La guerra contro Giugurta

 

 

 

 

1. L’umanità si lamenta della propria natura, deplorando ch’essa, debole e di breve vita, sia governata dal caso più che dal merito personale. Ebbene, ha torto. Si può ragionare in senso opposto e concludere che non c’è nulla di più grande e di più sublime della natura umana. E ad essa fa difetto piuttosto l’impegno attivo dell’uomo che non la forza o il tempo.

Ma moderatore e guida della nostra vita dev’essere lo spirito: quand’esso muove verso la gloria sulla via della virtù, è assai forte e potente ed illustre, e non ha bisogno della fortuna, che probità, energia ed ogni altra buona qualità non può né dare né togliere a nessuno. Se invece, preso da viziosi appetiti, si lascia andare all’inerzia e ai piaceri dei sensi, dopo breve godimento di rovinose passioni, quando, nell’inazione, si sono esaurite le sue forze e il suo tempo e la sua intelligenza, ecco che si accusa la debolezza dell’umana natura: ciascuno, responsabile personalmente, riversa le proprie colpe sulle circostanze.

Se gli uomini si occupassero seriamente dei veri beni, con lo stesso impegno con cui mirano ad oggetti estranei alla loro natura, completamente inutili – in gran parte, anzi, pericolosi e rovinosi -, non sarebbero governati dal caso, ma il caso governerebbero loro. E giungerebbero a tale grandezza, che, da mortali, la gloria li farebbe eterni.

 

2. L’uomo è composto d’anima e di corpo. E così, tutto ciò ch’è in noi, e tutte le inclinazioni nostre, in parte dipendono dall’anima, in parte dal corpo. Bellezza, ricchezza, ed anche forza fisica ed ogni altro bene di questo tipo, in breve si dileguano; ma i grandi prodotti dello spirito, così come l’anima, sono immortali. Insomma, i beni di natura materiale o procedenti dalla fortuna, come hanno un inizio, così hanno una fine: ciò che nasce, perisce; ciò che si accresce, invecchia. Ma lo spirito, incorrotto, eterno, sovrano dell’umanità, tutto governa e domina, e non è dominato.

Tanto più, dunque, sorprende la depravazione di chi, dedito ai piaceri dei sensi, passa la vita tra mollezze ed inerzia; e lascia che il suo ingegno, la più bella e più grande realtà di questa vita mortale, giaccia nell’ignoranza e nell’apatia, mentre tanti e così vari sono i mezzi di cui dispone lo spirito per acquistarsi la gloria più alta.

 

3. Ma tra essi, cariche pubbliche e comandi militari, insomma ogni forma di attività politica, non mi sembrano proprio, in quest’epoca, desiderabili: al merito non viene reso il debito onore; e chi l’ottiene con la frode, non per questo è più sicuro ed onorevole.

Governare la propria patria e i propri cari ricorrendo alla violenza – ammesso che uno ci riesca e arrivi a correggere le storture – è anche questo pericoloso: si sa bene che ogni sovvertimento politico porta con sé massacri ed esìli ed altre orribili conseguenze. Quanto, poi, al compiere sforzi destinati ad essere infruttuosi, e con essi non raccogliere che odio, è follia bell’e buona. Ammenoché, naturalmente, uno non sia disposto, preso da vituperevole e rovinoso ardore, a sacrificare all’ambizione di pochi l’onore e la libertà propria.

 

4. A parte questo, fra le altre attività dello spirito, una delle più utili è la rievocazione degli avvenimenti passati. Molti hanno già trattato delle benemerenze di quest’attività, per cui non vale la pena di soffermarcisi. Tra l’altro, si potrebbe pensare che della storia, che è la mia passione, io tessa l’elogio per vanità personale. E poiché ho deciso di vivere fuori della politica, non mancherà – già l’immagino – chi definirà attività oziosa questa mia così impegnativa e nobile fatica. Ma saràn quelli, naturalmente, che son convinti che la suprema attività sia quella di corteggiare il popolino e conquistarsene il favore offrendogli qualche pranzo. Costoro, però, se rifletteranno quali valentuomini, quand’io ricoprii qualche carica, non riuscirono ad ottenere altrettanto, e che specie di uomini è invece entrata più tardi in Senato, si dovranno ben rendere conto che ho fatto bene – e non per pigrizia – a cambiare il mio modo di vedere le cose. E capiranno che la Patria trarrà maggior vantaggio dall'inazione mia che dall’azione altrui.

Ho udito spesso ricordare che Fabio Massimo1, e Publio Scipione2, ed altri grandi del nostro Paese, ripetevano che, quando guardavano i ritratti dei loro avi, il loro cuore divampava di amore per la vera grandezza. E naturalmente, non erano i ritratti in se stessi, o l’umile materia di cui erano costituiti, quella che aveva tanta efficacia: era il ricordo dell’operosità passata, quello che alimentava la fiamma nel cuore di quei valentuomini: una fiamma che non si spegneva finché i loro meriti non avessero raggiunto la stessa fama e la stessa gloria. Ora, invece, con l’andazzo dei tempi, non c’è uno che non gareggi con i suoi avi in ricchezza e dispendio anziché in onestà ed operosità. Anche chi si fa strada da sé, mentre prima si sforzava di superare i più nobili col merito personale, ora soltanto per vie traverse e col vero e proprio brigantaggio – anziché con onesta attività – cerca di ottenere comandi e cariche pubbliche. Proprio come se l’ufficio, per esempio, di console o di pretore, fosse glorioso ed onorevole di per sé stesso, e non venisse apprezzato in base al merito di chi lo ricopre.

Ma ho divagato troppo, ed ora rientro in argomento. Il fatto è che la condotta della mia città desta in me un senso di vergogna e di rincrescimento.

 

5. Narrerò la guerra che Roma fece contro Giugurta, re di Numidia: anzitutto perché fu una guerra assai impegnativa, massacrante, e con alterne vicende; e poi perché in quell’occasione, per la prima volta, ci si oppose al prepotere della vecchia classe dirigente. Fu una lotta che sconvolse ogni legge umana e divina, e giunse a tale follia, che solo la guerra di devastazione dilagata in Italia pose fine alle discordie civili.

Ma prima di passare a trattare questa vicenda, voglio risalire un po’ più indietro, perché tutto sia più chiaro e comprensibile. Nella seconda guerra Punica – quella in cui il generale cartaginese Annibale aveva, più d’ogni altro da quando si era affermata la grandezza di Roma, logorato la potenza d’Italia – Massinissa, re di Numidia, accolto nell’amicizia romana3 da Publio Scipione (che poi, per i suoi meriti, ebbe l’appellativo di Africano), si era luminosamente distinto in molte azioni di guerra. Per questo, dopo la vittoria sui Cartaginesi e la cattura di Sifàce, che aveva in Africa un potente e vasto dominio, Roma fece dono a quel re di tutte le città e territori di cui era venuta in possesso4. Così l’amicizia di Massinissa rimase per noi salda e leale. Ma con la sua morte finì anche il suo regno.

Poi il potere passò a suo figlio Micipsa, che regnò da solo, dopo la fine dei suoi fratelli Mastanàbale e Gulussa, morti di malattia.

Egli ebbe due figli, Adèrbale e Ièmpsale. Ma tenne anche, in casa sua, alla stessa stregua dei figli, il nipote Giugurta, figlio di suo fratello Mastanàbale, che Massinissa aveva invece lasciato in disparte perché figlio naturale.

 

6. Giugurta, cresciuto che fu, robusto, bello, ma soprattutto intelligentissimo, non si lasciò corrompere dalle mollezze e dall’ozio, anzi, come usano i Nùmidi, si diede a cavalcare, a tirar di giavellotto, a far gare di corsa con i coetanei. E sebbene su tutti riuscisse vittorioso, pure era amato da tutti. Inoltre, passava la maggior parte del suo tempo nella caccia, colpiva per primo, o fra i primissimi, leoni ed altre bestie feroci. Agiva molto, ma parlava poco di sé.

Micipsa, dapprima, era stato lietissimo di ciò, perché era convinto che il valore di Giugurta avrebbe fatto onore al suo regno. Ma quando si rese conto che il giovane cresceva e si affermava ogni giorno di più, mentre egli era vecchio e piccoli i suoi figli, preoccupato non poco dalla situazione, cominciò a riflettervi continuamente.

Lo spaventava la stessa natura umana, avida di dominio e smaniosa di saziare questa brama; poi, l’occasione offerta a quel giovane dall’avanzata età sua e dalla tenera età dei suoi figli: circostanza capace di trascinare sulla cattiva strada – facendo balenare la speranza di vantaggi materiali – anche uomini di media levatura. Lo preoccupavano, per di più, le calde simpatie di cui Giugurta godeva tra i Nùmidi: s’egli avesse fatto uccidere a tradimento un simile uomo, c’era il rischio che ne venisse fuori una rivolta o addirittura una guerra civile.

 

7. Preso tra queste difficoltà, Micipsa, quando vide che un uomo così caro alla popolazione non si poteva schiacciare né con la forza né con l’inganno, e poiché Giugurta era prode e gagliardo, e assetato di gloria militare, decise di esporlo ai pericoli e di tentare la fortuna in questo modo.

Così, durante la guerra contro Numanzia, nell’inviare ai Romani rinforzi di cavalleria e di fanteria, fidando che Giugurta cadesse facile vittima della sua audacia guerriera o della violenza nemica, gli affidò il comando del contingente di Nùmidi che inviava in Ispagna.

Ma le cose andarono ben diversamente da come egli pensava. Giugurta, con la sua intelligenza pronta ed acuta, appena ebbe capito l’indole di Publio Scipione5 – capo, in quel momento, dell’esercito romano – e la tattica del nemico, a furia di fatica e d’impegno, ed anche obbedendo senza discussione agli ordini ed esponendosi continuamente ai pericoli, aveva raggiunto rapidamente una tale celebrità, da divenire l’idolo dei nostri e il terrore dei Numantini.

A onor del vero, egli riuniva in sé il valore del soldato e la saggezza del consigliere, mentre ciò in genere è estremamente difficile a realizzarsi, perché questa trasforma la prudenza in timore, quello l’audacia in temerità.

Il generale affidava dunque a Giugurta l’esecuzione di ogni impresa difficile, lo considerava un amico, e lo aveva caro ogni giorno di più. Ed era naturale che così fosse, visto che non c’era suo consiglio o impresa che non andasse a buon fine.

In più, aveva generosità d’animo e vivacità di spirito, che gli avevano accattivato l’affettuosa amicizia di molti Romani.

 

8. C’erano in quel tempo nel nostro esercito parecchi uomini – alcuni, che si eran fatti da sé, altri, di antiche tradizioni – che preferivano essere ricchi piuttosto che galantuomini e rispettati. Gente faziosa in Roma, potente tra gli alleati, circondata di notorietà più che di vera stima. Costoro solleticavano l’ambizione di Giugurta, promettendogli che, una volta uscito dalla scena Micipsa, egli avrebbe tenuto da solo il regno di Numidia: meriti personali, egli ne aveva moltissimi, e a Roma tutto si poteva comprare.

Ma Scipione, quando, distrutta Numanzia, decise di congedare i rinforzi inviatigli e di tornare a Roma anche lui, prima colmò Giugurta, al cospetto di tutti, di magnifici doni ed elogi, poi lo condusse al suo quartier generale, e lì, in separata sede, gli consigliò di coltivare l’amicizia di Roma in via ufficiale piuttosto che in forma privata, e di non prendere l’abitudine di largheggiare in doni coi cittadini romani: è pericoloso comprare da pochi ciò che appartiene a tutti. Se intendeva continuare ad essere quel valentuomo che era, la gloria ed il regno gli sarebbero venuti da sé; se invece voleva andar troppo in fretta, il suo stesso denaro lo avrebbe precipitato a rovina.

 

9. Poi lo congedò, con una lettera da consegnare a Micipsa. Il tenore era press’a poco questo:

«Il tuo Giugurta, nella guerra contro Numanzia, ha mostrato eccezionale valore. Son certo che ciò ti farà piacere. I suoi meriti ce lo rendono caro. Faremo di tutto perché anche a Roma condividano questo sentimento. Con te mi congratulo, in nome della nostra amicizia. Ecco che hai un uomo degno di te e del suo avo Massinissa».

Il re, avuta, dalla lettera del generale, conferma di quanto era giunto al suo orecchio, impressionato dal valore del giovane e dal favore di cui godeva, fece forza a sé stesso e cercò di disarmarlo colmandolo di benefici. Per cominciare, lo adottò; e nel testamento lo istituì erede alla pari coi figli.

Pochi anni dopo, però, prostrato dagli anni e dalle malattie, sentendo ormai prossima la fine, alla presenza di amici e parenti e dei figli Adèrbale e Ièmpsale, a quanto si dice, parlò a Giugurta in questi termini:

 

10. «Tu eri piccolo, Giugurta, orfano, senza speranze e senza mezzi, ed io ti accolsi alla mia corte: confidavo che tu, ricambiandomi il beneficio, mi avresti amato come un figlio mio, se mai ne avessi avuti.

E non mi sono ingannato. Per non parlare delle altre tue prove di valore, recentemente, tornando da Numanzia, hai coperto di gloria me stesso e il mio regno. Per merito tuo i Romani, già nostri amici, ci sono ora amicissimi. In Ispagna il nome della nostra famiglia ha rinnovato il suo lustro. Per di più, la tua gloria ha avuto ragione dell’invidia: e questo, tra gli uomini, è un grande primato.

Ora che la natura pone fine alla mia vita, in nome di questa destra ti prego, ti supplico in nome della lealtà dovuta al mio trono, che tu abbia cari questi figliuoli, tuoi cugini per vincoli naturali, ma tuoi fratelli per beneficio mio. Non legare a te degli estranei: tièniti accanto loro, piuttosto, a te legàti dal vincolo del sangue. La difesa di un trono non sono gli eserciti, né i tesori, bensì gli amici: questi, non ci son armi né oro che possano procurarteli: si acquistano solo coi servigi e con la lealtà. E non c’è amico più amico di un fratello al fratello. In quale estraneo potrai fidare, se sarai nemico dei tuoi?

Io vi lascio un trono, che sarà saldo se agirete bene, ma debole se agirete male. La concordia dà incremento a ciò ch’è piccolo, la discordia anche ciò ch’è più grande dissolve.

Ebbene, a te, Giugurta, prima che a costoro, a te, che sei maggiore di loro per età e per saggezza, spetta provvedere che tutto ciò proceda così. Perché, in ogni lotta, chi è più potente, anche se è lui l’offeso, proprio perché è più forte passa per l’offensore.

E voi, Adèrbale e Ièmpsale, rispettate e onorate un simile uomo; emulàtene il valore, e fate in modo che non si dica che sono migliori i figli che ho adottato, di quelli che io stesso ho generato».

 

11. Giugurta capiva benissimo che il discorsetto del re era tutt’altro che sincero, e personalmente aveva ben altre mire. Tuttavia rispose gentilmente, come la circostanza voleva.

Pochi giorni dopo, Micipsa moriva.

Dopo che gli ebbero reso, con tutta magnificenza, gli onori dovuti ad un re, i tre principi si riunirono per discutere del complesso della situazione.

Ebbene, Ièmpsale, il più giovane, carattere orgoglioso, che già da tempo disprezzava Giugurta per la sua inferiorità di nascita dal lato materno, si sedette alla destra di Adèrbale, per impedire che Giugurta si trovasse in mezzo agli altri due, posizione che in Numidia è considerata un onore. Poi, però, sollecitato dal fratello ad inchinarsi all’età, di mala voglia passò dall’altro lato.

Si discussero molte questioni di carattere amministrativo, finché Giugurta, tra le altre proposte, lanciò l’idea che si dovessero abrogare tutte le leggi e i decreti dell’ultimo quinquennio, giacché, secondo lui, in quel periodo, Micipsa, fiaccato dall’età, non era stato pienamente responsabile. Sùbito Ièmpsale dichiarò che approvava la proposta, facendo notare che appunto tre anni prima Giugurta stesso era giunto a condividere il trono, mediante l’adozione.

Queste parole ferirono l’animo di Giugurta più profondamente di quanto si pensasse. Da quel momento, in preda all’ira e alla paura, cominciò a macchinare, a predisporre e a pensare soltanto in che modo potesse cogliere a tradimento Ièmpsale. Le cose andavano però per le lunghe e il suo animo orgoglioso non aveva pace. Decise allora di farla finita ad ogni costo.

 

12. Nel primo convegno dei principi, che or ora ho ricordato, per i dissensi che erano sorti, si era deciso di dividere in tre parti i tesori di Micipsa, e di assegnare a ciascuno degli eredi un determinato territorio da governare.

Si fissò una scadenza per la conclusione di entrambi gli affari, dando la precedenza alla divisione del denaro. Nell’attesa, i principi si ritirarono ciascuno per conto suo, ma in prossimità dei tesori.

Ièmpsale, per combinazione, alloggiava a Tirmida6 in una casa del primo littore di Giugurta, che lo aveva sempre avuto carissimo.

A quest’uomo, che il caso gli offriva come strumento dei suoi piani, Giugurta fa mille promesse, e lo induce ad entrare in quella casa col pretesto di vedere la sua proprietà, e a preparare delle chiavi false (giacché quelle vere venivano puntualmente consegnate a Ièmpsale); poi, al momento opportuno, egli stesso, Giugurta, sarebbe venuto con un buon pugno di uomini.

Il Nùmida eseguì ben presto l’incarico, e, secondo le istruzioni, una notte fa entrare i soldati di Giugurta. Questi irrompono nella casa e qua e là cercano il re. Uccidono alcuni nel sonno, altri mentre reagiscono. Frugano i nascondigli, forzano le serrature, mettono tutto a soqquadro fra strepito e grida.

Finalmente si trova Ièmpsale, rintanato nello sgabuzzino di una schiava, dove fin da principio si era rifugiato in preda alla paura e poco pratico della casa. I Nùmidi, come era stato loro ordinato, portano la sua testa a Giugurta.

 

13. Ma la notizia di tale enormità si diffonde rapidamente per tutta l’Africa. Adèrbale, e tutti quelli che erano stati sudditi di Micipsa, sono colti dalla paura. I Nùmidi si dividono in due partiti: più numerosi quelli che stanno per Adèrbale, ma più valenti soldati quelli che stanno per l’altro.

Giugurta, allora, arma il maggior numero possibile di truppe, e, volenti o nolenti, include nel suo dominio parecchie città, deciso a regnare su tutta la Numidia.

Adèrbale, dal canto suo, non manca di inviare a Roma una sua delegazione, ad informare il Senato dell’uccisione del fratello e della situazione in cui si trovava egli stesso; tuttavia, contando sul numero dei soldati di cui disponeva, si preparava alla lotta armata. Ma quando si venne a battaglia, fu sconfitto, e si rifugiò dapprima nella provincia d’Africa, e poi a Roma.

