordine di allontanarsi dai confini dell’Armenia ed estrometterne il figlio.
49. Era procuratore di Cappadocia Giulio Peligno, uomo spregevole sia per la viltà dell’animo che per la deformità del corpo, ma molto amico di Claudio, da quando questi non era che un privato cittadino e trascorreva il tempo frequentando i buffoni. Questo Peligno aveva adunato un esercito di ausiliari apparentemente per recuperare l’Armenia, in realtà per spogliare gli alleati più che i nemici; ma i suoi lo abbandonarono e si trovò ad aver bisogno di aiuto contro l’assalto dei barbari; e allora si recò da Radamisto. Questi lo conquistò con donativi, tanto che Peligno spontaneamente lo esortò ad assumere le insegne regali, anzi assistè alla cerimonia, protettore e satellite insieme. Come si sparse la notizia di quella vergogna, affinché non tutti gli altri fossero giudicati alla stregua di Peligno, fu inviato il legato Elvidio Prisco12 con una legione per ristabilire l’ordine, conforme alle necessità del momento. Questi superò rapidamente il monte Tauro e compose molte cose con la moderazione più che con la forza, ma fu richiamato in Siria, per non creare un pretesto di guerra con i Parti.
50. Vologese infatti ritenne fosse giunta l’occasione per invadere l’Armenia, che apparteneva ai suoi avi ed era stata occupata da un re straniero con il delitto; quindi incominciò a raccogliere milizie allo scopo di mettere sul trono il fratello Tiridate, affinché non ci fosse uno della famiglia che non avesse un regno. All’arrivo dei Parti, gli Iberi furono espulsi senza colpo ferire e le città armene, Artaxata e Tigranocerta, si sottomisero. Ma l’inverno rigidissimo, la scarsa provvista di vettovaglie e una epidemia derivata da entrambe queste cause indussero Vologese a rinunciare all’impresa. Radamisto allora si affrettò ad occupare l’Armenia, nuovamente rimasta senza un re, più spietato che mai perché marciava contro traditori e futuri ribelli. Questi però, benché avvezzi a servire, improvvisamente si ribellarono e circondarono armati la reggia.
51. Radamisto non ebbe altro soccorso che la rapidità dei cavalli, con i quali portò in salvo se stesso e la moglie. Questa, che era gravida, all’inizio sopportò la fuga per paura dei nemici e per amore del marito, ma poi, in quella corsa senza soste, sentendosi scuotere l’utero e le viscere, lo supplicò di darle una morte onorata per sottrarla alla vergogna della prigionia. Egli sulle prime l’abbracciò, la confortò, le fece coraggio, poi, ora ammirando il suo valore, ora sopraffatto dal timore che se l’avesse abbandonata qualcuno avrebbe potuto impadronirsi di lei, infine spinto dalla forza dell’amore e non nuovo al delitto la trafisse, la trascinò sulle rive dell’Araxe e la gettò nel fiume, affinché la corrente trascinasse via il cadavere. E rapidamente giunse nel regno paterno. Intanto alcuni pastori in un’ansa stagnante del fiume scorsero Zenobia (così si chiamava la donna): respirava ancora e sembrava in vita; per la nobiltà dell’aspetto si resero conto che era una donna di condizione elevata, le fasciarono la ferita, la curarono con farmaci rudimentali e, appreso il di lei nome e le vicende, la portarono ad Artaxata. Di là fu condotta da Tiridate a spese pubbliche, ricevuta amabilmente e trattata da regina.
