Nota alla traduzione
I testi dei Commentarii de bello gallico e de bello civili ci sono pervenuti attraverso una vasta tradizione manoscritta, ma la ricchezza della documentazione ha permesso agli studiosi di chiarire solo in parte i dubbi che fraintendimenti, alterazioni, correzioni e probabili interpolazioni presenti nei codici facevano sorgere. La situazione si presentava in origine piuttosto confusa, se si pensa che un’antica tradizione, risalente al V secolo, attribuiva addirittura a Svetonio i Commentarii di Cesare. A partire dalla fine del secolo scorso, soprattutto, si è intensificato lo studio filologico sui codici, i più antichi dei quali risalgono al IX secolo, tanto da pervenire a pregevoli restituzioni del testo come quelle di Pierre Fabre (Parigi 1936) di Alfred Klotz (Lipsia 1950) e infine di Wolfgang Bering (Lipsia 1987).
A tutt’oggi la questione non può dirsi definitivamente conclusa: per ammissione degli stessi studiosi, siamo ora in possesso di un testo delle opere di Cesare che, si potrebbe dire, presenta un alto tasso di attendibilità, ma che non offre, e forse non offrirà mai, dal punto di vista della restituzione, la possibilità di ulteriori progressi.
Per quanto riguarda la presente traduzione, ci siamo basati sul testo stabilito da Alfred Klotz per le edizioni Teubner (Lipsia 1964).
Un «classico» come i Commentarii di Cesare pone il traduttore di fronte a una serie di problemi, che vanno dalla definizione dei criteri secondo i quali impostare la propria «versione», ai doveri imposti dalla presenza del testo a fronte, ai rischi che la semplicità solo apparente della prosa cesariana fa correre a chi, inevitabilmente carico di suggestioni culturali, si avventura nella scattante sintassi e nel limpidissimo lessico dell’autore. La traduzione di un opera letteraria, e in particolare di un’opera della letteratura antica, di un «classico», quando abbia lo scopo di rivolgersi a un vasto pubblico, impone la scelta di un linguaggio e di uno stile che, pur senza tradire nella sostanza la scrittura originaria, sia moderno, piano e, in una parola, di facile lettura. D’altra parte, la presenza del testo latino a fronte suggerisce la necessità di non discostarsene al punto da non permettere di riconoscerne il discorso. Si tratta quindi di operare una mediazione, e la scelta del traduttore si è orientata in tal senso, pur privilegiando talvolta la prima esigenza, nella ricerca di una comunicazione che vada realmente al di là delle barriere culturali (stavo per dire dei pregiudizi) che allontanano tanti giovani dalla lettura.
Nella lettera a Balbo che fa da introduzione al suo scritto, Aulo Irzio, il letterato amico di Cesare autore dell’VIII libro del De bello gallico, dice che «Cesare non aveva soltanto la capacità di esprimersi in uno stile elegantissimo, ma possedeva anche una tecnica accuratissima per l’esatta espressione dei suoi pensieri». Ed è vero. Il traduttore, mentre riconosce nella sobrietà lessicale e sintattica dello scritto cesariano il talento e la tecnica di cui parla Irzio, cerca nella lingua italiana, così vicina al latino, ma al tempo stesso così diversa, la rapidità e la precisione che costituiscono il fascino delle pagine dei Commentarii, destinandosi alla delusione. Un altro rischio è quello di sovrapporre al testo la propria personale interpretazione della figura storica del suo autore, forzando quindi espressioni e concetti. A tutto questo il traduttore non può che opporre una costante vigilanza per non cadere negli errori che falsificano, ma non può neanche, e forse non deve, sottrarsi al proprio sentire, perché ogni traduzione, buona o cattiva che sia, è sempre, in fondo, una riscrittura del testo.
M.P.V.