Intanto Giugurta, attuato il suo piano, padrone ormai di tutta la Numidia, rifletteva tranquillamente sulla sua azione. Lo preoccupava Roma; e l’unica speranza di fronte allo sdegno di essa l’aveva nell’avidità della classe dirigente romana e nel proprio denaro.

Perciò, nel giro di pochi giorni, inviò a Roma degli incaricati, con molto oro ed argento. Le istruzioni sono, anzitutto, di colmare di doni i vecchi amici, e poi di cercarne di nuovi: insomma, di agire prontamente a predisporre ogni possibile appoggio, distribuendo denaro.

Ebbene, quando gli incaricati furono a Roma, e secondo le istruzioni ebbero inviato grandi doni a quanti erano legati al re da vincoli di ospitalità, e ad altri personaggi allora assai influenti in Senato, ci fu un tale capovolgimento, che Giugurta, da odiatissimo che era, entrò nelle grazie e nel favore dell’aristocrazia romana. Alcuni, sedotti dalle speranze, altri dal denaro, si diedero da fare circuendo singoli senatori, perché non si prendessero provvedimenti troppo severi nei confronti di Giugurta.

E quando ormai gli incaricati del re nutrivano sufficiente fiducia, fissata la data, il Senato diede ufficialmente udienza alle due parti. In quell’occasione ci risulta che Adèrbale parlò in questi termini:

 

14. «Signori Senatori, mio padre Micipsa, morendo, mi avvertì che del regno di Numidia io dovevo considerarmi procuratore, mentre l’autorità legittima era vostra; dovevo sforzarmi, in pace e in guerra, di rendermi utile il più possibile al Popolo Romano; dovevo considerare voi miei parenti di sangue o con me imparentati: se tutto ciò avessi fatto, avrei trovato nella vostra amicizia eserciti, ricchezza, e presidio al mio regno. Mentre applicavo questi avvertimenti paterni, Giugurta, l’uomo più scellerato che vi sia sulla faccia della terra, in dispregio della vostra autorità, mi ha spogliato del regno e di tutti i miei beni, me, nipote di Massinissa, avito alleato ed amico del Popolo Romano.

Io, Signori Senatori, poiché a tanta sventura dovevo giungere, avrei preferito dovervi chiedere aiuto in nome di benefìci miei, anziché dei miei avi, o meglio, che il Popolo Romano mi dovesse dei benefici, di cui non avessi bisogno; o almeno, se proprio dovevo averne bisogno, avrei preferito avere ad essi diritto.

Ma poiché l’onestà, da sola, ha scarsa difesa, e non dipendeva da me che specie di uomo dovesse divenire Giugurta, ricorro a voi, Signori Senatori, a cui, purtroppo per me, son costretto ad essere prima di peso che di aiuto.

Gli altri re, o sono stati accolti nella vostra amicizia dopo una sconfitta, o nell’ora del pericolo hanno sollecitato la vostra alleanza. La nostra famiglia ha stretto vincoli di amicizia col Popolo Romano durante la guerra contro Cartagine, in un momento in cui si poteva fare appello piuttosto alla lealtà di Roma che alla sua buona sorte.

Non lasciate ora, Signori Senatori, che la discendenza di quegli uomini, che io, nipote di Massinissa, chieda invano il vostro aiuto. Se anche ad ottenerlo non avessi altro titolo che la mia misera sorte – io che, poco fa sovrano potente per nascita, e fama, e ricchezza di mezzi, ora, sfigurato dalle sventure, privo di tutto, aspetto il soccorso straniero -, pure, sarebbe degno della maestà di Roma impedire l’offesa e non tollerare che alcuno ingrandisca il suo regno ricorrendo al delitto.

Ma in realtà io sono stato scacciato da un territorio che ai miei avi ha donato lo stesso Popolo Romano, un territorio da cui mio padre e il mio avo, insieme con voi, hanno scacciato Sifàce e i Cartaginesi. È il vostro beneficio, quello che ora mi è tolto, Signori Senatori! Siete voi gli oltraggiati, nell’offesa fatta a me!

allimè! Che fine hanno fatto, Micipsa, padre mio, i tuoi benefìci? L’uomo che tu hai posto alla pari coi tuoi figli e che hai fatto partecipe del trono, proprio lui è il distruttore della tua stirpe! Non avrà mai pace la nostra famiglia? Dovrà sempre vivere nel sangue, nella guerra, nell’esilio?

Finché Cartagine era in piedi, era giusto che patissimo ogni male. I nemici erano al nostro fianco; voi, gli amici, lontani: ogni speranza era riposta nelle armi. Ma poi che dall’Africa fu eliminato quel bubbone, vivevamo felici la nostra pace: nessun nemico avevamo, se non quello che ci avreste dato voi stessi.

Ed ecco che all'improvviso Giugurta, con intollerabile audacia, elevandosi col delitto e con l’insolenza, ha ucciso mio fratello – suo cugino! – e si è preso anzitutto il suo regno come preda del delitto. Poi, non riuscendo a prendere anche me nella stessa trappola – me che, sotto la protezione del vostro impero, tutto mi aspettavo tranne la violenza e la guerra – ha fatto di me un esule, privo di ogni mezzo, sommerso dalle sventure, più al sicuro in ogni altro luogo che nel mio stesso regno.

Io ero convinto, Signori Senatori, come sentivo ripetere da mio padre, che chi coltivasse fedelmente la vostra amicizia, si assumesse sì un grave onere, ma fosse al sicuro più di ogni altro. La nostra famiglia, per quanto da essa dipendeva, è stata sempre al vostro fianco in tutte le guerre: ora dipende da voi, Signori Senatori, la sicurezza nostra in tempo di pace.

Nostro padre ha lasciato due figli, me e mio fratello, e ha ritenuto che un terzo, Giugurta, per i benefici ricevuti, si sarebbe sentito a noi vincolato. Uno è stato ucciso, dell’altro a mala pena ho schivato la mano sacrilega.

Che fare? A chi ricorrere, misero me? Ogni sostegno della mia famiglia è ormai caduto: mio padre, come era fatale, ha ceduto alla legge di natura; a mio fratello ha strappato la vita, ricorrendo al delitto, proprio il parente da cui meno ci si doveva aspettarlo. I miei parenti prossimi e lontani, i miei amici, tutta la gente mia, sono caduti sotto diversi colpi: catturati da Giugurta, alcuni sono stati crocifissi, altri gettati in pasto alle belve. Pochi, lasciati vivi, rinchiusi in locali tenebrosi, trascinano nel dolore e nel pianto una vita peggiore della morte.

Anche se tutto ciò che ho perduto, tutto ciò che da naturale amico mi si è fatto nemico, fosse salvo, pure, se qualche avversità improvvisa mi avesse colpito, voi stessi implorerei, Signori Senatori, che, in nome della maestà del vostro impero, dovete tutelare il diritto e punire ogni offesa.

Ed ora, esule dalla patria, solo e privo di ogni onore, a chi dovrei rivolgermi? A chi appellarmi? Ai popoli e ai sovrani che, per la nostra amicizia per voi, sono tutti ostili alla nostra famiglia? C’è luogo in cui io possa recarmi, ove non siano innumerevoli ricordi delle lotte dei miei avi? Può aver pietà di noi alcuno, che sia stato un giorno vostro nemico?

Del resto, Massinissa ci ha insegnato, Signori Senatori, a non onorare se non il Popolo Romano, e a non accettare altre alleanze o trattati: sufficiente difesa avremmo avuto nella vostra amicizia.

Se la fortuna dovesse volgere le spalle a questo impero, noi dovremmo perire con esso. Ma grazie al vostro valore e alla benevolenza degli dèi, voi siete grandi e potenti: tutto a voi riesce, tutto a voi s’inchina. Facilmente, perciò, potete riparare le offese fatte ai vostri alleati.

Una cosa soltanto io temo: che alcuni di voi siano fuorviati da un’amicizia con Giugurta, fondata sul malinteso. Mi si dice che costoro facciano di tutto, circuendovi e sollecitandovi uno per uno, per evitare che prendiate qualche decisione in assenza di quell’uomo e senza avere approfondito la questione. Dicono che mento e che il mio esilio sia una commedia, mentre avrei potrei rimanere nel mio regno. Oh! Magari potessi io vedere quell’uomo, il cui empio delitto mi ha gettato in tale miseria, fingere come fingo io! Oh, se un giorno, tra voi o tra gli dèi immortali, si cominciasse a pensare alle cose umane! Allora costui, che oggi dei suoi delitti è così fiero e orgoglioso, pagherebbe coi più atroci tormenti la dura pena dell'ingratitudine verso nostro padre, dell’uccisione di mio fratello, e delle mie stesse sciagure.

Quasi quasi, fratello mio diletto, sebbene prematuramente e da chi meno doveva ti sia stata strappata la vita, credo che la tua sorte debba essere invidiata piuttosto che pianta. Non un regno tu hai perduto insieme con la vita, ma la fuga, l’esilio, la miseria, e tutti questi dolori che mi schiacciano. Io, sventurato!, precipitato dal trono di mio padre in così gravi sciagure, offro spettacolo delle umane vicissitudini; incerto sul da fare: se vendicare l’oltraggio fatto a te, mentre io stesso ho bisogno d’aiuto, o pensare al mio regno, mentre la mia facoltà di vita o di morte dipende dall’aiuto altrui.

Oh, se fosse la morte un’onorevole fine delle mie sventure, e non subissi un giusto disprezzo se, stanco dei mali, io capitolassi di fronte all’ingiustizia! Ora, invece, vivere non voglio, morire non posso senza disonore.

Signori Senatori, in nome di voi stessi, dei vostri figli e genitori, della maestà di Roma, aiutate quest’infelice, reagite all’ingiustizia, non lasciate che nel delitto, nel sangue della nostra famiglia, si disfaccia il regno di Numidia, che a voi stessi appartiene!».

 

15. Concluso il discorso del re, gli inviati di Giugurta, fidando più nelle largizioni che nella bontà della causa, risposero brevemente: Ièmpsale era stato ucciso dai Nùmidi per la sua crudeltà, e Adèrbale, che per primo aveva scatenato la guerra, una volta vinto si lagnava di non essere riuscito a perpetrare il suo crimine. Giugurta chiedeva al Senato che non lo immaginassero diverso da come lo avevano conosciuto a Numanzia; e non anteponessero i fatti ch’egli presentava, alle chiacchiere del suo avversario.

Poi, le due parti in causa escono dalla Curia. Il Senato inizia immediatamente la discussione. I sostenitori degli inviati di Giugurta, e gran parte del Senato, facendo valere la loro influenza corrotta, giudicarono con disprezzo le parole di Adèrbale e portarono alle stelle i meriti di Giugurta. Con l’influenza, con la parola, con tutti i mezzi, insomma, si adoperarono per l’infame delitto altrui, come se si trattasse della gloria propria.

Ben pochi, invece, cui il bene e la giustizia eran più cari del denaro, proponevano di aiutare Adèrbale e di vendicare severamente la morte di Ièmpsale: più di ogni altro, Emilio Scàuro7, nobile, attivo, intrigante, avido di potere, di onori, di ricchezza, ma abile a nascondere i suoi difetti. Costui, constatando le scandalose e impudenti elargizioni del re, e temendo che, come succede in simili casi, l’indecoroso abuso suscitasse un’ondata di odio, si trattenne dalla consueta rapacità.

 

16. In Senato, però, prevalsero quelli per i quali la verità passava in secondo piano rispetto al denaro e al potere. Si decretò che una commissione di dieci uomini dividesse tra Giugurta e Adèrbale quello che era stato il regno di Micipsa. Presiedeva la delegazione Lucio Opimio8, un senatore divenuto famoso e potente, perché da console, dopo l’uccisione di Gaio Gracco e di Marco Fulvio Flacco, aveva esercitato spietatamente la vittoria dell’aristocrazia sulle plebe.

A costui Giugurta, sebbene a Roma fosse stato uno dei suoi avversari, riservò un’accoglienza piena di attenzioni, e con grandi doni e promesse ottenne che egli posponesse la sua reputazione, il suo onore, insomma tutto sé stesso, agli interessi del re. La maggior parte degli altri delegati, affrontati col medesimo sistema, si lasciarono prendere anch’essi. Ben pochi tennero più al loro onore che al denaro.

Così, nella divisione, la zona della Numidia confinante con la Mauritania9, più ricca di terre e di uomini, venne assegnata a Giugurta; l’altra, migliore in apparenza più che in sostanza, più ricca di porti e di begli edifici, l’ebbe Adèrbale.

 

17. A questo punto s’impone, mi sembra, una breve esposizione della geografia dell’Africa e un cenno a quei popoli che abbiamo avuto nemici od amici. Veramente, delle zone e delle genti che il calore o l’impraticabilità del suolo, o il deserto, rende poco accessibili, difficilmente potrei dire qualcosa di sicuro. Quanto al resto, sarò più breve possibile.

I più dividono la terra in tre parti, considerando l’Africa la terza di esse; pochi considerano solo l’Asia e l’Europa, comprendendo l’Africa nell’Europa. Essa è limitata ad ovest dallo stretto che unisce il Mediterraneo all’Oceano, ad est dalla vasta spianata digradante, che gli abitanti del luogo chiamano Catabathmos10.

Il mare è tempestoso, privo di porti. Fertile il terreno, adatto al bestiame, ma privo di alberi. In cielo e in terra c’è scarsità d’acqua. L’elemento umano è sano, agile, resistente alla fatica. Quasi tutti muoiono di vecchiaia, tranne chi rimane vittima di un’arma o delle belve: è raro che li vinca una malattia. Animali pericolosi ce n’è poi un grandissimo numero.

Quali siano stati i primi abitanti dell’Africa, quali vi siano successivamente immigrati, e come si fusero tra loro, benché quanto dirò differisca dall’opinione più diffusa, tuttavia esporrò sull’argomento, più brevemente possibile, l’interpretazione a me fornita dai libri in cartaginese attribuiti al re Ièmpsale11, che concorda con le convinzioni locali. La responsabilità delle affermazioni resterà ai loro autori.

 

18. L’Africa fu occupata inizialmente dai Getùli e dai Libici12, barbari e selvaggi, che si cibavano della carne delle bestie feroci, e delle biade del suolo, come gli armenti. Non avevano istituzioni né leggi né autorità di capo che li guidasse: nomadi e dispersi, si fermavano dove la notte li coglieva.

Dopo la morte di Ercole, avvenuta in Ispagna, secondo l’opinione degli Africani, il suo esercito, composto da popoli diversi, perduto il suo capo, mentre molti, qua e là, pretendevano ciascuno il comando, ben presto si disgregò.

Tra quei popoli, i Medi, i Persiani e gli Armeni, passati per mare in Africa, si stanziarono nelle zone più vicine al nostro mare13. In particolare, i Persiani si stabilirono più verso l’Oceano, e con le chiglie rovesciate delle loro navi si fecero delle capanne: non c’era legname nei campi, né possibilità di acquistarlo dalla Spagna, magari con scambio di merci. La vastità del mare e l’ignoranza della lingua erano ostacolo al commercio.

Un po’ alla volta, per via di matrimoni, si fusero coi Getùli, e, poiché spesso passavano da un luogo all’altro in cerca di terreno adatto, si diedero il nome di Nòmadi. Ancor oggi, del resto, le abitazioni dei contadini Nùmidi – che essi chiamano «mapàlia» – di forma allungata, coperte da fiancate ricurve, ricordano gli scafi delle navi.

Ai Medi e agli Armeni si unirono invece i Libici – che vivevano presso le coste del mare d’Africa, mentre i Getùli erano più a sud, non lontano dalla zona torrida – e ben presto ebbero delle vere e proprie cittadelle, e, poiché soltanto lo stretto li separava dalla Spagna, stabilirono relazioni commerciali con essa. I Libici, intanto, a poco a poco falsarono il loro nome, chiamandoli nella loro lingua Màuri, anziché Medi14.

La potenza dei Persiani crebbe rapidamente, e più tardi, col nome di Nùmidi, un gruppo di essi, staccatosi dai loro padri sotto la spinta della sovrappopolazione, occuparono la zona che, prossima a Cartagine, si chiama attualmente Numidia. Poi i due gruppi, sostenendosi reciprocamente, con le armi e con la paura sottomisero i popoli confinanti e accrebbero la loro reputazione e la loro gloria, soprattutto quelli che si erano spinti fino al nostro mare: perché i Libici sono meno combattivi dei Getùli. Infine, quasi tutta la parte settentrionale dell’Africa fu occupata dai Nùmidi. E tutti i popoli vinti si fusero coi dominatori assumendone il nome.

 

19. Più tardi i Fenici, un po’ per alleggerire l’eccesso di popolazione del paese, un po’ per spirito di conquista, facendo pressione sul popolino e su altri avventurieri, fondarono, sulla costa, Ippòna, Adrumèto, Leptis, ed altre città, che rapidamente prosperarono, a sostegno e vanto della madrepatria15.

Quanto ai Cartaginesi, è meglio tacere che trattarne frettolosamente, giacché il tempo stringe a passare ad altro.

Al di là del Catabathmos, che separa l’Egitto dall’Africa, lungo la costa prima v’è Cirene, colonia di Tere, poi le due Sirti, e, tra l’una e l’altra, Leptis, poi gli altari dei Filèni, che segnavano il punto di confine dell’impero cartaginese, dalla parte dell’Egitto, poi altre città puniche16. Tutto il resto, fino alla Mauritania, è Numidia. I più vicini alla Spagna sono appunto i Mauritani.

A sud della Numidia ci risulta che vivano i Getùli, parte in capanne, altri, più selvaticamente, da nomadi. Più giù vi sarebbero gli Etiopi. Poi, zone riarse dal calore del sole.

Ebbene, al tempo della guerra contro Giugurta, Roma amministrava per mezzo dei suoi magistrati la maggior parte delle città pùniche e gli ultimi territori che più recentemente avevano occupato i Cartaginesi. Gran parte della Getùlia e della Numidia, sino al fiume Mulucca17, era sotto Giugurta. Su tutta la Mauritania regnava il re Bocco, che conosceva Roma soltanto di nome, e di cui altrettanta inesperienza avevamo noi sia in guerra sia in pace.

Dell’Africa e dei suoi abitanti, per le nostre esigenze può bastare quanto si è detto.

 

20. Suddiviso il regno, la delegazione romana lasciò l’Africa. E Giugurta, contrariamente ai suoi segreti timori, si vide in possesso dei frutti del suo delitto. Convinto, perciò, della verità di quanto aveva appreso dai suoi amici a Numanzia, che a Roma tutto si poteva comperare, acceso, per di più, dalle promesse di quelli che poco prima aveva colmato di doni, diresse le sue mire verso il regno di Adèrbale.

Personalmente, egli era energico e bellicoso; l’altro, contro cui moveva, tranquillo, pacifico, bonaccione, facile oggetto di prepotenze, timoroso più che temibile.