52. (52 d.C.) Sotto il consolato di Fausto Silla e di Salvio Otone, Scriboniano fu condannato all’esilio sotto l’accusa di aver interrogato i Caldei sulla fine dell’imperatore. Fu associata al reato la madre, Vibia, in quanto insofferente della condanna precedente, dato che era stata relegata. Il padre di Scriboniano, Camillo, aveva suscitato una rivolta armata in Dalmazia, e Cesare voleva dar prova di clemenza, risparmiando per la seconda volta la vita a una stirpe che gli era nemica. L’esule tuttavia dopo di ciò non visse a lungo: poi si disse che fosse morto di morte naturale o di veleno, secondo quanto ciascuno credeva. In Senato fu emanato un decreto molto rigoroso, ma invano, riguardo all’espulsione degli astrologi dall’Italia. Poi il principe espresse il suo elogio di coloro che per difficoltà economiche della famiglia rinunciavano spontaneamente a far parte del Senato, mentre ordinò che ne fossero espulsi quelli che, rimanendovi, aggiungevano alla povertà l’impudenza.
53. Poi riferì ai Padri riguardo alla pena da infliggere alle donne che avevano rapporti intimi con gli schiavi e fu stabilito che quelle che erano scese così in basso fossero considerate schiave, se il padrone era all’oscuro del fatto, liberte invece se il padrone era consenziente. A Pallante, che Cesare aveva dichiarato promotore della legge, il console designato, Borea Sorano, conferì le insegne pretorie e quindicimila sesterzi. Scipione Cornelio aggiunse che si doveva rendergli pubblici ringraziamenti poiché, discendente com’era dai re d’Arcadia, posponeva la sua antichissima nobiltà al bene pubblico e consentiva ad esser ritenuto tra i dipendenti dell’imperatore. Claudio asserì che Pallante, pago dell’onore, voleva restare povero come prima. E fu inciso nel bronzo ed esposto in pubblico un decreto del Senato nel quale veniva fatto segno dei più alti elogi per la sua parsimonia d’altri tempi un liberto che possedeva trecento milioni di sesterzi.
54. Il fratello di lui, di nome Felice, non si comportava però con la stessa moderazione. Da tempo era governatore della Giudea ed era convinto di poter commettere impunemente qualsiasi delitto, sostenuto com’era da un potere così alto. In verità i Giudei avevano dato inizio a una specie di sedizione dopo che (avendo ricevuto l’ordine da Claudio di collocare una sua statua nel tempio, ma, appresa la morte di lui, non avendo eseguito l’ordine)13, però perdurava in loro il timore che qualcuno dei principi imponesse la stessa cosa. Felice intanto provocava nuove violenze adottando misure intempestive, emulato nei provvedimenti più eccessivi da Ventidio Cumano, che governava una parte della provincia; divisa in modo che a questo obbediva il popolo dei Galilei, a quello i Samaritani, discordi un tempo e ora, per il dispregio in cui tenevano i governanti, senza più ritegno nell’odio reciproco. E quindi compivano rapine gli uni contro gli altri, si lanciavano contro bande di ladroni, si tendevano insidie, a volte si scontravano in veri e propri combattimenti e riportavano le spoglie e le prede ai procuratori. Questi sulle prime se ne rallegravano, poi, dato che lo sterminio si estendeva, intervennero con le armi; ma i soldati furono uccisi e nella provincia sarebbe divampata la guerra, se non fosse sopraggiunto Quadrato, governatore della Siria. A carico dei Giudei, che s’erano scatenati a uccidere i nostri, non si esitò a lungo a far scontare la pena: furono decapitati. Contro Cumano e Felice invece vi fu qualche perplessità, perché Claudio, appresi i motivi della rivolta, aveva concesso facoltà di decidere anche sul castigo dei procuratori. Ma Quadrato presentò Felice tra i giudici, nel tribunale, al fine di placare lo zelo degli accusatori. Per i delitti commessi da entrambi fu condannato Cumano e la pace tornò nella provincia.
55. Non molto tempo dopo, alcune rustiche popolazioni della Cilicia, chiamate Cieti, in rivolta già molte altre volte, alla guida di Trossoboro posero i loro accampamenti su aspre montagne, dalle quali calavano sulle spiagge e nelle città, gettandosi con violenza su agricoltori e cittadini, ma soprattutto su mercanti e armatori. Fu assediata la città di Anemuria e la cavalleria mandata in aiuto dalla Siria al comando del prefetto Curzio Severo fu respinta, perché i territori attorno, molto difficili, adatti allo scontro di fanteria, non si prestavano alla battaglia equestre. In seguito il sovrano di quelle sponde, Antioco, lusingando le masse e ingannando il capo, riuscì a dividere le forze dei barbari; soppresso Trossoboro e pochi dei capi, placò gli altri con la clemenza.