Improvvisamente, dunque, Giugurta, con un buon pugno d’uomini penetra nel suo territorio, cattura parecchie persone, insieme con bestiame ed altro bottino; dà fuoco agli edifici, si spinge da vero nemico, con la cavalleria, nella maggior parte del paese. Dopo di che, con tutta la sua masnada, rientra nel suo regno, convinto che Adèrbale, spinto dal risentimento, avrebbe vendicato l’offesa a mano armata, e questo avrebbe potuto costituire un ottimo casus belli.

L’altro, invece, non ritenendosi all’altezza di reagire con le armi, e contando più sull’amicizia di Roma che sui Nùmidi, invia a Giugurta una delegazione incaricata di una formale protesta per la violazione. Ma nonostante che i suoi inviati gli riportassero una risposta offensiva, preferì sopportare ogni cosa piuttosto che impegnarsi in una guerra che, tentata precedentemente, era stata un fallimento.

Non per questo la bramosia di Giugurta diminuiva: anzi, in cuor suo, egli si era già impadronito di tutto il regno di Adèrbale. Ecco allora che non, come prima, con un pugno di predoni, ma allestendo un grande esercito, iniziò la guerra e l’aperta aggressione a tutto il regno di Numidia. Dovunque passava, non trascurava però di devastare città e campagne e di far bottino, infondendo sempre maggiore ardire nei suoi, e maggior paura nei nemici.

 

21. Adèrbale, quando si rese conto che la situazione era giunta al punto ch’egli doveva abbandonare il suo regno o difenderlo con le armi, cedendo alla necessità, prepara un esercito e affronta Giugurta.

Ed ecco che i due eserciti si attestarono non lontano dalla costa, nei pressi di Cirta18. E poiché era ormai sera, la battaglia non ebbe luogo. Ma sul finire della notte, quando ancora era buio, le truppe di Giugurta, a un dato segnale, irrompono nel campo nemico.

Chi era mezzo addormentato, chi tentava di impugnare le armi: fu una fuga e uno sbandamento generale. Adèrbale, con pochi a cavallo, cercò rifugio a Cirta; e se la folla dei civili non avesse fermato alle mura della città i Nùmidi inseguitori, in un sol giorno si sarebbe iniziata e conclusa la guerra tra i due re.

Giugurta, allora, pone l’assedio alla città e si accinge ad espugnarla ricorrendo alle «vigne»19, alle torri e ad ogni altro ordigno di guerra: gli premeva moltissimo prevenire l’azione dei delegati che sapeva inviati a Roma da Adèrbale prima della battaglia.

Il Senato, quando seppe della guerra, inviò in Africa tre giovincelli con l’incarico di avvicinare entrambi i re e di riferire che il governo di Roma voleva e disponeva che essi deponessero le armi: delle loro controversie discutessero per via diplomatica e non con la guerra: così esigeva l’onore di Roma e degli stessi due re.

 

22. I delegati si recano in Africa in tutta fretta, tanto più che, mentre stavano per partire, giungeva notizia dell’avvenuta battaglia e dell’attacco sferrato contro Cirta: ma si trattava ancora di voci smorzate.

Giugurta ascoltò il loro discorsetto e rispose che nulla era per lui più importante, né gli era più caro, dell’autorità del Senato; fin dalla prima giovinezza egli si era sforzato di meritare l’approvazione dei migliori; di quel grand’uomo che era stato Publio Scipione egli era riuscito a guadagnarsi la stima con i suoi meriti e non con la ribalderìa. Per queste stesse qualità era stato da re Micipsa adottato a succedergli al trono, non certo perché Micipsa mancasse di figli. D’altronde, quanto più grande e più forte era stato il suo operare, tanto meno il suo cuore poteva sopportare l’offesa. Adèrbale aveva attentato proditoriamente alla sua vita; ed egli, appena lo aveva saputo, aveva parato il colpo. Roma non avrebbe agito né bene né giustamente, impedendo a lui di esercitare il diritto delle genti. In ogni modo, egli avrebbe presto inviato a Roma una sua delegazione per discutere di tutta la questione.

Così le due parti si separarono. Con Adèrbale non si riuscì ad avere un colloquio.

 

23. Giugurta, quando ritenne che gli inviati di Roma avessero lasciato l’Africa, non riuscendo ad espugnare Cirta con le armi data la posizione naturale della città, circondò tutta la muraglia con una palizzata e un fossato, eresse delle torri, ben presidiate, e notte e giorno tentò con la forza o con l’astuzia. Coi difensori delle mura usava ora promesse ora minacce. Ai suoi rinfrancava il morale con parole di esortazione. Insomma, a tutto provvedeva col massimo impegno.

Adèrbale si rese conto che la situazione era disperata: il nemico era deciso a distruggerlo, speranza di aiuto non c’era, e per mancanza di approvvigionamenti non si poteva tirare in lungo la guerra. Scelse dunque, tra quelli che con lui avevano trovato rifugio a Cirta, i due uomini più svegli, e con molte promesse, piangendo sulla sua sorte, li decise a passare nottetempo attraverso le linee nemiche, per giungere al vicino mare e di lì a Roma.

 

24. I Nùmidi in pochi giorni eseguirono l’incarico. Fu letto in Senato il messaggio di Adèrbale, che diceva press’a poco così:

«Non è per mia colpa s’io vi mando spesso a pregare, Signori Senatori: mi costringe a ciò la violenza di Giugurta, così bramoso della mia rovina, che non considera più né voi né gli dèi immortali, e vuole soltanto il mio sangue. Già da quattro mesi io, alleato ed amico di Roma, sono tenuto in scacco dalle sue armi. E a nulla mi valgono le benemerenze di mio padre Micipsa e i vostri decreti. Non saprei dire se più il ferro o la fame mi incalzano. La mia sventurata condizione mi dissuade dallo scrivere di più su Giugurta. Del resto, già in passato ho sperimentato che poco credito si dà agli infelici. Mi rendo conto, però, che le mire di lui vanno al di là della mia persona e ch’egli non spera più di avere insieme la vostra amicizia e il mio regno. Ma a che cosa egli tenga di più, ognuno l’intende. Ha cominciato con l’assassinare mio fratello Ièmpsale, poi ha scalzato me dal trono paterno. È vero che le nostre bèghe non riguardano voi: ma ora è un regno vostro, quello ch’egli tiene con la forza; e me, che voi stessi avete posto al governo della Numidia, egli cinge d’assedio. Quanto peso Giugurta abbia dato alle parole dei vostri inviati, lo mostra il pericolo in cui mi trovo. Che altro può scuoterlo ormai se non la forza vostra? Dal canto mio, preferirei davvero che questo che scrivo, e le mie precedenti lagnanze esposte in Senato, fossero senza fondamento, piuttosto che le mie sciagure confermassero le mie parole. Ma poiché sono nato per essere la prova vivente delle malefatte di Giugurta, ormai non spero più di scongiurare la morte o le sofferenze morali, ma solo la tirannia del mio avversario e le torture fisiche. Al regno di Numidia, che a voi appartiene, provvedete come più vi piace. Ma strappatemi alle mani di quell’empio, in nome della maestà del vostro impero e dei sacri diritti dell’amicizia, se ancóra conservate il ricordo del mio avo Massinissa».

 

25. Dopo la lettura di questo messaggio, alcuni proposero che si inviasse in Africa un esercito e si recasse al più presto soccorso ad Adèrbale; e che intanto si prendessero provvedimenti contro Giugurta, per non avere egli obbedito agli inviati di Roma. Ma i soliti sostenitori del re si adoperarono col massimo impegno per evitare che si emettesse un decreto in tal senso. In questo modo, gli interessi generali, come accade nella maggior parte dei casi, furono schiacciati dall’influenza dei singoli.

Ciò non ostante, si inviarono in Africa personaggi più anziani, di nobile famiglia, che avevano ricoperto altissime cariche. Tra essi vi fu quel Marco Scàuro sopra ricordato, di rango consolare, e, in quel momento, primo dei Senatori20.

I delegati, data l’odiosità del fatto e le insistenti preghiere dei Nùmidi, entro tre giorni si imbarcarono. Approdati ben presto a litica21, inviarono un messaggio a Giugurta, invitandolo a recarsi immediatamente nella provincia romana e comunicandogli ch’essi erano inviati dal Senato.

Giugurta, quando seppe che illustri personaggi – la cui autorità in Roma sapeva grandissima – erano venuti ad opporsi alla sua impresa, dapprima rimase scosso e agitato tra la paura e l’ambizione: temeva lo sdegno del Senato, se non avesse obbedito ai suoi inviati; d’altra parte, accecato dall’ambizione, era trascinato a perpetrare il suo crimine.

Nel suo cuore rapace trionfò il partito peggiore. Disposto l’esercito tutto intorno alla piazzaforte, con la massima energia tentò lo sfondamento di Cirta. Sperava ardentemente, costringendo il nemico a dividere le sue truppe, di riuscire a trovare, con la forza o con l’astuzia, la via della vittoria.

Le cose andarono diversamente, ed egli capì che non sarebbe riuscito nel suo intento di impadronirsi di Adèrbale prima di incontrare i delegati romani. Perciò, per non irritare, tardando più oltre, quello Scàuro che più d’ogni altro temeva, venne nella provincia romana accompagnato da pochi cavalieri.

Là, benché minacce di gravi sanzioni gli rivolgessero a nome del Senato, perché non rinunciava all’assedio, i delegati si ritirarono dopo un inutile spreco di parole.

 

26. Quando la notizia di ciò giunse a Cirta, gli Italici, che con il loro valore continuavano a difendere le mura, contando sul fatto che la maestà di Roma li avrebbe salvaguardati dopo una eventuale resa, consigliarono Adèrbale a consegnare a Giugurta sé stesso e la città, alla sola condizione di avere salva la vita: al resto avrebbe pensato il Senato.

Adèrbale, veramente, avrebbe preferito qualsiasi altra cosa, che fidarsi di Giugurta; ma, poiché potevano benissimo costringerlo se si fosse rifiutato, concluse la resa come gli Italici suggerivano.

Giugurta, la prima cosa che fece, fu di uccidere Adèrbale fra atroci torture. Poi, massacrò indiscriminatamente tutti i Nùmidi adulti e i negoziatori romani, chiunque trovasse armato.

 

27. Quando la notizia di questi fatti giunse a Roma, e si cominciò a discuterne in Senato, i soliti personaggi asserviti a Giugurta, con continue obiezioni, e facendosi sentire più spesso con il loro credito, ma anche con le parole grosse, guadagnavano tempo e minimizzavano la gravità del fatto. E se Gaio Memmio22, designato tribuno della plebe (un uomo energico e avverso al prepotere della classe dirigente) non avesse informato il popolo che si manovrava, ad opera di pochi faziosi, a che si passasse sopra al delitto di Giugurta, senza dubbio, a furia di rinviare le decisioni, tutta l’indignazione avrebbe finito con lo sbollire. Tanto poteva l’influenza e il denaro del re.

Ma quando il Senato, cosciente del suo grosso sbaglio, cominciò ad aver paura del popolo, in virtù della legge Sempronia23 si decretò di assegnare ai futuri consoli le province di Numidia e d’Italia. Consoli furono designati Publio Scipione Nasica e Lucio Calpurnio Bestia24. A Calpurnio toccò la Numidia, a Scipione l’Italia.

Si arruolò quindi un esercito da portare in Africa e si stanziarono i fondi per il soldo delle truppe, e quanto altro occorresse per la guerra.

 

28. Giugurta, intanto, ricevuta l’inaspettata notizia, convintissimo che a Roma tutto si potesse comperare, inviò al Senato suo figlio, accompagnato da altre due personalità di sua fiducia, con l’ordine – identico a quello dato agli altri che aveva inviato dopo l’uccisione di Ièmpsale – di far crollare ogni fortezza umana col denaro.

Mentre i tre giungevano nei pressi di Roma, Calpurnio Bestia consultò il Senato se volesse autorizzare gli inviati di Giugurta ad entrare in città. Il Senato decretò che, se non venivano per consegnare il regno di Numidia e lo stesso re, entro dieci giorni dovevano lasciare l’Italia. Il console fece notificare ai Nùmidi il decreto del Senato. E così quelli tornarono in patria senza aver nulla concluso.

Calpurnio, intanto, approntato l’esercito, si scelse come luogotenenti alcuni nobili personaggi, intriganti, sulla cui autorità contava per appoggiare le sue malefatte. Tra costoro fu Scàuro, la cui personalità abbiamo illustrato più sopra. Perché il nostro console aveva molte buone doti, sia morali sia fisiche, tutte però soffocate dalla cupidigia: resistente alle fatiche, pronto d’ingegno, abbastanza perspicace, non privo di capacità militari, tenacissimo di fronte ai pericoli e di fronte agli odi.

Le legioni, dunque, attraverso l’Italia giungono a Reggio; di lì in Sicilia; e dalla Sicilia passarono in Africa.

Calpurnio, assicuratosi sùbito i rifornimenti di viveri, entrò decisamente in Numidia, dove, con le armi, prese molti prigionieri e alcune città.

 

29. Ma quando Giugurta, per mezzo dei suoi emissari, cominciò a tentarlo col denaro e a mostrargli le difficoltà della guerra in cui era impegnato, il suo cuore malato di cupidigia mutò ben presto sentimenti. Per di più, a complice e agente di tutte le sue trame, si scelse Scàuro. Questi, inizialmente, mentre quasi tutti quelli del suo partito si erano lasciati corrompere, aveva avversato il re col massimo accanimento; ma le ingenti somme di denaro lo travolsero dalla rettitudine alla perfidia.

Giugurta dapprima intendeva comprarsi solo una tregua, ritenendo di poter ottenere intanto qualche risultato a Roma col denaro e con le aderenze. Ma quando seppe che nell’affare entrava anche Scàuro, sperando proprio di riottenere la pace, decise di trattare con essi, di persona, tutte le condizioni.

Frattanto, a salvaguardia del re, il console invia il suo questore Sestio nella piazzaforte di Giugurta, Vaga25. Pretesto di questa missione fu la consegna del grano che Calpurnio aveva ufficialmente imposto ai messi di Giugurta: giacché, in attesa della capitolazione, si stava trattando una tregua.

Il re, allora, come aveva deciso, si presenta al campo romano, e, in presenza del consiglio, parlò brevemente dell’odiosità della sua condotta e chiese che si accettasse la sua resa. Il resto trattò in separata sede con Bestia e con Scàuro.

L’indomani, dopo una sommaria consultazione, venne accettata la resa. Ma, come gli era stato imposto alla presenza del consiglio, egli consegna al questore soltanto trenta elefanti, del bestiame, un buon numero di cavalli, unitamente ad una piccola somma di denaro.

Così Calpurnio partì per Roma, per presiedere alle elezioni. In Numidia e nel nostro esercito tutto era tranquillo.

 

30. Quando a Roma si sparse la notizia dei fatti d’Africa, e del modo in cui erano stati condotti, dappertutto e in ogni riunione si discusse l’operato del console. La plebe era indignatissima; i senatori, preoccupati. Non si capiva se avrebbero approvato tanta enormità o avrebbero negato la ratifica alle decisione del console. Soprattutto li tratteneva dall’onesta obiettività la potenza di Scàuro, di cui correva voce che fosse l’istigatore e il complice di Bestia.

Ma Gaio Memmio – di cui abbiamo più sopra ricordato il carattere indipendente e l’avversione al prepotere dell’aristocrazia – tra le esitazioni e gli indugi del Senato, cominciò ad arringare il popolo spingendolo alla vendetta, ad ammonirlo a non disertare la repubblica e la propria libertà, e a mettere in evidenza molte prepotenze e crudeltà dell’aristocrazia. Insomma, con grande impegno accendeva l’animo della plebe.

Poiché in quel tempo, a Roma, l’eloquenza di Memmio era famosa e autorevolissima, mi pare opportuno riportare per intero uno dei suoi tanti discorsi. Precisamente intendo riferire ciò che disse in un comizio dopo il ritorno di Bestia. Le sue parole furono press’a poco queste:

 

31. «Cittadini,

se l’amor di patria non prevalesse su ogni altro sentimento, molti motivi mi sconsiglierebbero dall’intervenire per voi: la potenza di una fazione, la vostra passività, l’assenza di ogni giustizia, e soprattutto il fatto che l’integrità morale è piuttosto in pericolo che in onore.

Dispiace, infatti, ricordare come in questi ultimi quindici anni la tracotanza di una ristretta oligarchia si sia presa giuoco di voi, come siano periti indegnamente, e invendicati, i vostri difensori, come il vostro animo si sia lasciato corrompere dall’inazione e dall’indolenza. Neppure ora che gli avversari sono alla vostra mercé, voi pensate ad insorgere: ancora avete paura di gente a cui dovreste far paura voi.

Ciononostante, il cuore m’impone di reagire al prepotere della fazione. Da parte mia, io farò prova di quella libertà che mi è stata trasmessa da mio padre. Dipende da voi, cittadini, che la mia azione sia vana o proficua. Ma non voglio indurvi, come spesso hanno fatto i vostri avi, a reagire in armi contro l’ingiustizia. Non c’è bisogno di violenze, non c’è bisogno di cospirazioni: è fatale che da sé stessi i vostri avversari precipitino a rovina. Dopo l’assassinio di Tiberio Gracco26 – dicevano che voleva diventare re! – la plebe romana fu sottoposta a vessazioni. Dopo l’uccisione di Gaio Gracco e di Marco Fulvio, accadde lo stesso: molti di voi furono trucidati in carcere. E non fu la legge a por fine ad entrambi i massacri, ma il piacer loro.

Ma ammettiamo pure che significasse prepararsi il trono il fatto di restituire alla plebe i suoi diritti, e che sia legittima qualunque vendetta non possa esercitarsi senza il sangue dei cittadini. Negli anni scorsi, senza protestare voi fremevate di sdegno a veder saccheggiato l’erario, a vedere regni e repubbliche tributari di pochi nobili nelle cui mani era tutta la gloria e ingentissime ricchezze; eppure, sembrò poco a costoro l’aver commesso impunemente crimini di tale portata; ecco allora che han finito per tradire, a vantaggio dei nemici della Patria, le leggi, la maestà vostra, ogni diritto divino ed umano.

E non si vergognano, non si pentono di quello che han fatto, ma passano in pompa magna dinanzi a voi, facendo sfoggio di cariche sacerdotali, di consolati, magari dei loro trionfi: come se considerassero tutto ciò un onore e non un bottino.

Gli schiavi, comprati col denaro, non sopportano le imposizioni ingiuste dei loro padroni; e voi, cittadini di Roma, nati per comandare, sopportate tranquillamente questa tirannia?

Ma chi sono costoro, che han fatto propria la Repubblica? Uomini scellerati, dalle mani grondanti di sangue, di avidità smisurata, ribaldi e superbi, a cui lealtà e decoro e devozione e tutto ciò che c’è di onorevole e di disonorevole serve solo a cavarne profitti.

Si fanno forti, chi di aver assassinato i tribuni della plebe, chi di ayer esercitato ingiuste persecuzioni, quasi tutti di aver fatto strage di voi. Così, quanto peggio hanno agito, tanto più si sentono al sicuro. E la paura che dovrebbero avere per le loro malefatte, han saputo trasferirla in voi e nella vostra inerzia. L’identità delle loro brame, dei loro odi, delle loro paure, li ha stretti in un unico blocco. E questo, se tra galantuomini è amicizia, tra ribaldi è complicità.

Ma se tanta cura voi aveste della libertà, quanto essi sono assetati di tirannide, indubbiamente la Repubblica non sarebbe, come ora, messa a sacco, e i benefici che da voi possono venire andrebbero agli uomini migliori, non ai più sfrontati.

I vostri avi, per conquistare i loro diritti e garantire la loro dignità, due volte si ritirarono, in armi, sull’Aventino. E voi, a difesa della libertà ch’essi vi hanno trasmesso, non farete ogni sforzo, e con tanto maggiore impegno, quanto è maggior vergogna perdere i diritti acquisiti, che non averli neppur conquistati?

Mi chiederete: “Che cosa proponi, allora? Vendicarsi di quelli che hanno tradito la Repubblica a vantaggio del nemico?”.

Sì, ma non con la forza e la violenza – più indegne di voi a esercitarsi che di loro a subirsi -, bensì con severe inchieste e con la denuncia in piena regola contro lo stesso Giugurta. Se veramente si è arreso, dovrà ben obbedire ai vostri ordini. Se, invece, di questi si infischierà, potrete evidentemente giudicare che specie di pace o di resa sia questa, da cui a Giugurta verrà l’impunità dei suoi delitti, a pochi potenti immensa ricchezza, alla Repubblica danno e disdoro.

Ammenoché, non abbiate ancora abbastanza della loro sopraffazione, e agli attuali preferiate quei tempi in cui regni, province, e leggi, e diritti, e processi, e guerre, e paci, ed ogni umano e divino diritto erano in mano di pochi, mentre voi, il Popolo Romano, invitti di fronte ai nemici, dominatori di tutte le genti, vi accontentavate di conservare la vita. Giacché, a quel tempo, chi di voi osava ribellarsi alla schiavitù?

Per me, quantunque ritenga che per un uomo sia estremamente disonorevole ricevere un’offesa senza rintuzzarla, pure accetterei di buon grado che voi perdonaste a quei ribaldi – perché son sempre cittadini romani -, se il perdono non dovesse risolversi in rovina. Perché costoro, sfrontati come sono, non si accontentano di aver commesso il male impunemente, se non si strappa loro la possibilità di farlo ancora; e a voi resterà per sempre un’angosciosa inquietudine, quando vi renderete conto che bisogna accettare la tirannide o conquistarsi la libertà con la lotta.

Che speranza c’è di una leale concordia di spiriti? Dominare, essi vogliono; e voi, essere liberi. Essi, fare ingiustizie; voi, impedirle. E poi, essi trattano da nemici i nostri alleati, e da alleati i nemici. Ci può essere pace o comunione di affetti tra spiriti tanto diversi?

Perciò vi invito e vi esorto a non lasciare impunito così grande delitto. Non si tratta di peculato, o di estorsione ai danni degli alleati. Son cose gravi, queste, ma tanto comuni che non vi si fa più caso. Il fatto è che ad un accanitissimo nemico è stata data in balìa l’autorità del Senato e il vostro stesso impero: in pace e in guerra si è venduta la Patria.

Se non si istruiranno inchieste su questi fatti, se non si puniranno i colpevoli, che altro ci rimarrà se non vivere piegando il capo dinanzi ai responsabili di tutto ciò? Il fare impunemente i propri comodi: questo sì che significa essere re!

Non vi chiedo di preferire che i vostri concittadini abbiano agito male piuttosto che bene, ma di non rovinare i buoni perdonando ai malvagi. E poi, cittadini, in una libera comunità è meglio dimenticare il bene che il male ricevuto: il galantuomo, se si vede dimenticato, diviene solo più pigro; il malvagio, più cattivo. E se si evitano le ingiustizie, ci sarà meno bisogno di farsi sostenere».

 

32. Ripetendo spesso argomentazioni di questo genere, Memmio convinse il popolo ad inviare a Giugurta Lucio Cassio27 – allora pretore – con l’ordine di condurlo a Roma con un salvacondotto, allo scopo di portare alla luce più facilmente, con la testimonianza del re, le malefatte di Scàuro e degli altri accusati di corruzione.

Mentre ciò accadeva a Roma, gli uomini lasciati da Bestia in Numidia al comando dell’esercito, seguendo l’esempio del loro generale, si macchiavano di molte e gravissime colpe. Alcuni, corrotti dall’oro, restituivano a Giugurta i suoi elefanti; altri gli vendevano i disertori; altri facevano man bassa tra le popolazioni pacifiche: a tal punto la sete di denaro li aveva invasi, come un morbo maligno.

Intanto, però, fu approvata la proposta di Gaio Memmio, e Cassio, con grande costernazione della classe dirigente, partì per raggiungere Giugurta. Questi, spaventato e preoccupato della sua sorte, per la coscienza sporca che aveva, si lasciò indurre, visto che si era arreso al Popolo Romano, a sperimentare piuttosto la sua clemenza che la sua forza. Per di più, Cassio, in via privata, impegnava la sua parola, a cui Giugurta dava non minor peso che al salvacondotto ufficiale: tale era in quel momento la reputazione di Cassio.

 

33. Ecco dunque che Giugurta, contro la dignità regale, nell’abito più miserabile venne a Roma con Cassio.

E benché egli si sentisse già forte di per sé, confortato da tutti quei personaggi sulla cui potenza e malvagità aveva fondato la sua precedente attività, da noi riferita, comprò con una gran somma di denaro il tribuno della plebe Gaio Bebio28, la cui sfrontatezza gli avrebbe fatto scudo contro ogni giustizia o ingiustizia.

Intanto, Gaio Memmio convocò l’assemblea popolare. La plebe era ostile al re, e chi lo voleva in prigione, chi, se non rivelava i complici dei suoi delitti, lo voleva messo a morte come nemico della patria, secondo l’antica tradizione. Il tribuno, però, anteponendo la dignità di Roma ad ogni motivo di sdegno, si diede a placare il tumulto, a calmare gli animi, e a dichiarare che, quanto a lui, non avrebbe violato l’impegno assunto dallo Stato nei confronti del re.

Poi, fattosi silenzio e introdotto Giugurta, ricorda le colpe di cui questi si era macchiato a Roma e in Numidia, e mette in chiaro i delitti da lui commessi contro il padre e i fratelli. Il popolo sapeva, egli concluse, con quali aiuti e quali complici Giugurta avesse perpetrato tutto ciò; ma egli preferiva avere dal re stesso le prove manifeste.

Se confessava, poteva ben sperare dalla lealtà e clemenza del Popolo Romano; se invece si ostinava a non parlare, il suo silenzio non avrebbe giovato ai suoi complici e avrebbe rovinato lui stesso ed ogni sua speranza.

 

34. Concluso il discorso di Memmio, Giugurta fu invitato a rispondere. Ma Gaio Bebio, il tribuno della plebe comprato dal denaro di Giugurta (come sopra si è detto) ingiunse al re di tacere. La folla presente all’assemblea, esasperata, cercava di spaventarlo con le sue grida, i suoi sguardi minacciosi, persino con frequenti gesti di sfida ed ogni altro mezzo che Pira suggerisse. Ma la sfrontatezza trionfò.

Così il popolo, beffato, lasciò l’assemblea. E Giugurta, Bestia e tutti gli altri che prima erano preoccupati per quell’inchiesta, ripresero ardire.

 

35. C’era in quel tempo a Roma un Nùmida di nome Massiva, figlio di Gulussa e nipote di Massinissa: nel contrasto tra i re era stato avversario di Giugurta, e dopo la resa di Cirta e l’assassinio di Adèrbale aveva lasciato profugo la sua patria. Spurio Albino, che Panno dopo il consolato di Bestia29 era console insieme con Quinto Minucio Rufo, gli suggerì, dal momento ch’egli era del sangue di Massinissa, e che Giugurta, per i suoi crimini, era tanto odiato e temuto, di chiedere ufficialmente al Senato il regno di Numidia. Il console, infatti, deciso a fare una guerra, preferiva smuovere le acque piuttosto che lasciarle tranquille. A lui era toccata la provincia di Numidia, a Minucio la Macedonia.

Appena Massiva iniziò la sua manovra, Giugurta, non sentendosi sufficientemente protetto dai suoi amici – trattenuti, chi dal rimorso, chi dall’infamia, chi dalla paura – dà ordine a Bomìlcare, il più devoto tra i suoi fedeli, di assoldare, come già aveva fatto più volte in passato, dei sicari per tendere un’imboscata a Massiva: il tutto nel più assoluto segreto. Ma se non gli riesce, deve uccidere il Nùmida in qualunque modo.

Bomìlcare esegue prontamente l’incarico del re, e, servendosi di individui esperti di tali faccende, fa sorvegliare i movimenti e le uscite di Massiva: insomma i tempi e i luoghi* senza nulla tralasciare. Poi, al momento più adatto, tende l’imboscata. Ma uno dei sicari attacca Massiva un po’ troppo imprudentemente: lo ammazza, sì, ma si lascia catturare. E spinto da molti, ma soprattutto da Albino, rivela la trama.

Bomìlcare, compagno dell’uomo venuto a Roma con salvacondotto ufficiale, viene messo in stato d’accusa, più in virtù dell’equità e dell’onestà, che del diritto delle genti. Giugurta, dal canto suo, nonostante che il suo grave delitto fosse stato accertato, non cessò di negare l’evidenza, finché non si accorse che l’indignazione suscitata dalla sua condotta prevaleva sulle sue influenze e sul suo denaro.

Così, benché all’inizio dell’azione intentatagli, egli avesse consegnato a garanzia ed in ostaggio, cinquanta dei suoi amici, pure, pensando più al regno che agli ostaggi, rimandò segretamente in Numidia Bomìlcare, temendo che gli altri sudditi avessero paura di obbedirgli, s’egli lasciava che quello subisse la pena capitale. Egli stesso, entro pochi giorni, partì per la stessa destinazione, per ordine del Senato che gli impose di lasciare l’Italia.

Ma quando uscì da Roma, si dice che più volte si girasse a guardarla silenziosamente, e infine esclamasse: «Città venale, che presto perirà, se troverà un compratore!».

 

36. Intanto Albino, riprese le ostilità, si dispone rapidamente a portare in Africa rifornimenti di viveri, denaro per pagare le truppe, e tutto quel che poteva servire all’esercito. Partì immediatamente anche lui, per concludere la guerra con la forza, o con la capitolazione dell’avversario, o in qualunque altro modo, prima delle elezioni consolari, che non erano lontane.

Giugurta, invece, tirava tutto per le lunghe, trovava sempre nuovi motivi di ritardo: prima prometteva la resa, poi fingeva di diffidarne; un momento si sottraeva agli attacchi, e poco dopo, per non scoraggiare i suoi, attaccava egli stesso. Così, ora ritardando la guerra, ora ritardando la pace, si prendeva giuoco del console.

Alcuni arrivarono a pensare che Albino fosse al corrente della tattica del re, e stentavano a credere che, dopo tanta fretta, con tanta disinvoltura si tirasse in lungo la guerra per incapacità di azione anziché per tradimento.

Comunque stessero le cose, il tempo era passato ed il giorno delle elezioni si avvicinava. Cosicché Albino, lasciato al campo suo fratello Aulo quale propretore, torna a Roma.

 

37. In quel periodo, la repubblica era gravemente travagliata, a Roma, dalle agitazioni dei tribuni: Publio Lucullo e Lucio Annio, tribuni della plebe, nonostante l’opposizione dei colleghi, si davano da fare per ottenere la proroga del loro incarico. Il conflitto impediva le elezioni di tutto l’anno.

Aulo (quell’Aulo che, come si è detto, era restato al campo come propretore), confidando che quel ritardo gli avrebbe permesso di concludere la guerra, o almeno di cavare un po’ di denaro al re mettendogli paura con le armi, a gennaio fa uscire dai quartieri invernali le truppe per effettuare una spedizione. Nonostante il rigore dell’inverno, procedendo a marce forzate, giunge alla piazzaforte di Suthul30, dove erano accumulati i tesori del re.

In realtà, il tempo era avverso, e la posizione naturale impediva non solo l’espugnazione, ma anche soltanto l’assedio: intorno alla muraglia, posta ai piedi di una montagna scoscesa, c’era una pia nura limacciosa, che le piogge avevano trasformato in vera e propria palude. Ciò nonostante, o semplicemente per finta, allo scopo di spaventare maggiormente il re, o accecato dalla bramosia, per impadronirsi della città per i suoi tesori, eccolo spingere innanzi le «vigne», erigere la palizzata, e mettere in opera rapidamente tutto il necessario all’impresa.

 

38. Giugurta, compresa la presunzione e l’incapacità del sostituto del console, comincia astutamente ad incrementarne la follia, inviandogli continuamente uomini per implorarlo. Personalmente, poi, quasi smarrito e in cerca di scampo, si tirava dietro l’esercito attraverso passi boscosi e vie traverse. Infine, facendo balenare ad Aulo la speranza di concludere un patto tra loro due, lo induce a lasciare Suthul per inseguire lui, come se si ritirasse, in zone fuori mano: così le loro mene sarebbero state più segrete.

Frattanto, servendosi di individui rotti ad ogni astuzia, giorno e notte saggiava l’esercito, corrompeva centurioni e ufficiali di cavalleria, perché passassero dalla sua parte, o perché, a un dato segnale, abbandonassero il loro posto.

Quando ebbe regolato ogni cosa secondo i suoi piani, in piena notte, all’improvviso, con un folto gruppo di Nùmidi, circonda il campo di Aulo.

I soldati romani, sbigottiti dall’insolito tumulto, chi prende le armi, chi si nasconde, chi cerca di rincorare i compagni atterriti: dappertutto c’era gran confusione. Le forze nemiche erano notevoli; il cielo era oscurato dalle nuvole oltre che dalla notte; il pericolo poteva venire da ogni parte. Non si sapeva neppure se fosse più sicuro fuggire o rimanere.

Tra quelli di cui più sopra abbiamo detto che erano stati comprati, una coorte di Liguri, con due squadroni di Traci e pochi soldati semplici, passarono al re. Per di più, il centurione del primo manipolo di triari31 della terza legione diede il passo ai nemici attraverso la trincea che gli era stata assegnata da difendere: di là irruppero in massa i Nùmidi.

I nostri, in vergognosa fuga, quasi tutti dopo aver gettato le armi, si piazzarono su una collina vicina. La notte e il saccheggio del campo impedirono al nemico di sfruttare sùbito la vittoria.

L’indomani Giugurta ebbe un colloquio con Aulo: aveva in pugno lui ed il suo esercito e li poteva prendere per fame o con le armi; mèmore però delle alterne vicende umane, era disposto, se Aulo fosse sceso a patti con lui, a lasciarli incolumi facendoli passare tutti sotto il giogo. Inoltre, entro dieci giorni dovevano lasciare la Numidia.

Si trattava di condizioni assai dure ed umilianti. Eppure, poiché la paurosa alternativa era la morte, si stipulò la pace come piaceva al re.

 

39. Quando questi fatti si riseppero a Roma, la città fu presa dalla paura e dallo scoramento. Alcuni erano afflitti per la gloria dell’impero, altri, inesperti di faccende di guerra, temevano addirittura per la libertà; tutti erano indignati contro Aulo – soprattutto quelli che più volte si erano coperti di gloria in guerra – perché, armi alla mano, aveva cercato scampo nel disonore anziché nella lotta.

Perciò, il console Albino, temendo che dai fatti di cui si era reso colpevole suo fratello, derivasse per lui prima l’odio e poi il pericolo, sottoponeva il trattato all’esame del Senato.

Frattanto, però, arruolava truppe per colmare i vuoti dell’esercito, faceva venire rinforzi dagli alleati e dai Latini, si dava insomma un gran daffare in tutti i modi.

Il Senato, naturalmente, decise che nessun trattato si sarebbe potuto fare senza l’approvazione sua e del popolo. Il console si vide rifiutare dai tribuni della plebe l’autorizzazione a portare con sé le truppe arruolate, ma entro pochi giorni partì lo stesso per l’Africa, senza di esse: tutto l’esercito, infatti, come era stato convenuto, sgombrata la Numidia, svernava nella provincia romana. Giunto sul posto, benché ardentemente desiderasse di farla pagar cara a Giugurta e di cancellare l’infamia di suo fratello, rèsosi conto di quel che erano ormai le truppe, guastate, oltre che dalla ignominiosa ritirata, anche dalla rottura di ogni freno, per il discredito dell’autorità, decise, data la situazione, di non prendere alcuna iniziativa.

 

40. A Roma, intanto, il tribuno della plebe Gaio Mamilio Limetano sottopose al popolo un disegno di legge per un’inchiesta a carico di chiunque avesse incoraggiato Giugurta ad agire in dispregio dei decreti del Senato, o avesse da lui accettato somme di denaro durante le missioni o i comandi, o gli avesse consegnato elefanti o disertori, o avesse infine patteggiato col nemico la pace o la guerra.

Ma ecco che alcuni perché si sentivano colpevoli, altri perché temevano le pericolose conseguenze degli odi popolari, non potendo opporsi apertamente alla proposta senza ammettere che approvavano quelle ed altre simili malefatte, tramando nell’ombra con la mediazione di amici, e soprattutto dei Latini e degli alleati Italici, le creavano ogni sorta di ostacoli.

Ma la plebe fu incredibilmente ostinata nel sostenere energicamente la proposta, più per odio della classe dirigente (contro cui il disegno di legge si risolveva) che per carità di patria. Tanto era grande la passione di parte.

Ebbene, mentre tutti gli altri erano paralizzati dalla paura, Marco Scàuro – che era stato, come abbiamo detto, luogotenente di Bestia -, tra l’entusiasmo della plebe e lo sgomento dei suoi, mentre ancora durava lo smarrimento generale, aveva ottenuto, poiché la proposta di Mamilio prevedeva la nomina di tre commissari d’inchiesta, di essere nominato, tra gli altri, anche lui.

L’inchiesta, però, fu condotta con estremo rigore e durezza, data la pressione dell’opinione pubblica popolare32. Come spesso l’aristocrazia dirigente, così in quel momento il popolino si era lasciato trasportare all’insolenza dalla ventata favorevole.

 

41. L’abitudine dei contrasti tra partito popolare e fazione aristocratica, e quindi di ogni altro pervertimento, aveva preso piede a Roma pochi anni prima, favorita dal periodo di tranquillità e di prosperità generale, che gli uomini apprezzano più di ogni altra cosa.