56. Nello stesso periodo, fu condotto a termine il taglio del monte tra il lago del Fùcino e il fiume Liri14; e affinché la grandiosità dell’opera fosse vista da un gran numero di persone, fu allestita una battaglia navale nel lago. Lo stesso aveva fatto una volta Augusto, scavando uno stagno nei pressi del Tevere, ma con natanti di stazza inferiore e con minore dovizia. Claudio armò triremi, quadriremi e diciannovemila uomini e lo spazio fu cinto da zattere, a impedire fughe disordinate, lasciando tuttavia ampiezza sufficiente allo sforzo dei remi, all’abilità dei timonieri, al rapido corso delle navi e alle vicende abituali delle battaglie. Sulle zattere erano imbarcati manipoli delle coorti pretoriane e davanti a loro erano stati costruiti parapetti, dai quali potessero manovrare catapulte e balestre. Il resto del lago era occupato da marinai della flotta, su navi coperte. Le rive, i colli a guisa di teatri erano gremiti d’una folla innumerevole, affluita dai municipi dei dintorni e dalla stessa Roma, per il desiderio di assistere o per omaggio all’imperatore. Questi, che indossava uno splendido paludamento, e poco lontano Agrippina, in clamide dorata, presiedettero allo spettacolo. Il combattimento si svolse tra delinquenti, che tuttavia si batterono con animo da prodi, e solo dopo molte ferite furono esonerati dal proseguire il massacro.
57. Ma quando terminò lo spettacolo e si aprì il canale, fu evidente la negligenza con la quale era stato eseguito il lavoro, perché il letto non era abbastanza profondo rispetto al fondo del lago. Di conseguenza, trascorso qualche tempo, gli scavi furono approfonditi e per attirare ancora una gran folla fu offerto uno spettacolo di gladiatori e furono costruiti ponti per uno scontro di fanti. Presso il punto dove scaturiva l’acqua del lago fu imbandito un banchetto, ma si sparse il terrore in tutti i presenti, perché prorompendo le acque trascinavano via tutto ciò che era dattorno, mentre sconvolgevano quel che si trovava più lontano e il fragore faceva paura. Agrippina si affrettò a sfruttare la paura di Claudio e accusò l’appaltatore dell’opera, Narcisso, di avidità e di profitto illecito. Ma quello non sopportò in silenzio le accuse e le rinfacciò la sua arroganza e le mire troppo alte.
58. Sotto il consolato di D. Giunio e di Q. Aterio, Nerone, ormai giunto a sedici anni, prese in moglie Ottavia, la figlia dell’imperatore. Al fine di metterlo in vista per attività piene di decoro ed eccellenza oratoria, gli fu affidata la causa dei cittadini di Ilio; ed egli li fece esonerare da ogni tributo, rievocando con belle parole la discendenza dei Romani da Troia, Enea capostipite della famiglia Giulia e altre storie antiche non dissimili da leggende. Sempre da lui fu patrocinato il sussidio di 100 milioni di sesterzi alla colonia di Bologna, che era stata distrutta da un incendio; poi fu resa ai Rodii l’amministrazione autonoma che più volte era stata loro negata e poi riconfermata, a seconda se avevano ben meritato da Roma nelle guerre contro popoli stranieri o se invece si erano resi colpevoli di discordie interne. Gli abitanti di Apamea, inoltre, colpiti da un terremoto, furono esentati dal tributo per cinque anni.