Prima della distruzione di Cartagine, il popolo e il Senato governavano lo Stato pacificamente e in piena armonia tra loro, senza lotte tra cittadini per vanagloria o per sete di dominio: il timore del nemico manteneva la città entro i limiti dell’onesto.

Ma, dileguatasi quella paura, si fecero avanti naturalmente la sfrenatezza e l’insolenza, conseguenze quasi inevitabili della prosperità.

Ed ecco che quella tranquillità che tanto avevano sperato quando le cose andavano male, una volta ottenuta, risultò un male ancor più grave e più doloroso. La classe dirigente da un lato, il popolo dall’altro, cominciarono a piegare alle loro passioni l’una la sua posizione di privilegio, l’altro le sue libertà, e tutti a prendere, ad arraffare, a far man bassa. Così, tutto fu strappato a sé dalle due parti; e la Patria, che era in mezzo, ne fu lacerata.

D’altronde, l’aristocrazia era il partito più forte e compatto: la forza della plebe, disunita e dispersa, nonostante il numero, era più scarsa. In pace e in guerra tutto dipendeva dall’arbitrio di una ristretta oligarchia: nelle loro mani era il tesoro pubblico, le province, le cariche pubbliche, la gloria e i trionfi. Il popolo era schiacciato dal servizio militare e dalla miseria. Il bottino di guerra, se lo spartivano avidamente il generale e pochi altri. E intanto i genitori o i figlioletti dei soldati, se avevano per vicino qualche potente, venivano scacciati dalla loro terra.

Così, insieme con la potenza, venne la sfrenata e smisurata avidità, che tutto contaminava e desolava, senza nulla rispettare o considerare sacro, finché fu causa della sua stessa rovina. Perché, appena tra l’aristocrazia dirigente si trovò qualcuno che all’ingiusta potenza preferiva la gloria vera, cominciò a scuotersi la città, e a manifestarsi, come un cataclisma, la discordia civile.

 

42. Quando, infatti, Tiberio e Gaio Gracco – i cui avi, nelle guerre puniche e in altre, avevano molto contribuito alla maggiore grandezza dello Stato – cominciarono a rivendicare per la plebe il diritto alla libertà, e a svelare le malefatte dell’oligarchia, l’aristocrazia dirigente, colpevole e per ciò stesso sgomenta, ora servendosi degli alleati e dei Latini, ora dell’ordine equestre – che la speranza di un’intesa con la classe superiore aveva allontanato dalla plebe – aveva ostacolato l’azione dei Gracchi.

Dapprima aveva assassinato Tiberio, e pochi anni dopo anche Gaio, che batteva la medesima via: tribuno della plebe il primo, triunviro alle colonie il secondo. La stessa sorte aveva seguito Marco Fulvio Flacco. È ben vero che i Gracchi, per smania di vincere, avevano esagerato: ed è meglio lasciarsi vincere mantenendosi entro i limiti onesti, piuttosto che vincere, sia pure contro l’ingiustizia, varcando i limiti dell’onesto.

Così l’aristocrazia dirigente, usando a piacer suo la vittoria, eliminò molti uomini con la morte o con l’esilio, circondandosi però, per l’avvenire, più di timore che di potenza. Sono fatti, questi, che spesso rovinano Stati potenti, quando un partito vuole vincere l’altro ad ogni costo, e vendicarsi troppo duramente del vinto.

Ma se volessi discutere minutamente e adeguatamente delle passioni politiche o delle abitudini di ogni Stato, mi verrebbe meno il tempo prima che la materia. Torno perciò al mio argomento.

 

43. Dopo il trattato di Aulo e la vergognosa fuga del nostro esercito, Metello e Silano33, eletti consoli per l’anno successivo, si erano divisi tra loro le province, e la Numidia era toccata a Metello, uomo energico, e, benché avverso al partito popolare, di reputazione costantemente intemerata.

Questi, appena entrato in carica, accordatosi con il collega per tutto il resto, si dedicò alla guerra che doveva sostenere. Poco fidandosi del vecchio esercito, arruolò soldati, fece venire rinforzi da ogni parte, preparò armi da difesa e da offesa, e cavalli, e ogni altro strumento di guerra; ed anche viveri in abbondanza: insomma tutto ciò che potesse servire in una guerra di carattere vario e dalle necessità più disparate. Del resto, a preparare l’impresa si adoperarono il Senato con la sua autorità, gli alleati, i Latini e i re, mandando spontaneamente rinforzi, e l’intera popolazione con la sua assoluta adesione spirituale.

Preparata e sistemata ogni cosa secondo i suoi desideri, Metello partì dunque per la Numidia, tra le grandi speranze dei suoi concittadini, sia per le sue altre buone qualità, sia, soprattutto, perché aveva il cuore inattaccabile dal denaro, mentre era stata proprio la bramosia delle autorità inviate prima di allora, quella che in Numidia aveva fiaccato le nostre forze e accresciute quelle del nemico.

 

44. Ma al suo arrivo in Africa, Spurio Albino, il proconsole, gli consegna un esercito inetto, imbelle, insofferente di pericoli o fatiche, più pronto di lingua che di braccio, abituato a depredare gli alleati e a lasciarsi depredare dal nemico, senza una vera autorità e senza alcun freno.

Così, al nuovo generale derivarono più preoccupazioni dalle male abitudini dei soldati, che sostegno o speranza dal loro numero. Metello, però, sebbene il ritardo delle elezioni avesse ridotto il tempo utile della campagna estiva, ed egli immaginasse che a Roma si fosse ansiosi nell’attesa degli eventi, decise di non iniziare la guerra prima di avere rieducato le truppe alla faticosa disciplina tradizionale.

In effetti, Albino, sgomento per il rovescio subito da suo fratello e dal suo esercito, una volta deciso di non varcare i confini della provincia romana, per tutta la parte dell’estate in cui tenne il comando, aveva quasi sempre tenuto le truppe in caserma, tranne quando il fetore o la mancanza di foraggio lo costringeva a spostarle.

Ma le stesse caserme non venivano fortificate, né si disponevano sentinelle all’uso militare; ciascuno si allontanava dal campo quando gli pareva. I vivandieri, mescolati ai soldati, andavano e venivano giorno e notte; scorrazzando qua e là, devastavano i campi, prendevano d’assalto fattorie, facevano, a gara, razzìa di bestiame e di schiavi, che usavano come merce di scambio con i mercanti per averne vino importato da fuori e altre simili derrate; per di più, vendevano il grano avuto dallo Stato e si comperavano il pane giorno per giorno. Insomma, ogni sorta di vizi derivanti dall’indolenza e dalla dissolutezza, che si potrebbero elencare o immaginare, in quell’esercito c’erano tutti, e qualche altro ancora.

 

45. Anche in tali difficoltà, non meno che nella guerra vera e propria, Metello si mostrò, mi risulta, grande e accorto: seppe conservare il giusto mezzo tra la spietatezza e il suo interesse a tenersi buono l’esercito.

Anzitutto, con una precisa disposizione, tolse di mezzo ogni incentivo all’indolenza, stabilendo che nessuno, nel campo, vendesse pane o altri generi alimentari cotti, che i vivandieri non seguissero le truppe, che gli astati e i soldati semplici non tenessero al campo o nelle marce, schiavi o bestie da soma. Anche a tutto il resto trovò modo di porre un freno. Per di più, ogni giorno, per vie traverse spostava il campo; e, come se il nemico fosse sempre vicino, lo fortificava con palizzata e fossato. Metteva sentinelle dappertutto, e personalmente, con alcuni ufficiali, le ispezionava. Durante le marce, ora stava in testa alla colonna, ora in coda, generalmente in mezzo, badando che nessuno uscisse dai ranghi, che tutti marciassero compatti attorno alle insegne, e che i soldati portassero viveri ed armi. Così, prevenendo le colpe piuttosto che punendole, in breve tempo rinsaldò le sue truppe.

 

46. Frattanto Giugurta, quando venne a sapere dai suoi informatori l’attività di Metello, e da Roma gli giunse notizia della sua integrità morale, cominciò a scoraggiarsi e allora finalmente tentò sinceramente la resa. Invia al console una deputazione con le insegne dei sùpplici, per chiedere soltanto la vita per sé stesso e per i suoi figli, consegnando tutto il resto al Popolo Romano.

Metello, però, conosceva già da prima per esperienza la slealtà, la volubilità, l’amor di novità dei Nùmidi. Avvicinò quindi gli inviati uno per uno, separatamente, facendo continui sondaggi. Quando capì che ormai erano pronti per i suoi piani, con grandi promesse cerca di convincerli a consegnargli vivo Giugurta, o, se proprio non fosse possibile, anche morto. Ufficialmente, poi, li incarica di riferire al re la desiderata risposta.

Pochi giorni dopo, con l’esercito all’erta e deciso a combattere, penetrò in Numidia. Qui, diversamente da come si presenta di solito una zona di guerra, i casolari erano pieni di gente, il bestiame e i contadini erano nei campi. Dalle città e dagli attendamenti si facevano incontro gli ufficiali del re, con l’offerta di consegnare grano, di trasportare i nostri rifornimenti, mettendosi, insomma, completamente a disposizione.

Ciò nonostante, Metello, come se avesse sempre il nemico a pochi passi, procedeva con la colonna in assetto di difesa e faceva compiere ricognizioni tutto intorno per largo raggio, convinto che la resa fosse solo polvere per i suoi occhi e che il terreno celasse imboscate. Perciò si teneva sempre alla testa della colonna con le truppe più leggere e con un manipolo di frombolieri e saettatori scelti. Alla retroguardia provvedeva Gaio Mario, suo luogotenente, con la cavalleria. Sui fianchi aveva distribuito le truppe ausiliarie al comando dei tribuni di legione e dei prefetti di coorte: così le truppe leggere, mescolandosi a quelle, potevano respingere la cavalleria nemica, da qualunque parte si avvicinasse. Perché Giugurta era tanto malfido e tanto pratico del terreno e della tattica di guerra, che non si sapeva proprio se fosse più pericoloso vicino o lontano, in pace o in guerra.

 

47. Non lontano dalla via seguita da Metello, c’era una città numidica, Vaga34, il più importante centro commerciale di tutto il regno, tanto che molti Italici vi avevano fissato la loro dimora e i loro commerci. Il console, sia per sondare gli umori vedendo se accettavano la situazione, sia perché la posizione era realmente favorevole, vi stanziò una guarnigione. Inoltre vi fece portare grano e quant’altro poteva essere utile alla guerra, ritenendo che, come sembrava evidente, il continuo afflusso di trafficanti avrebbe assicurato i rifornimenti alle truppe e avrebbe garantito la sicurezza di quanto aveva già predisposto.

Giugurta, durante queste operazioni, sempre più spesso inviava i suoi messi imploranti, a chiedere la pace e ad offrire tutto a Metello, tranne la vita propria e quella dei suoi figli. E il console, come gli altri, non li congedava senza averli prima adescati al tradimento; quanto al re, non gli negava né prometteva la pace richiesta. Nel frattempo, aspettava l’effetto delle promesse degli intermediari.

 

48. Giugurta, confrontando le parole di Metello con i fatti, si rese conto, a un certo punto, che lo si stava manovrando con le sue stesse armi: a parole gli si annunciava la pace, ma in realtà c’era una guerra senza quartiere, una città tra le più importanti gli era sfuggita di mano, il nemico si era fatto esperto del terreno e i sentimenti dei suoi sudditi erano stati messi alla prova.

Costretto allora dalla necessità, decise di ricorrere alle armi. Informato dai suoi ricognitori della via presa dal nemico, e fiducioso nella vittoria per il vantaggio che gli offriva il terreno, mise insieme la maggior quantità possibile di truppe d’ogni specie, e, per sentieri fuori mano, precedette l’esercitò di Metello.

C’era, nel settore della Numìdia che nella divisione era toccato ad Adèrbale, un fiume, che nasce più a sud, chiamato Muthul35, e, a circa venti miglia da esso, una catena di monti ad esso parallela, desolata e incolta. Dal centro di essa, però, partiva una specie di contrafforte, che si protendeva a perdita d’occhio, rivestito di olivi selvatici, di mirteti e di altra vegetazione caratteristica di un terreno arido e sabbioso. La piana che si estendeva nel mezzo, era deserta, per scarsità d’acqua, tranne le zone prossime al fiume: queste, piantate ad arbusti, erano frequentate dal bestiame e dai contadini.

 

49. Ebbene, sul contrafforte che, come abbiamo detto, si protende perpendicolare al fiume, si piazzò Giugurta con i suoi uomini disposti in schieramento poco profondo. Affidò a Bomilcare il comando degli elefanti e di parte della fanteria, spiegandogli accuratamente quel che doveva fare. Personalmente, invece, dispose le sue truppe, con tutta la cavalleria e la fanteria scelta, vicino alla montagna.

Poi, passando in rassegna uno per uno i suoi squadroni e manipoli, li incoraggiò e li scongiurò di difendere – ricordando il loro antico valore e la recente vittoria – lui stesso e il suo regno dall’avidità dei Romani: fi trattava di combattere con uomini ch’essi avevano già vinto e fatto passare sotto il giogo: avevano cambiato generale, ma l’animo era lo stesso; a tutto ciò che un generale deve fare per i suoi uomini, egli aveva provveduto: la posizione strategica era favorevole; preparati, essi attaccavano uomini impreparati; non impegnavano la lotta inferiori di numero contro avversari più numerosi, né senza esperienza contro avversari esperti: non restava che tenersi pronti e decisi ad attaccare i Romani quando fosse stato dato il segnale: quel giorno avrebbe coronato tutte le loro fatiche e vittorie, o avrebbe dato inizio ai più gravi disastri.

Inoltre, rivolgendosi ai singoli uomini, quando gli capitava qualcuno ch’egli aveva premiato col denaro o con gli onori per qualche gesto di valore in guerra, gli ricordava il beneficio ricevuto e lo additava agli altri. Insomma, secondo il carattere di ciascuno, con promesse, minacce, o suppliche, spronava chi in un modo, chi in un altro.

Metello, intanto, ignaro del nemico, calando con l’esercito dalla montagna, improvvisamente lo scorge. Dapprima fu incerto sul significato dello strano spettacolo: i Nùmidi, coi loro cavalli, si erano disposti tra i virgulti, senza essere del tutto nascosti perché la vegetazione era bassa, ma sempre difficilmente identificabili, sia per la natura stessa del terreno, sia perché avevano ad arte mimetizzato sé stessi e le insegne militari. Poi, rèsosi rapidamente conto dell’imboscata, arrestò per un momento la colonna.

Mutando la disposizione dell’esercito, sul fianco destro, il più esposto al nemico, forma lo schieramento distribuendo su tre linee le truppe di rinforzo; tra i vari reparti mescola i frombolieri e i saettatori, sulle ali schiera tutta la cavalleria. Dopo una breve allocuzione di incoraggiamento alle truppe (il momento non permetteva di più), fece calare nella pianura l’esercito così schierato, in formazione obliqua.

 

50. Ma quando vide che i Nùmidi se ne stavano quieti e non scendevano dall’altura, temendo che il suo esercito, data la stagione e la penuria d’acqua, rimanesse vittima della sete, mandò avanti, verso il fiume, il luogotenente Rutilio con alcune coorti leggere e una parte della cavalleria: dovevano occupare per primi la posizione, per mettervi il campo: riteneva che il nemico, con frequenti attacchi e scontri sul fianco, avrebbe tardato la sua marcia, e poco fidando nelle armi avrebbe tentato di far breccia sui suoi soldati contando sulla stanchezza e la sete. Poi, regolandosi sulle circostanze e sul terreno, cominciò ad avanzare lentamente nella stessa formazione assunta per discendere dal monte. Tenne Mario sùbito dietro la prima linea, e lui stesso stette con i cavalieri dell’ala sinistra, che, nella marcia, era passata in testa.

Giugurta, intanto, quando vide che la retroguardia di Metello aveva superato la sua avanguardia, occupò, con un distaccamento di quasi duemila fanti, l’altura da cui era sceso Metello, per evitare ch’essa, nel caso che gli avversari si ritirassero, servisse loro di rifugio e poi di piazzaforte. Improvvisamente, poi, diede il segnale e attaccò il nemico.

I Nùmidi, un po’ si diedero a massacrare la nostra retroguardia, in parte sferrarono attacchi da sinistra e da destra, premendo e incalzando energicamente, e scompigliando dappertutto le file romane. Così, anche quelli che avevano affrontato il nemico con coraggio, sconcertati da quella mischia disordinata, dovevano limitarsi a ricever ferite da lontano, senza la possibilità di ferire a propria volta o di venire al corpo a corpo.

La cavalleria numìdica, istruita in precedenza da Giugurta, quando uno squadrone romano la incalzava, non si ritirava compatta né in una sola direzione, ma sparpagliandosi il più possibile, chi qua chi là.

Operando in questo modo, ed essendo superiori di numero, se non riuscivano a far desistere i nemici dall'inseguimento, li circondavano da tergo o di fianco cogliendoli dispersi. Se poi si presentava più adatta alla ritirata l’altura che non la pianura, i cavalli dei Nùmidi, abituati, sfuggivano agevolmente tra la boscaglia, mentre i nostri erano attardati dall’asperità del terreno e dalla mancanza di pratica.

 

51. D’altronde, l’intera faccenda si presentava con aspetto vario, indeciso, orribile e pietoso. Rimasti separati dai compagni, alcuni si ritiravano, altri incalzavano. Non badavano più alle insegne e alle file. Ognuno resisteva e cercava di respingere il nemico, là dove il pericolo lo aveva colto. Scudi, spade, cavalli, uomini, Nùmidi e Romani: tutto era confusamente mescolato; non si agiva in base a piani o ad ordini: il caso dominava tutto.

In questo modo era trascorsa gran parte della giornata, e l’esito della lotta era ancora incerto. Infine, quando tutti erano sfiniti per la fatica e il calore, Metello, vedendo che gli attacchi dei Nùmidi perdevano di energia, a poco a poco riesce a radunare le sue truppe, ristabilisce le file e schiera quattro coorti di legionari di fronte alla fanteria nemica, che, in gran parte, si era fermata, sfinita, sulle alture. Nel contempo pregava i soldati incoraggiandoli a non perdersi d’animo e a non lasciare che trionfasse quel nemico fuggiasco: del resto, non avevano né accampamento né fortilizio in cui rifugiarsi in caso di ritirata: tutto dipendeva dalle loro armi.

Ma neppure Giugurta, intanto, se ne stava quieto: andava di qua e di là, incoraggiava, rianimava la battaglia, ed egli stesso, con alcuni soldati scelti, attaccava da ogni parte, accorreva in aiuto dei suoi, incalzava i nemici vacillanti, e fermava, combattendo da lontano, quelli che vedeva più decisi.

 

52. Così lottavano quei due grandissimi generali, pari tra loro, ma con mezzi ben diversi. Metello aveva il valore dei soldati, ma lo svantaggio del terreno; Giugurta aveva dalla sua tutto il resto, tranne i soldati.

Alla fine i Romani, quando vedono che per loro non c’è via di ritirata, e che il nemico rifiuta la battaglia – per di più era già sera -, si gettano, come è loro ordinato, sull’altura che hanno di fronte. I Nùmidi, perduta la posizione, furono dispersi e messi in fuga. Alcuni pochi caddero uccisi: la maggior parte trovarono scampo nella loro rapidità e nel fatto che i nostri non erano pratici della zona.

Bomìlcare, intanto – che Giugurta, come abbiamo detto, aveva messo a capo degli elefanti e di una parte della fanteria -, quando Rutilio gli fu passato avanti, senza dare nell’occhio fece scendere i suoi nella pianura. Poi, mentre il luogotenente romano si affretta a raggiungere il fiume dove aveva ricevuto ordine di recarsi, il Nùmida, zitto zitto, naturalmente, schiera le sue truppe, senza smettere di far osservare la posizione e i movimenti del nemico.

Quando seppe che Rutilio si era insediato e nulla sospettava, e sentì che cresceva il fracasso dove combatteva Giugurta, temendo che il luogotenente, venùtolo a sapere, accorresse in aiuto dei compagni in pericolo, per tagliare la strada al nemico allarga lo schieramento dei suoi che dapprima aveva tenuto più serrati perché poco fidava nel valore delle sue truppe. In questa formazione marcia verso il campo di Rutilio.

 

53. I Romani, all’improvviso, scorgono un gran polverone: la vegetazione del campo impediva di vedere di più. Dapprima pensarono che fosse il vento che agitava l’arido suolo; ma poi, quando videro che il polverone rimaneva uniforme, e che, ai movimenti del nemico, si avvicinava sempre di più, capirono di che si trattava, impugnarono in fretta le armi e si disposero, eseguendo gli ordini, dinanzi all’accampamento.

Quando la distanza fu raccorciata, si passa all’attacco con grande strepito da entrambe le parti. I Nùmidi, finché contarono sull’aiuto degli elefanti, ressero all’urto; ma quando li videro intralciati dai rami degli alberi, e, così dispersi, aggirati dal nemico, si diedero alla fuga. Quasi tutti, gettate le armi, si salvarono col favor della notte, ormai prossima, sull’altura vicina. Quattro elefanti furono catturati; tutti gli altri, una quarantina, furono uccisi.

I Romani intanto, benché stanchi – ma insieme felici – dopo la marcia, e i lavori del campo, e la battaglia, tuttavia, poiché Metello tardava più di quanto si aspettassero, in buon ordine e sempre all’erta gli si fanno incontro: l’astuzia dei Nùmidi non ammetteva sosta o negligenza.

Dapprima, nell’oscurità della notte, quando ormai i due gruppi non eran più molto lontani, sentendo il rumore e pensando all’arrivo dei nemici, furono spaventati e messi in agitazione gli uni dagli altri. Quasi quasi, l’equivoco provocò una dolorosa catastrofe, se i ricognitori a cavallo, inviati dalle due parti, non avessero chiarito la faccenda. Allora la paura si muta sùbito in gioia: i soldati si chiamavan tra loro, tutti contenti, si informavano reciprocamente dell’accaduto, e ciascuno portava alle stelle le sue prodezze. Così stanno gli eventi umani: nella vittoria, anche i vili possono gloriarsi; la sconfitta scredita anche i valorosi.

 

54. Metello rimase in quel campo per quattro giorni. Fece curare premurosamente i feriti; premiò, all’uso militare, i meritevoli; tenne un’adunata in cui tutti lodò e ringraziò, li esortò a conservare lo stesso coraggio nelle altre imprese, che del resto erano poca cosa: per la vittoria si era combattuto abbastanza, le fatiche future sarebbero state per il bottino.

Nel frattempo, però, mandò in ricognizione disertori, ed altri che si presentavano adatti, per cercar di sapere la posizione e i piani di Giugurta, e se avesse con sé pochi uomini o un intero esercito, e come aveva preso la sconfitta.

L’altro, intanto, si era ritirato in una zona boscosa e fortificata dalla natura stessa, dove raccoglieva un esercito più numeroso, ma debole e fiacco, pratico più di campagna e di bestiame che di guerra. Il fatto è che i Nùmidi, sconfitti, non rinunciano mai alla propria fuga per seguire il re, tranne i cavalieri della sua guardia: se ne vanno ciascuno dove vuole, senza che ciò sia considerato diserzione: l’uso è questo.

Metello si rese conto di alcuni dati di fatto: primo, che il re non aveva deposto il suo orgoglio; secondo, che la guerra non solo continuava, ma bisognava farla subendo l’iniziativa di lui; terzo, che ineguale sarebbe stata la lotta con un tale nemico; quarto, che minor danno riceveva il nemico, sconfitto, che i suoi, vincitori. Decise dunque che non si poteva più condurre la guerra con la tattica della battaglia più o meno campale, ma con altri sistemi.

Si dirige dunque verso le zone più ricche della Numìdia, devasta le campagne, conquista e mette a ferro e fuoco molti villaggi e città, mal difese o senza guarnigione, fa uccidere tutti gli adulti, e tutto il resto lascia in preda ai soldati. Sotto la spinta di un tale terrorismo, molti ostaggi furono consegnati ai Romani, grano e quant’altro poteva servire fu offerto in abbondanza. E dovunque occorresse fu dislocata una guarnigione.

Tutto ciò spaventava il re molto più che una sconfitta. Lui, che riponeva ogni speranza nella tattica della fuga, si vedeva costretto a seguire il nemico; lui, che non era riuscito a difendere le proprie posizioni, era costretto a combattere sul terreno avversario. Prende allora la decisione che, date le circostanze, gli appare la migliore: lasciando la maggior parte dell’esercito in attesa in una determinata località, si mette egli stesso, con pochi a cavallo, alle costole di Metello: di notte e per vie traverse, senza farsi scorgere, attacca all’improvviso i Romani sparsi qua e là. La maggior parte, disarmati, cadono uccisi; molti vengono catturati, nessuno riesce a sfuggire sano e salvo. E i Nùmidi, prima che giungano rinforzi dal campo, si dileguano, secondo gli ordini, sulle alture vicine.

 

55. A Roma, intanto, appena si riseppero le gesta di Metello, vi fu un’esplosione di gioia: il generale si comportava e reggeva l’esercito in modo degno delle tradizioni; su un terreno sfavorevole era riuscito a vincere grazie al valore, ed ora stava occupando il territorio nemico, e aveva costretto Giugurta, prima così spavaldo per l’indolenza di Albino, a riporre le sue speranze di salvezza nel deserto e nella fuga.

Il Senato, per quelle azioni fortunate, decreta solenni ringraziamenti agli dèi. La città, prima trepidante e preoccupata per le sorti della guerra, ora era tutta contenta; splendida era la fama di Metello.

Questi si impegna più a fondo per la vittoria finale, e affretta con ogni mezzo le operazioni, badando però a non offrire il fianco al nemico: ricordava bene che alla gloria tiene dietro l’invidia. Così, quanto più cresceva la sua reputazione, tanto più si faceva circospetto, dopo gli attacchi proditori di Giugurta non si abbandona più al saccheggio con l’esercito sbandato. E quando c’era bisogno di grano o di foraggi, le coorti con tutta la cavalleria facevano da scorta. Una parte dell’esercito guidava egli stesso, il resto Mario. Il paese, però, veniva devastato più col fuoco che col saccheggio. I due capi si attendavano in posizioni vicine tra loro: quando c’era bisogno di rinforzo, accorrevano tutti. Ma in generale, per estendere maggiormente la desolazione e il terrore, operavano separatamente.

Giugurta, intanto, li seguiva lungo le alture, cercava il momento e il luogo adatto allo scontro, e dove sapeva che sarebbe venuto il nemico, avvelenava il foraggio e le sorgenti d’acqua, di cui c’era scarsezza. Ora si mostrava a Metello, ora a Mario, attaccava la retroguardia e sùbito si ritirava sulle colline, minacciava ora gli uni ora gli altri: senza dare battaglia, non dava respiro, limitandosi a intralciare le mosse del nemico.

 

56. Il generale romano, vedendosi logorato dalla guerriglia senza che il nemico gli desse la possibilità di una vera battaglia, decise di attaccare una città di vaste dimensioni, e, nel settore in cui era, roccaforte del regno, Zama36. Pensava che Giugurta, inevitabilmente, sarebbe venuto in aiuto ai suoi compatrioti in pericolo, e là si sarebbe data battaglia.

L’altro, però, informato di questo piano dai disertori, a marce forzate previene Metello. Incoraggia i cittadini alla difesa delle mura, e dà loro in rinforzo i disertori dell’esercito romano, i quali, poiché non potevano disertare di nuovo, fra le truppe del re erano i più sicuri. Inoltre, promette di tornare con l’esercito al momento opportuno. Sistemate in questo modo le cose, si rintana in luoghi il più possibile coperti. Poco dopo apprende che Mario era stato distaccato dalla colonna per far provvista di grano, con poche coorti, a Sicca37, la prima città che, dopo la sconfitta, aveva defezionato dal re. Questi, con un gruppo di cavalieri scelti, si dirige di notte a quella volta e dà battaglia ai Romani alle porte della città, mentre stavano uscendo. Nel contempo, a gran voce incita gli abitanti di Sicca a prendere le coorti alle spalle: la fortuna offriva loro il destro di una magnifica impresa: se l’avessero compiuta, egli avrebbe riavuto per sempre il suo regno, ed essi la loro libertà, senza più alcun timore.

E se Mario non si fosse affrettato a contrattaccare e ad uscire dalla città, indubbiamente tutti o gran parte degli abitanti di Sicca avrebbero ancóra una volta mutato bandiera: tanto volubili sono in Numidia! Ma i soldati di Giugurta, sostenuti per un poco dal re, quando il nemico incalzò più energicamente, si dispersero in fuga con poche perdite.

 

57. Mario giunse davanti a Zama. Le difese della città, posta nella pianura, erano dovute più alla mano dell’uomo che alla natura: non le mancava nulla ed era ricca d’armi e di uomini. Metello, presi i provvedimenti imposti dalle circostanze e dal luogo, circonda con l’esercito tutta la muraglia e assegna a ciascuno dei luogotenenti il settore di cui deve occuparsi. Poi, ad un segnale, si leva contemporaneamente un immenso clamore da ogni parte, senza che i Nùmidi ne siano spaventati: minacciosi e decisi, restano in attesa senza levare grida.

Inizia la battaglia. I Romani, seguendo ciascuno le sue attitudini, in parte combattono da lontano con tiri di fionda o con lancio di pietre; altri si fanno più sotto, ora cercando di sfondare il muro alla base, ora attaccandolo con le scale, ansiosi com’erano di venire al corpo a corpo.

In risposta, i difensori facevano rotolare macigni sui più vicini, gettavano pali acuminati e giavellotti, e persino pece mista a resina e a zolfo: il tutto avvampato. Ma la cautela non metteva al sicuro neppure quelli che erano rimasti più indietro: restavan feriti quasi tutti dai proiettili lanciati a mano o con le macchine; valorosi o vili, il pericolo, ma non la gloria, era lo stesso.

 

58. Mentre così si lottava attorno a Zama, Giugurta, d’improvviso, con un buon nerbo di soldati investe il campo nemico. Le sentinelle, che tutto si aspettavano meno che un attacco, avevano allentato la disciplina, cosicché egli riuscì a forzare la porta.

I nostri, sconcertati dall’allarme improvviso, badano ciascuno a sé stesso secondo la propria indole: alcuni si dànno alla fuga, altri impugnano le armi. Ma in gran parte furono feriti o uccisi. Fra tutti, un piccolo numero, non più di una quarantina, memori del buon nome di Roma, fecero gruppo e occuparono una posizione un po’ più elevata, e, nonostante tutti gli sforzi, non si riuscì a sloggiarli: anzi, le frecce che contro di loro venivano lanciate, rilanciavano contro il nemico, ed essendo in pochi circondati da molti, i loro tiri difficilmente mancavano il bersaglio. E se i Nùmidi si avvicinavano di più, allora sì che il loro coraggio appariva in tutta la sua grandezza: con sforzo sovrumano li massacravano, li scompigliavano, li ricacciavano indietro.

Metello, intanto, mentre si batteva con estremo accanimento, sentì alle spalle lo strepito dei nemici. Voltò indietro il cavallo, e vide che qualcuno fuggiva nella sua direzione: questo indicava che si trattava dei suoi. Immediatamente inviò al campo tutta la cavalleria, e sùbito dopo Gaio Mario con le coorti degli alleati. Col volto rigato di lacrime lo scongiura, in nome della loro amicizia e della Patria, di non lasciare che rimanga un’onta sul loro esercito vittorioso, o che il nemico si allontani impunemente.

L’altro esegue sùbito l’ordine. E Giugurta, intralciato nei suoi movimenti dalle fortificazioni del campo, mentre alcuni dei suoi scavalcavano a rotta di collo la palizzata, ed altri, negli stretti passaggi, si ostacolavano reciprocamente nella loro fretta, si ritira, con molte perdite, su posizioni sicure.

Metello, senza aver raggiunto il suo intento, approssimandosi la notte ritorna con l’esercito al campo.

 

59. L’indomani, prima di uscire all’attacco, dispone tutta la cavalleria dinanzi al campo, dalla parte in cui si attendeva il re. Assegna ai vari tribuni la difesa delle porte e dei posti vicini, poi si avvia verso la città, e come il giorno prima investe le mura.

Ed ecco che Giugurta, uscendo dalla sua tana, improvvisamente attacca i nostri. I più vicini, in un primo momento, spaventati, si scompigliano, ma gli altri accorrono immediatamente in aiuto. E i Nùmidi non avrebbero resistito a lungo, se, nello scontro, non ci avessero inflitto gravi perdite i fanti mescolati ai cavalieri. Questi infatti, contando sul sostegno di quelli, non incalzavano, come avviene di solito negli scontri di cavalleria, per poi ripiegare, ma si avventavano, coi loro cavalli, sempre avanti, gettando disordine e scompiglio nelle file: con questa tattica consegnavano alla loro fanteria il nemico già quasi sconfitto.

 

60. Contemporaneamente, attorno a Zama, si lottava con ogni impegno. Il maggiore accanimento si aveva nei punti in cui le operazioni erano dirette dai luogotenenti e dai tribuni. Ognuno contava, più che su ogni altro, su se stesso. Allo stesso modo agivano gli assediati: dappertutto attaccavano e si organizzavano. Da una parte e dall’altra si era più avidi di ferire che di schivare i colpi. Grida si mescolavano agli incitamenti, alle esplosioni di gioia, ai gemiti. Lo strepito delle armi arrivava al cielo; le frecce volavano da entrambe le parti.

I difensori della città, quando il nemico allentava un poco la pressione, guardavano ansiosamente lo scontro della cavalleria. E, secondo come andavano le cose per Giugurta, si poteva vederli ora lieti ora preoccupati; e come se i loro li potessero sentire o vedere, davano consigli, incitavano, facevano segnali con le mani, si sporgevano, e si agitavano qua e là come per schivare i colpi o avventarli.

Appena Mario si rese conto di ciò – era lui che comandava in quel settore – volutamente allenta la pressione fingendosi ormai scoraggiato. Lasciò che i Nùmidi stessero a guardare tranquillamente il combattimento del re. Così, mentre quelli erano tutti intenti allo spettacolo, all’improvviso scatena un violento attacco contro le mura. E già i soldati, scalata la muraglia, ne avevano quasi guadagnato la sommità, quando accorrono gli assediati rovesciando contro di loro pietre, fuoco ed ogni altra sorta di proiettili.

I nostri, dapprima resistono. Ma, dopo che le scale, una dopo l’altra, furon fatte a pezzi, quelli che stavano sopra furono ributtati giù. Gli altri, come meglio poterono, pochi sani e salvi, in gran parte massacrati dalle ferite, dovettero ritirarsi. Finalmente la notte fece cessare il combattimento da entrambe le parti.

 

61. Metello dovette constatare il fallimento della sua impresa: la città non si prendeva, Giugurta non combatteva se non con imboscate e sul suo terreno, e l’estate era ormai finita. Abbandona Zama e disloca guarnigioni nelle città che erano passate dalla sua parte ed erano sufficientemente difese dalla posizione naturale e dalle mura. Il resto dell’esercito stanzia a svernare nella provincia romana, al confine con la Numidia.

Ma non passa quel tempo, come altri fanno, tra riposo e mollezze: poiché la guerra poco procedeva con le armi, si accinse a tendere trappole al re servendosi dei suoi amici, usando la loro slealtà al posto delle armi.

Tentò dunque, con molte promesse, di far breccia su Bomìlcare: questi era stato a Roma con Giugurta, e di là, pur dopo la consegna degli ostaggi, era fuggito clandestinamente per evitare il processo per l’uccisione di Massiva; e, data la sua grande amicizia con Giugurta, aveva le maggiori possibilità di tradirlo.

Riuscì dapprima a farlo venire segretamente presso di sé per un colloquio. Poi, garantendogli che, se gli consegnava Giugurta vivo o morto, il Senato gli avrebbe concesso l’impunità lasciandogli tutti i suoi beni, riuscì facilmente a convincere il Nùmida, il quale, a parte la sua costituzionale malafede, temeva che, se si giungeva ad una pace coi Romani, le condizioni di essa includessero la consegna di lui per l’esecuzione capitale.

 

62. Alla prima occasione, Bomìlcare va a trovare Giugurta, che era assai preoccupato e piangeva sulla sua sorte. Lo consiglia e lo supplica, con le lacrime agli occhi, di pensare una buona volta a se stesso e ai suoi figli e al benemerito popolo di Numidia: in tutte le battaglie erano stati sconfitti, il paese era devastato, molti uomini erano stati catturati o uccisi, le risorse del regno frantumate; già troppo spesso il valore dei soldati e la stessa fortuna erano stati messi alla prova. C’era da temere che, s’egli temporeggiava, i Nùmidi pensassero da soli a se stessi.

Con questi ed altri simili argomenti, decise Giugurta alla resa.

Si invia una delegazione al generale romano, per dire che Giugurta avrebbe eseguito i suoi ordini, e senza condizioni consegnava se stesso e il suo regno alla sua discrezione.

Metello immediatamente fece venire dai quartieri invernali tutti i membri dell’ordine senatorio, e tenne consiglio con loro e con quanti altri riteneva adatti. Seguendo la procedura, per decisione del consiglio ordina a Giugurta, tramite la sua legazione, la consegna di duecentomila libbre d’argento, di tutti gli elefanti e di una certa quantità di cavalli e di armi. Dopo che queste condizioni furono eseguite senza indugio, ordinò che gli fossero condotti in catene tutti i disertori dell’esercito romano. La maggior parte di essi, come era stato imposto, gli fu consegnata; ma alcuni pochi, al primo sentore di resa, erano passati in Mauritania, presso re Bocco.