59. Claudio intanto era indotto a crudeltà estreme dalle manovre di Agrippina. Ella concupiva i giardini di Statilio Tauro, famoso per le sue ricchezze e per questa ragione lo rovinò: indusse Tarquizio Prisco, legato con potestà proconsolare di Tauro, governatore d’Africa, a denunciarlo. Non appena furono rientrati in Italia, Tarquizio mosse a Tauro l’accusa di qualche reato di concussione, ma specialmente di pratiche di magìa. Questi, incapace di sopportare il falso accusatore e le abbiette imputazioni, prima della sentenza del Senato si tolse la vita. Tarquizio tuttavia fu espulso dal Senato, perché l’ostilità dei Padri prevalse sulle manovre di Agrippina.
60. In quello stesso anno spesso Claudio fu udito dire che bisognava ritenere i giudizi dei suoi procuratori di pari merito con quelli pronunciati da lui. E affinché queste affermazioni non apparissero sfuggite a caso, fu emessa anche una delibera senatoriale più ampia e più precisa.
Il divo Augusto in effetti aveva ordinato che al cospetto dei cavalieri che esercitavano il governo in Egitto le cause fossero trattate conformemente alla legge e le loro sentenze avessero lo stesso valore di quelle emanate dai magistrati di Roma. In seguito, in altre province e nell’Urbe stessa, molte cause furono affidate al giudizio dei cavalieri, mentre in precedenza venivano istruite da pretori. Claudio affidò loro tutta l’amministrazione della giustizia: tante volte in passato la cosa aveva provocato discordia e persino conflitti armati, quando per la legge Sempronia la funzione giudiziaria era stata affidata agli equestri o in seguito quando, per la legge Servilia era tornata al Senato o quando fu motivo principale di conflitto tra Mario e Silla15. Ma allora le passioni dividevano le classi e le opinioni vincenti valevano per tutti. C. Oppio e C. Balbo per primi, grazie all’autorità di Cesare, ebbero il potere di trattare condizioni di pace e ordini di guerra. Né ora servirebbe a nulla rammentare i nomi di altri autorevoli cavalieri romani, dopo che Claudio collocò sul suo stesso livello e su quello delle leggi quei liberti che erano incaricati dell’amministrazione del suo patrimonio.
61. In seguito Claudio riferì al Senato sull’esenzione dalle tasse da concedere agli abitanti di Coo, e rievocò molte memorie riguardanti il loro passato: i primi antichissimi abitanti dell’isola erano stati gli Argivi, oppure Ceo, padre di Latona. In seguito, con l’arrivo di Esculapio, vi era stata introdotta l’arte medica, che era divenuta celebre specie tra i posteri di lui; e ne citò i nomi e l’epoca in cui ciascuno di essi era vissuto; anzi, disse, il suo medico Senofonte, della cui dottrina egli stesso si serviva, discendeva da quella stessa famiglia. Appunto alle sue preghiere riteneva opportuno concedere l’esonero richiesto, affinché, esentati da ogni tributo, in futuro quegli abitanti vivessero nell’isola sacra, unicamente dediti al culto del dio. Né v’era poi dubbio alcuno che essi vantassero molte benemerenze verso il popolo romano, e vittorie riportate insieme. Ma Claudio, con la condiscendenza abituale, non cercò di coprire con motivi estrinseci il favore che aveva concesso a uno solo.
62. Gli inviati di Bisanzio, come ebbero facoltà di parlare, nel deprecare al cospetto del Senato il peso eccessivo degli oneri, rievocarono le loro benemerenze. Incominciarono dal patto che avevano stretto con noi al tempo in cui ci battemmo contro il re di Macedonia, al quale, essendo un impostore, fu dato il nome di Pseudo-Filippo; poi le truppe da loro inviate contro Antioco, Perseo, Aristonico e gli aiuti offerti ad Antonio nella guerra contro i pirati e quelli a Silla, a Lucullo, a Pompeo e infine i meriti recenti verso i Cesari, poiché essi risiedevano in una località che presentava molti vantaggi per la traversata di generali ed eserciti, nonché per il trasporto di vettovaglie.
63. I Greci infatti fondarono Bisanzio proprio nel punto dove lo stretto tra Europa ed Asia è più angusto, all’estremità dell’Europa: avendo essi consultato l’Apollo Pizio sul luogo dove collocare la città, ottennero dall’oracolo la risposta, che cercassero la sede dirimpetto alla terra dei ciechi. Con questa risposta enigmatica si alludeva ai Calcedoni, che erano giunti là per primi ma, pur avendo constatato l’opportunità del luogo, ne avevano scelto un altro. Bisanzio infatti gode d’un terreno fecondo e d’un mare molto ricco, poiché i pesci che dal Ponto affluiscono numerosissimi, spaventati dagli scogli che si ergono obliqui sott’acqua, si allontanano dalla curva del litorale opposto e si riversano in questo porto. Dimodoché i Bizantini all’inizio guadagnarono molto e arricchirono; ma poi, gravati da pesanti tributi, ne chiedevano l’esonero o la riduzione, con il consenso dell’imperatore, il quale propose che fossero soccorsi perché ridotti a mal partito per le recenti guerre contro i Traci e i Bosforani. Sicché furono esonerati dai tributi per cinque anni.
64. (54 d.C.) Sotto il consolato di M. Asinio e M. Acilio dal prodursi di frequenti prodigi fu previsto un mutamento in peggio dello Stato. Insegne e tende militari andarono in fiamme per un fulmine; uno sciame di api si posò sulla sommità del Campidoglio; si verificò la nascita di creature deformi e d’un maiale con unghie da sparviero. Tra i portenti si annoverava anche il calo nel numero di tutti i magistrati, dato che in pochi mesi erano mancati un questore, un edile, un tribuno, un pretore e un console. La più atterrita era Agrippina per aver udito Claudio, gravato dall’ubriachezza, esclamare che era suo destino sopportare i delitti delle mogli e poi castigarle. Spaventata, decise di affrettare l’azione e per motivi di gelosia femminile, toglier di mezzo Lepida, figlia di Antonia Minore, pronipote di Augusto, cugina prima16 di Agrippina e sorella di Cneo, primo marito di lei, convinta d’esserle pari per la nobiltà. Quanto a bellezza, età e ricchezza non c’era molta differenza tra loro; erano l’una come l’altra spudorate, malfamate, sfrenate e gareggiavano nei vizi non meno che nelle doti che la fortuna aveva largito loro. La competizione più viva in effetti consisteva nell’influenza di ciascuna di esse su Nerone, se fosse più forte quella della madre o quella della zia: Lepida legava a sé l’animo del giovane con la tenerezza e con i doni, Agrippina al contrario con l’atteggiamento rigido e minaccioso, come colei che aveva il potere di donare l’impero al figlio, ma non tollerava che imperasse.
65. Lepida fu imputata d’aver operato sortilegi a danno della moglie dell’imperatore e d’aver turbato la pace in Italia raccogliendo bande di schiavi in Calabria. Per queste ragioni le fu ingiunto di togliersi la vita, ad onta della recisa opposizione di Narcisso, il quale, sempre più diffidando di Agrippina, si diceva avesse confidato agli intimi d’esser certo della propria fine, sia che salisse al trono Britannico sia Nerone, ma che l’imperatore gli aveva fatto tanto del bene che egli aveva il dovere di dedicare la vita al suo servizio. Diceva che era stato lui a far condannare Messalina e Silio; e che ora avrebbe avuto altrettante accuse da formulare, se fosse divenuto imperatore Nerone; mentre, se il successore dovesse essere Britannico, non avrebbe avuto nulla da temere; la casa però ora era sconvolta dagli intrighi della matrigna e per lui il disonore era più grave che se avesse taciuto l’inverecondia della consorte precedente. L’adulterio, del resto, non mancava neppure ora, a causa del legame di Agrippina con Pallante e nessuno poteva dubitare che per lei ogni cosa, l’onore, il pudore e persino il proprio corpo, contavano meno dell’impero. Mentre ripeteva questi e altri discorsi, abbracciava Britannico, gli augurava di raggiungere al più presto il vigore degli anni e tendeva la mano ora a lui, ora agli dèi, supplicando che diventasse adulto, cacciasse via i nemici del padre e anche si vendicasse sugli assassini della madre.