Giugurta, spogliato delle sue armi, dei suoi uomini e del suo denaro, quando venne il suo turno di recarsi a Tisìdio38 per mettersi a disposizione, cominciò ancora una volta a cambiare idea e, per la coscienza sporca, a temere il meritato castigo. Infine, dopo molti giorni passati nell’incertezza – ora, stanco dei rovesci subiti, tutto preferiva alla guerra; ora tra sé e sé pensava quanto fosse brutto il salto dal trono alla servitù – nonostante che avesse perduto, e inutilmente, tanti sostegni, riprese di nuovo la guerra.

A Roma, intanto, il Senato, consultato sulla ripartizione delle province, aveva assegnato la Numìdia a Metello.

 

63. Proprio in quel periodo, ad Utica, capitò che Mario, nell’offrire un sacrificio agli dèi, ebbe dall’arùspice la predizione di un grande e meraviglioso destino: poteva, dunque, fidando nell’aiuto divino, intraprendere ciò che progettava e tentare la fortuna quante volte voleva: tutto gli sarebbe riuscito felicemente.

Mario, già da tempo, era tormentato da un immenso desiderio di raggiungere il consolato; del resto, tranne la nobiltà di stirpe, aveva largamente, per ottenerlo, tutti i requisiti necessari: energia, onestà, notevole perizia nell’arte militare, spirito grande in guerra e moderato in pace, inattaccabile alle seduzioni del piacere e del denaro, avido solo di gloria.

Nato e cresciuto per tutta la fanciullezza ad Arpino39, appena l’età gli consentì di fare il soldato, si diede alla carriera militare, non allo studio della lingua greca e alle frivolezze mondane: così, tra sane attività, rapidamente il suo spirito sbocciò incorrotto. E appena si presentò al popolo per essere eletto tribuno militare, anche se ben pochi lo conoscevano di persona, riuscì eletto senza difficoltà in tutti i quartieri per la reputazione che aveva.

Dopo quella, ottenne progressivamente, una dopo l’altra, le varie cariche, e sempre, in ognuna di esse, si comportò in modo tale da mostrarsi degno di una più importante. Eppure, fino a quel momento – giacché più tardi lo rovinò proprio l’ambizione – non osava presentare la sua candidatura al consolato: in quell’epoca la plebe arrivava alle altre cariche, ma il consolato se lo riservava l’aristocrazia trasmettendoselo di mano in mano. Nessun uomo, che si fosse fatto da sé, era tanto celebre, o tali imprese aveva compiuto, da non essere considerato indegno, e quasi inquinato, per quella carica.

 

64. Quando, dunque, Mario vide che le parole dell’arùspice coincidevano con le sue segrete aspirazioni, chiese a Metello una licenza per presentarsi candidato. Metello, sebbene fosse abbondantemente dotato di valore, di onesta ambizione e di altre doti a cui ogni galantuomo dovrebbe aspirare, pure, aveva l’animo altèro e sdegnoso, vizio comune di tutta l’aristocrazia. Per cui, dapprima, sconcertato dall’insolito caso, espresse il suo stupore per la sua decisione, e amichevolmente gli suggerì di non mettersi in un’impresa tanto sconveniente, e di non avere mire superiori alla sua condizione: non tutti possono aspirare a tutto; doveva dunque accontentarsi di ciò che aveva: insomma, bisognava che evitasse di chiedere al Popolo Romano una carica che a buon diritto gli sarebbe stata negata.

Dopo avere espresso queste ed altre simili argomentazioni, senza che Mario, nella sua fierezza, si piegasse, gli rispose che avrebbe soddisfatto la sua richiesta appena il servizio lo permettesse.

E poiché, più tardi, Mario ritornò spesso alla carica, gli rispose, si dice, che non avesse fretta di andarsene: al consolato avrebbe potuto porre la candidatura insieme con suo figlio: e sarebbe stato sempre troppo presto. Il figlio di Metello, appunto, in quel momento militava anch’egli in Africa agli ordini del padre, e aveva una ventina d’anni.

La risposta, quindi, aveva fatto divampare violentemente in Mario non solo il desiderio dell’ambita carica, ma anche il risentimento contro Metello.

Così, procedette guidato da due pessimi consiglieri, l’ambizione e l’ira. Nessun gesto o parola risparmiava, che potesse acquistargli simpatia in vista delle elezioni; allentò, rispetto a prima, la disciplina dei soldati ch’erano ai suoi ordini nei quartieri invernali; coi trafficanti, che ad Utica erano moltissimi, parlava della guerra con abbondanti critiche e larghe promesse: se gli avessero affidato senza vincoli metà dell’esercito, in pochi giorni avrebbe avuto in catene Giugurta. Aggiungeva che Metello tirava le cose per le lunghe volutamente, perché nella sua vanità e nel suo orgoglio tirannico si compiaceva anche troppo di detenere il comando.

Tutto ciò appariva loro tanto più fondato, in quanto la lunga guerra li aveva rovinati; e poi, per chi è impaziente, non si va mai abbastanza in fretta.

 

65. Nel nostro esercito c’era anche un Nùmida di nome Gàuda, figlio di Mastanàbale, nipote di Massinissa, che Micipsa, nel suo testamento, aveva designato erede in secondo grado (dopo i suoi figli e Giugurta): tartassato dalle malattie, e quindi un po’ corto di cervello.

Metello, quando costui gli aveva chiesto di poter sedere al suo fianco – come si faceva con i re – e poi di dargli una scorta di cavalieri romani, aveva risposto negativamente ad entrambe le richieste: alla prima perché si trattava di un onore concesso soltanto a quelli cui lo stesso Popolo Romano avesse dato il titolo di re; alla seconda, perché quella scorta sarebbe stata offensiva per i cavalieri romani che fossero assegnati come guardia del corpo ad un Nùmida.

A costui, ancor contrariato, si rivolse Mario, incoraggiandolo a vendicarsi del generale e delle sue offese, con l’aiuto suo. Con un discorsetto appropriato, solletica l’orgoglio di quel pover’uomo a cui le malattie avevano tolto parte del senno: egli era un re, un grand’uomo, il nipote di Massinissa! Se Giugurta fosse preso ed ucciso, egli avrebbe avuto senza indugio la sovranità della Numidia: e ciò tanto più presto poteva realizzarsi, se lui, Mario, fosse stato incaricato di quella guerra in qualità di console.

Così, lo stesso Gàuda, e i cavalieri romani, e i soldati, e i trafficanti, si lasciarono indurre, alcuni dalla sua stessa personalità, i più dalla speranza della pace, a scrivere a Roma ai loro parenti ed amici, parlando della guerra con risentimento contro Metello, e chiedendo per Mario il comando supremo.

In questo modo, una gran folla di persone, col più onorevole degli appoggi, sosteneva la sua candidatura al consolato. Per di più, in quel periodo, la plebe, data la costernazione dell’aristocrazia dirigente, suscitata dalla legge Mamilia40, portava in palma di mano gli uomini che s’eran fatti da sé: per Mario, dunque, tutto andava a gonfie vele.

 

66. Frattanto Giugurta, una volta messa da parte l’idea della capitolazione, riprende la guerra: con gran cura organizza ogni cosa, lavora rapidamente, mette insieme un esercito, cerca di tirare a sé, con la paura o prospettando compensi, le città che erano passate al nemico, fortifica le sue posizioni, rifà od acquista armi da difesa e da offesa, ed ogni altro materiale a cui aveva rinunciato quando sperava la pace, si ingrazia gli schiavi addetti ai Romani, e cerca persino di corrompere col denaro le guarnigioni. Insomma non lascia nulla intentato o tranquillo: tutto mette in movimento.

Ebbene, gli abitanti di Vaga (dove Metello, quando Giugurta aveva cominciato a trattare la pace, aveva posto una guarnigione), o meglio i loro capi – giacché il popolino, come sempre, e soprattutto in Numidia, era volubile, turbolento e attaccabrighe, smanioso di novità, nemico della pace e della quiete -, sollecitati dalle insistenze del re, e neppur prima, del resto, staccatisi da lui volontariamente, ordirono una congiura. Poi, accordatisi bene sul piano, ne fissano l’esecuzione a due giorni dopo: era un giorno festivo, celebrato in tutta l’Africa, che prometteva giuochi e piaceri piuttosto che pericoli.

Quando venne il momento, invitarono a casa loro, chi l’uno chi l’altro, centurioni e tribuni militari, e persino il governatore della piazzaforte, Tito Turpilio Silano. Nel bel mezzo del festino, poi, li ammazzano tutti, tranne Turpilio. Quindi aggrediscono i soldati, che erano a spasso disarmati, data la giornata festiva e l’assenza dei superiori. Lo stesso fa il popolino, un po’ perché istruito dai capi, un po’ per passione di simili carneficine; anche se ignoravano i fatti ed i piani, si accontentavano della confusione e della novità.

 

67. I soldati romani, di fronte all’improvviso pericolo, perplessi e sconcertati, non sapevano che fare, e si agitavano disordinatamente. L’accesso alla roccaforte della città, dove erano le insegne romane e gli scudi, era impedito da un presidio nemico, la fuga era preclusa dalla preventiva chiusura delle porte. Per di più, anche le donne e i bambini facevano a gara a precipitare dall’alto degli edifici sassi e quant’altro c’era a portata di mano. Così, non c’era modo di difendersi dal duplice attacco, ed anche i più forti non potevano resistere alle creature più deboli. Buoni e cattivi soldati, valorosi e codardi, venivano massacrati indistintamente senza possibilità di vendetta. In così atroce frangente, tra l’infuriare dei Nùmidi, e con la città chiusa da ogni parte, solo il governatore Turpilio, tra tutti gli Italici, ne uscì sano e salvo: non sappiamo se ciò sia avvenuto per pietà del suo ospite, o per accordo, o per caso. Se non che, un uomo che in mezzo a tale sciagura preferì salvare la vita piuttosto che l’onore, appare un infame mascalzone.

 

68. Metello, appresi i fatti di Vaga, per un po’, nella sua tristezza, si sottrasse ad ogni sguardo. Ma poi, quando al dolore si mescolò lo sdegno, si preparò rapidamente, e con la massima cura, a trar vendetta dell’onta.

Sull’ora del tramonto, fece uscire la legione con la quale svernava e il maggior numero di cavalieri nùmidi, in tenuta leggera; e l’indomani, verso le nove, giunse ad una pianura cinta da piccole alture.

A questo punto, poiché i soldati erano stanchi della lunga marcia e ormai si rifiutavano di proseguire, li informò che la città di Vaga non distava più di un miglio: potevano ben sopportare pazientemente la restante fatica, per vendicare i loro concittadini, tanto valorosi e tanto sfortunati. Per di più, li lusingò con la prospettiva del bottino.

Risollevato in questo modo il morale, diede ordine alla cavalleria di procedere in testa, su largo fronte, e alla fanteria di venir dietro più serrata possibile. Le insegne dovevano restare nascoste.

 

69. Quelli di Vaga, quando scorsero un esercito diretto alla loro volta, dapprima, convinti – come era in realtà – che si trattasse di Metello, chiusero le porte; ma poi, vedendo che i campi non venivano devastati, e che quelli in testa erano cavalieri nùmidi, pensando che si trattasse, invece, di Giugurta, con grandi manifestazioni di gioia si fecero loro incontro. Ma improvvisamente, cavalleria e fanteria, ad un segnale, cominciarono chi a massacrare la folla in giro per la città, chi ad assicurarsi prontamente le porte, chi ad occupare le torri. L’ira, e la speranza di bottino, facevano dimenticare la stanchezza.

Così, gli abitanti di Vaga per soli due giorni godettero del loro tradimento: la città tutta, grande e ricca, fu saccheggiata e punita.

Quanto a Turpilio – il governatore della città, che, come abbiamo detto, si era salvato lui solo – invitato da Metello a discolparsi e non riuscendo a giustificarsi, fu condannato. Poiché non era Romano, ma Latino, subì la fustigazione e la decapitazione.

 

70. Nel frattempo, Bomìlcare – per il cui suggerimento Giugurta aveva iniziato quella capitolazione a cui poi, per paura, aveva rinunciato -, divenuto sospetto al re, e sospettàndone a sua volta, cominciò ad augurarsi che la situazione cambiasse, a cercar tranelli per rovinarlo, a lambiccarsi il cervello giorno a notte.

Finalmente, dopo ogni sorta di sondaggi, riuscì ad ottenere la complicità di Nabdalsa, nobile personaggio, assai ricco, di larga notorietà, e benvoluto dai suoi compatrioti. In assenza del re, generalmente era lui che comandava l’esercito; e provvedeva pure a tutto ciò a cui Giugurta, stanco o preso da affari più importanti, non arrivava; di qui la sua gloria e la sua ricchezza. Fissano dunque, d’accordo, il giorno dell’attentato; quanto al resto, decisero di agire estemporaneamente, secondo le circostanze.

Nabdalsa partì per raggiungere l’esercito che, per ordine di Giugurta, teneva nelle vicinanze dei quartieri invernali romani, per evitare che il nemico devastasse impunemente le campagne. Ma, sgomentato dall’enormità del progettato delitto, non venne all’appuntamento; e questa paura bloccava l’azione.

Bomìlcare, allora, un po’ perché smanioso di concludere l’impresa, un po’ preoccupato che il complice, spinto dalla paura, rinunciando al vecchio progetto, si mettesse in testa idee nuove, gli mandò, per mezzo di persone fidate, una lettera in cui lo accusava di debolezza e di viltà; chiamava a testimoni gli dèi per cui aveva giurato, e gli raccomandava di non barattare le generose offerte di Metello con la loro rovina: la catastrofe di Giugurta era imminente; restava solo a vedere se sarebbe caduto per merito loro o di Metello: stava a lui decidere se preferiva il premio o il castigo.

 

71. Quando la lettera fu recapitata, per combinazione Nabdalsa, dopo faticosi esercizi di allenamento, riposava nel suo letto. Qui, presa visione del messaggio di Bomìlcare, fu colto dapprima dall’apprensione, poi, come può accadere ad un cuore agitato, dal sonno.

Aveva un segretario nùmida, fedele e a lui caro, confidente di tutti i suoi progetti, tranne che dell’ultimo. Questi, sentendo che era stato recapitato un messaggio e pensando, come al solito, ch’egli dovesse occuparsene, entrò nella tenda, e, mentre l’altro dormiva, prese la lettera, imprudentemente lasciata appoggiata sul cuscino al di sopra del capo, e la lesse da cima a fondo. Immediatamente, appreso il complotto, si recò dal re.

Nabdalsa, svegliandosi, poco dopo, non trovando la lettera e rendendosi conto di ciò che era accaduto, dapprima tenta di raggiungere il delatore, poi, non essendovi riuscito, affronta direttamente Giugurta per cercare di placarlo: gli disse che il suo infedele subordinato lo aveva prevenuto in ciò ch’egli stesso intendeva fare; e con lacrime agli occhi lo supplicava, in nome della sua amicizia e del suo fedele passato, di non sospettarlo di un simile delitto.

 

72. A tali parole, il re, ben diversamente da come il cuore gli dettava, rispose senza mostrarsi adirato. Mandati a morte Bomìlcare e molti altri che gli erano risultati complici del complotto, aveva controllato la sua ira, per evitare che dalla faccenda venisse fuori una rivolta.

Ma da quel momento Giugurta non ebbe pace né giorno né notte: di nessun luogo, di nessun uomo, di nessun momento si fidava. Temeva allo stesso modo sudditi e nemici. Stava sempre sul chi vive e si spaventava ad ogni più piccolo rumore. Spesso venendo meno alla sua dignità regale, di notte dormiva in luoghi sempre diversi. Talvolta, destàtosi di soprassalto, afferrava le armi scatenando un putiferio. Insomma, il terrore lo rendeva quasi folle.

 

73. Metello, informato, dai soliti disertori, della fine di Bomìlcare e della scoperta del complotto, di nuovo riprese urgentemente tutti i preparativi, come se la guerra cominciasse allora. Quanto a Mario, poiché continuava a insistere per partire, gli diede il congedo per tornare a Roma, tanto più che, sapendolo di mala voglia e a lui ostile, lo riteneva poco utile.

A Roma, la plebe, venuta a conoscenza delle lettere inviate dall’Africa su Metello e su Mario, aveva appreso volentieri quel che si diceva dell’uno e dell’altro. Al generale, quella stessa nobiltà di nascita, che prima era stata titolo di onore, ora era motivo d’odio; all’altro, l’umiltà dei natali aveva guadagnato ogni favore. Del resto, sia nel caso di Metello, sia nel caso di Mario, valse più lo spirito di parte, che i pregi o i difetti personali.

Per di più, tribuni faziosi aizzavano la folla, in tutte le assemblee chiedevano la testa di Metello, e celebravano, esagerandoli, i meriti di Mario.

Alla fine la plebe si scaldò a tal punto, che tutti gli operai e i contadini – le cui sostanze e il cui credito era tutto nelle loro braccia – abbandonato ogni lavoro, si affollarono attorno a Mario, posponendo le proprie necessità al trionfo di lui.

Così, tra lo sgomento dell’aristocrazia, dopo lunghissimo tempo il consolato fu conferito ad un uomo che tutto doveva a se stesso.

Successivamente, il popolo, interpellato dal tribuno della plebe Tito Manlio Mancino, a chi volesse affidare la guerra contro Giugurta, a grande maggioranza decise per Mario. Veramente, poco prima il Senato aveva assegnato la Numidia a Metello; ma il decreto rimase inoperante41.

 

74. Nel contempo, Giugurta, perduti gli amici – la maggior parte dei quali aveva mandato a morte egli stesso, e gli altri, presi dalla paura, si erano rifugiati chi presso i Romani, chi presso il re Bocco -, poiché la guerra non si poteva fare senza ufficiali, e d’altronde, dopo tanta slealtà dei vecchi, riteneva pericoloso sperimentare la fedeltà di nuovi, era perpetuamente mutevole e indeciso. Non c’era fatto o piano o persona che lo soddisfacesse. Ogni giorno cambiava percorsi e ufficiali, ora marciava contro il nemico, ora verso il deserto. Spesso riponeva le sue speranze nella fuga, ma poco dopo nelle armi. Non sapeva se fidarsi meno del valore o della lealtà dei suoi. In questo modo, su qualunque cosa puntasse, tutto gli era avverso.

Tra questi indugi, ecco che improvvisamente apparve Metello con il suo esercito: Giugurta schierò e preparò i Nùmidi come meglio potè. Quindi si attaccò battaglia. Là dove il re partecipava al combattimento, per un po’ di tempo s’impegnò la lotta; ma il resto delle sue truppe, al primo scontro, fu battuto e messo in fuga.