66. Oppresso da tante angustie, Narcisso cadde ammalato e si recò a Sinuessa, per riprendere le forze in quel clima mite e quelle acque salutari. Agrippina allora, da tempo decisa al delitto, pronta a cogliere l’occasione che le si offriva, né sprovvista di complici, si consultò sul tipo di veleno da usare: non troppo rapido perché non tradisse il misfatto, ma nemmeno troppo lento a produrre l’effetto, affinché non accadesse che Claudio nell'approssimarsi dell’istante estremo si rendesse conto dell’inganno e tornasse all’amore del figlio. Ci voleva un farmaco sottile, che sconvolgesse la mente e procurasse una morte lenta. Si scelse allora un’abile avvelenatrice, una certa Locusta, che aveva già subito una condanna per veneficio e da tempo era tenuta tra gli strumenti del regno. Grazie all’abilità di questa donna fu approntato il veleno. A somministrarlo fu un eunuco di nome Aleto, che soleva servire le vivande e assaggiarle per primo.
67. In seguito tutti i particolari furono noti, tanto che gli scrittori del tempo riferirono che il tossico fu iniettato in un ottimo fungo; la violenza del farmaco non fu avvertita subito, sia per l’ottusità di Claudio sia perché era ubriaco; ma sembrò si verificasse a salvarlo un’evacuazione dell’intestino. Agrippina, in preda al terrore che fossero imminenti provvedimenti estremi, senza preoccuparsi del giudizio dei presenti fece ricorso alla complicità, che già s’era assicurata, del medico Senofonte; pare che questi, come se volesse provocargli il vomito, abbia cacciato in gola a Claudio una penna intrisa d’un veleno d’effetto immediato, consapevole che i delitti più tremendi si incominciano pericolosamente, ma si conducono a termine vantaggiosamente.
68. Intanto fu convocato il Senato, consoli e sacerdoti fecero voti per la salute del principe, il quale era già morto e veniva avvolto in panni caldi, per aver tempo di prendere i provvedimenti necessari ad assicurare l’impero a Nerone. Fin dal primo momento Agrippina, come se, affranta dal dolore, cercasse un conforto, stringeva tra le braccia Britannico, lo chiamava vero ritratto del padre e con varii accorgimenti lo tratteneva per impedirgli di uscire dalla camera. Trattenne accanto a sé anche le sorelle di lui, Antonia e Ottavia, mentre, chiusi tutti gli accessi, spargeva la voce che la salute dell’imperatore andava migliorando, affinché i soldati fossero indotti a sperare e giungesse il momento propizio, conforme alle profezie dei Caldei.
69. Finalmente, a metà del terzo giorno prima delle Idi di ottobre, improvvisamente si spalancarono le porte del palazzo e, accompagnato da Burro uscì Nerone e si diresse verso la coorte che, secondo l’uso dei militari, montava la guardia. Qui, conforme agli ordini del Prefetto, fu accolto da grida festose e fatto salire su una lettiga. Dicono che alcuni abbiano esitato e si siano guardati attorno cercando dove fosse Britannico e poi, dato che nessuno si opponeva, si adattarono alla situazione.
Nerone fu portato alle caserme e pronunciò un discorso adatto al momento; promise donativi sull’esempio del padre e fu acclamato imperatore. I senatori si attennero alla volontà dell’esercito e nelle province non vi fu alcuna incertezza. A Claudio furono decretati onori divini e celebrate esequie simili a quelle di Augusto, mentre Agrippina emulava il fasto della bisnonna Livia. Tuttavia non fu pubblicato il testamento per evitare che il fatto d’aver anteposto il figliastro al figlio non offendesse, per l’ingiustizia detestabile, l’animo del popolo.