I Romani s’impadronirono di un certo numero d’insegne e di armi, ma di ben pochi prigionieri: in battaglia, i Nùmidi, generalmente, contano più sulle gambe che sulle armi.

 

75. Dopo quella rotta, Giugurta, sempre più disperando della sua sorte, con i disertori dell’esercito romano e una parte della cavalleria, raggiunse il deserto. Di là passò poi a Tala, città grande e ricca42, in cui si trovava la maggior parte dei suoi tesori e il fasto della corte dei suoi figliuoli.

Appena Metello ne fu informato, benché sapesse che fra Tala e il fiume più vicino si estendessero cinquanta miglia di zona desertica, tuttavia, sperando di concludere la guerra con la presa di quella città, decise di superare ogni difficoltà e di trionfare anche della natura.

Diede dunque disposizione di scaricare le bestie da soma di ogni altro bagaglio ad eccezione del grano occorrente per dieci giorni: per il resto, si portassero soltanto otri ed altri recipienti da acqua. Requisì dalle campagne quanto più bestiame potè, e lo caricò di vasi di ogni sorta, per lo più di legno, raccolti nelle campagne dei Nùmidi. Inoltre, agli abitanti dei dintorni – che dopo la rotta di Giugurta erano passati a Metello – ordinò di portargli ciascuno quanta più acqua potesse, precisando il giorno e il luogo in cui dovevano presentarsi.

Da parte sua, fece caricare il bestiame da soma con l’acqua del fiume, che, come si è detto, rappresentava il rifornimento più vicino alla città. Equipaggiato in questo modo, partì alla volta di Tala.

Ma quando fu giunto al luogo che aveva fissato ai Nùmidi per il convegno, ed era già stato piantato e fortificato il campo, si scatenò improvvisamente dal cielo, si racconta, un tale rovescio d’acqua, che da sola sarebbe stata più che sufficiente per l’esercito. Anche i rifornimenti superarono ogni aspettativa, perché i Nùmidi, come spesso accade dopo una capitolazione recente, avevano moltiplicato il loro zelo. I soldati, d’altra parte, per scrupolo religioso, usarono preferibilmente l’acqua piovana; e ciò contribuì a tenere alto il loro morale: erano convinti che gli dèi li avessero presi sotto la loro protezione.

L’indomani, contro ogni aspettativa di Giugurta, giungono davanti a Tala. I suoi abitanti – che si eran creduti al sicuro per le difficoltà del terreno – benché scossi dal fatto imprevisto, con non minore impegno si prepararono all’urto. Altrettanto fecero i nostri.

 

76. Ma il re, convinto che ormai nulla fosse impossibile a Metello – che con la sua infaticabile attività aveva trionfato di tutto, armi da difesa e da offesa, terreno e stagioni, e infine della natura stessa che di tutti gli altri è sovrana – con i figli e con una gran parte del suo tesoro fuggì di notte dalla città.

Da allora in poi, in nessun posto si fermò più di un giorno o di una notte. Fingeva di aver fretta per motivi connessi con la sua attività, ma in realtà temeva il tradimento e pensava di poterlo evitare con i suoi rapidi spostamenti: simili decisioni richiedevano infatti tempo ed opportunità.

Metello, intanto, vedendo che i cittadini erano pronti alla battaglia, e che la città era difesa dalle fortificazioni oltre che dalla posizione naturale, cinse le mura con una palizzata ed una fossa. Poi, nei due punti che fra i tanti erano i più adatti, fece avanzare le «vigne», elevare un terrapieno e su di esso collocare le torri: così proteggeva i lavori e gli addetti ai medesimi.

Dal canto loro, i difensori si davano da fare e si organizzavano. Insomma, da entrambe le parti non si trascurava nulla.

Infine i Romani, già da un pezzo stanchi di fatiche e di battaglie, quaranta giorni dopo ch’erano giunti, si impadronirono della città. Ma tutto il possibile bottino era stato distrutto dai disertori. Questi, quando videro che le mura venivano smantellate dagli arieti e che la loro situazione era disperata, raccolsero nel palazzo reale l’oro e l’argento e quanto altro vien preso di mira per primo. Là, dopo essersi riempiti di vino e di cibi, tutto distrussero col fuoco, compresa la casa e se stessi. Si inflissero volontariamente la pena che temevano dal nemico vincitore.

 

77. Contemporaneamente alla presa di Tala era giunta a Metello una delegazione inviata dalla città di Leptis, per chiedere ch’egli mandasse sul posto una guarnigione e un governatore: un certo Amilcare, infatti, un nobile intrigante, mirava a rovesciare il governo, e contro di esso non valevano né gli ordini delle autorità né le leggi; se Metello non si affrettava, avrebbe corso gravissimo pericolo l’esistenza loro, alleati di Roma.

In effetti, gli abitanti di Leptis, fin dal principio della guerra contro Giugurta, avevano mandato, prima al console Bestia e poi a Roma, a chiedere l’amicizia e l’alleanza romana. Poi, dopo averla ottenuta, erano sempre rimasti tranquilli e fedeli, eseguendo premurosamente quanto chiedevano Bestia e Albino e Metello.

Ottennero perciò facilmente dal generale quanto avevano chiesto. Furono inviate sul posto quattro coorti di Liguri, e Gaio Annio come governatore.

 

78. Fondata dai Fenici di Tiro – i quali, a quanto si racconta, erano giunti per mare in quei luoghi, profughi dalla loro patria in seguito a discordie civili -, la città è posta tra le due Sirti, così chiamate da una precisa circostanza: verso l’estremità orientale dell’Africa settentrionale43 vi sono due golfi, di diversa ampiezza ma dalle caratteristiche uguali: molto profondi vicino alle rive, più in là, come vuole il caso, profondi in alcuni momenti, guadabili in altri; perché, quando il mare comincia ad ingrossarsi e ad infuriare sotto l’azione dei vènti, le ondate trascinano fango e sabbia, ed anche grossi macigni; sicché l’aspetto dei luoghi si muta col mutare dei vènti: appunto da questo «trascinare» (in greco «syrein») viene il nome di Sirti44.

Della popolazione, soltanto il linguaggio si è trasformato a contatto coi Nùmidi. Le leggi e le abitudini di vita restavano per lo più quelle di Tiro: tanto più facilmente le conservavano perché vivevano lontano dall’autorità regale della Numìdia: tra loro e la parte abitata c’erano molte zone desertiche.

 

79. Ora, poiché, per trattare degli avvenimenti di Leptis, siamo venuti a parlare di quei paesi, non ci pare fuor di luogo ricordare l’eroico gesto di due Cartaginesi, che la circostanza ci ha fatto tornare alla mente.

Quando i Cartaginesi dominavano gran parte dell’Africa, anche quelli di Cirene erano ricchi e potenti. Il territorio che li divideva era uniformemente sabbioso. Non c’era fiume né monte che segnasse il confine tra i due popoli: circostanza che li tenne in dura e lunga guerra fra loro.

Dopo che, da entrambe le parti, eserciti e flotte avevano più volte subito dure sconfitte, e il reciproco logorìo era stato notevole, essi, temendo che un terzo attaccasse vincitori e vinti entrambi spossati, durante un armistizio stipularono una convenzione: in un determinato giorno dovevano partire dalle rispettive città i rappresentanti di ciascuna di esse: il punto in cui si fossero incontrati sarebbe stato riconosciuto come confine tra i due popoli.

Ebbene, da Cartagine furono inviati due fratelli, chiamati Filèni, che si misero in marcia rapidamente. Quelli di Cirene procedettero più lentamente: non saprei se per pigrizia o per circostanze indipendenti dalla loro volontà. Il fatto è che in quei luoghi, proprio come sul mare, certe bufere impediscono di procedere: quando, infatti, in quelle zone piatte e prive di vegetazione, il vento, scatenandosi, solleva dal suolo la sabbia, questa, turbinando violentemente, riempie gli occhi ed il volto, sicché, impedendo la vista, rallenta la marcia.

Quelli di Cirene, rendendosi conto d’essere rimasti indietro, per paura d’aver rovinato tutto e di doverne subire in patria la pena, accusarono i Cartaginesi d’essere partiti in anticipo. Denunziarono l’accordo, preferendo qualsiasi cosa alla sconfitta.

I Cartaginesi chiesero allora una nuova proposta, purché equa. Ed ecco che i Greci di Cirene45 proposero ai Cartaginesi una scelta: o si facevano seppellire vivi nel punto in cui volevano che fosse fissato il confine del loro popolo, o essi stessi, quelli di Cirene, alla stessa condizione sarebbero avanzati fin dove volevano.

I Filèni, approvata la proposta, sacrificarono se stessi e la loro vita alla patria, e si lasciarono seppellire vivi. In quel punto, i Cartaginesi consacrarono degli altari ai fratelli Filèni. Ed altre solennità istituirono in loro onore in città.

Ma torniamo in argomento.

 

80. Giugurta, perduta Tala, si convinse che contro Metello non c’era nulla da fare. Partì dunque, attraverso vasti deserti e con pochi compagni, e raggiunse i Getùli, una popolazione barbara e selvaggia, che in quel tempo neppur conosceva il nome di Roma.

Giugurta riunì quella massa di uomini, e a poco a poco li abituò a stare nei ranghi, a seguire le insegne, ad obbedire ai comandi, e a fare quant’altro richiede il servizio militare.

Parallelamente, con grandi doni e ancor più grandi promesse, tira dalla sua parte gli intimi del re Bocco. Servendosi del loro aiuto, prese contatto con lo stesso re e lo indusse a scendere in campo contro i Romani. Ciò gli riuscì tanto più agevole perché Bocco, all’inizio di questa stessa guerra, aveva inviato ambasciatori a Roma per chiedere un trattato di amicizia; ma ciò, che sarebbe stato per noi assai vantaggioso nella guerra in corso, era stato fatto fallire da pochi uomini accecati dalla cupidigia, abituati a cavar denaro da tutto, onesto o disonesto che fosse. Per di più, Giugurta aveva in precedenza sposato una figlia di Bocco. Per quanto, a questo vincolo non si dà molta importanza in Numidia o in Mauritania. Ogni uomo, secondo i propri mezzi, ha il maggior numero possibile di mogli, chi dieci e chi anche più, e i re, naturalmente, più di tutti. Così l’affetto si disperde nel numero: nessuna è considerata la vera compagna, e tutte sono ugualmente tenute in poco conto.

 

81. I due eserciti si incontrarono in un punto convenuto tra i due. E là, dopo uno scambio di giuramenti, Giugurta volle animare Bocco con le sue parole: i Romani erano ingiusti, di avidità sconfinata, comuni nemici di tutti i popoli; a combattere contro Bocco li moveva il medesimo motivo che li spingeva contro altri popoli, la sete di dominio; per loro, tutti i regni erano potenziali nemici: oggi lui, prima i Cartaginesi ed il re Pèrseo46; in séguito sarebbe stato nemico di Roma chiunque sembrasse loro il più ricco.

Dopo questi ed altri simili discorsi, decisero di muovere alla volta di Cirta, perché là Metello aveva raccolto il bottino e i prigionieri e le salmerìe. Così Giugurta pensava che, o la presa della città sarebbe stata un compenso della fatica, o, se il generale romano fosse venuto in soccorso dei suoi, ci sarebbe stata battaglia.

Astuto com’era, aveva soprattutto fretta di guastare la pace di Bocco con Roma, per evitare che un eventuale rinvio lo facesse rinunciare alla guerra in favore di qualche altra soluzione.

 

82. Il generale, quando seppe dell’alleanza tra i due re, non volle agire alla leggera né offrì battaglia su qualunque terreno, come ormai era abituato a fare dopo i rovesci inflitti a Giugurta. Aspettò invece i due re in un campo ben trincerato, non lontano da Cirta. Riteneva preferibile conoscere prima i Màuri, che gli si aggiungevano come nuovi nemici, e poi attaccare battaglia in posizione di vantaggio.

Proprio allora, un messaggio da Roma lo informa che la provincia di Numidia è stata assegnata a Mario: che fosse stato eletto console, lo aveva già saputo.

Sconvolto dalla notizia più di quanto comportasse la ragione e la sua stessa dignità, non potè trattenere le lacrime né moderare le parole: quell’uomo per altri rispetti così eminente, non seppe accettare quel colpo con la dovuta fermezza. Alcuni attribuivano ciò al suo orgoglio, altri al suo animo onesto sdegnato dall’affronto, molti al fatto che gli veniva strappata dalle mani una vittoria già conquistata. Personalmente siamo convinti ch’egli si struggesse più per il trionfo di Mario che per l’offesa fatta a lui, e che non avrebbe sofferto tanto, se la provincia a lui tolta fosse stata assegnata ad altri che a Mario.

 

83. Neutralizzato dal risentimento – anche perché gli sembrava sciocco occuparsi a suo rischio di una faccenda che ormai riguardava un altro – inviò a Bocco una delegazione per chiedergli di non farsi, senza motivo, nemico di Roma: aveva in quel momento un’ottima occasione di stringere un’alleanza e un’amicizia che era preferibile alla guerra; e per quanto confidasse nelle sue forze, era suo dovere non rinunciare al certo per l’incerto: le guerre si intraprendono facilmente, ma sono assai dure a concludersi; non dipende dalla stessa persona l’inizio e la fine di esse: può incominciarle chiunque, anche un vigliacco; ma vi si pone fine solo quando lo vuole il vincitore; gli conveniva dunque pensare all’interesse suo e del suo regno, senza immischiare la sua prosperità nella situazione rovinosa di Giugurta.

A tali proposte, il re rispose in tono abbastanza pacato: desiderava la pace, ma aveva pietà delle sventure di Giugurta; se si davano a Giugurta le stesse possibilità che a lui, tutto si poteva accomodare.

A sua volta il generale manda a Bocco delle controproposte. L’altro, in parte le accettò, in parte le respinse. Così, tra invii e controinvìi di messaggi, il tempo passava, e, come voleva Metello, la guerra restava in sospeso.

 

84. Intanto Mario, eletto console47, come si è detto, tra l’entusiasmo della plebe, quando dal popolo gli fu affidato il settore di Numidia, se prima era stato ostile alla vecchia aristocrazia, da quel momento le diede addosso con ancor maggiore insistenza e accanimento. Ora ne attaccava i singoli rappresentanti, ora l’intera classe. Ripeteva continuamente che il consolato che aveva conquistato era il bottino della sua vittoria su di essi. E varie altre cose aggiungeva, a proprio vanto e a loro mortificazione.

Intanto, però, in cima ai suoi pensieri era l’occorrente per la guerra: volle colmare i vuoti delle legioni, far venire rinforzi dai vari popoli e sovrani e alleati. Dal Lazio chiama a sé gli uomini più valorosi, conosciuti quasi tutti direttamente in guerra, pochi per la reputazione che s’erano fatta. Dàndosi d’attorno, ottenne che partissero con lui veterani ormai congedati.

Il Senato, sebbene gli fosse ostile, non aveva il coraggio di rifiutargli nulla; anzi, quanto alla leva straordinaria, era stato ben lieto di votargliela: era convinto che la plebe fosse riluttante al servizio militare, per cui Mario non avrebbe ottenuto il necessario per la guerra, o si sarebbe alienato le simpatie del popolino.

Ma anche questa speranza fu delusa: tanta frenesia di andare con Mario aveva invaso la gente. Ciascuno almanaccava di arricchirsi col bottino, di tornare a casa vincitore, ed altri simili miraggi.

Molto aveva contribuito ad infiammarli un discorso tenuto da Mario. Quando, approvate con decreto del Senato tutte le sue richieste, volle arruolare soldati, per infervorare il popolo e dare addosso – come al solito – all’aristocrazia, convocò un’adunata popolare. In quell’occasione così si espresse:

 

85. «So bene, cittadini, che la maggior parte della gente si comporta ben diversamente quando vi chiede il potere, e dòpo che l’ha ottenuto: prima si mostrano attivi, umili e moderati; poi, se la passano nell’indolenza e nell’alterigia. Io, la penso all’opposto. Se l’intera Repubblica è bene più prezioso di un consolato o di una pretura, maggiore deve essere l’impegno con cui si amministra la Repubblica, di quello con cui si sollecita un consolato o una pretura.

Non ignoro neppure quanto sia gravoso il compito che mi addosso, con l’altissima carica che la vostra benevolenza mi ha dato. Preparare una guerra pur risparmiando il pubblico tesoro, dover costringere al servizio militare gente che non si vorrebbe urtare, pensare a tutto all’interno e all’esterno, e farlo in mezzo a gelosie, opposizioni ed intrighi, è più duro, cittadini, di quanto si creda.

E poi, gli altri, se commettono un errore, ecco la loro antica nobiltà, le grandi imprese dei loro avi, la potenza delle parentele naturali o acquisite: tutto questo è per loro un solido usbergo. Per me, tutte le mie speranze sono riposte in me stesso: solo il valore personale e l’integrità morale possono sostenerle: il resto non vale nulla.

Anche di questo mi rendo conto, cittadini: che tutti gli sguardi sono puntati su di me, e che le persone equanimi e giuste sono a me favorevoli – perché sanno che i miei buoni servigi tornano a vantaggio della Repubblica -, mentre l’aristocrazia non cerca che l’occasione di potermi attaccare. Perciò, più attento deve essere il mio sforzo per evitare che voi siate imbrogliati e per ottenere che gli sforzi loro falliscano.

Sino ad oggi, fin da bambino, sono vissuto in modo che ogni fatica e pericolo mi fosse familiare. Non ho certo intenzione, cittadini, di porre fine, ora che sono stato compensato, alla condotta che gratuitamente ho tenuto prima che voi mi manifestaste la vostra generosa benevolenza. Moderarsi, una volta al potere, è difficile solo per loro, che di simulata onestà si rivestono durante le campagne elettorali; ma per me, che tutta la vita ho vissuto nell’esercizio della virtù, la rettitudine è ormai divenuta una seconda natura.

Mi avete affidato il compito della guerra contro Giugurta. L’aristocrazia ne è rimasta profondamente irritata. Considerate, vi prego, in coscienza, se non sia meglio ritornare sulla decisione, e inviare, a questa e ad altre analoghe missioni, qualcuno di quella cricca di aristocratici, un uomo di antico lignaggio, forte di molti ritratti di antenati ma di nessuna esperienza di guerra, perché, naturalmente, in un affare così grave, ignaro di tutto, crei confusione, voglia sbrigarsi, e si prenda magari qualche figlio del popolo a suggerirgli quel che deve fare. Accade appunto assai spesso che un uomo al quale abbiate affidato il comando, si cerchi un altro che comandi per lui.

Ed io conosco, cittadini, uomini che, una volta eletti consoli, si son messi a leggere la storia patria e i trattati di scienza militare scritti dai Greci. Gente che agisce alla rovescia: perché, se cronologicamente l’azione è successiva all’elezione, in pratica deve esserci prima.

Ed ora paragonate, cittadini, l’alterigia di costoro, con me, che mi son fatto da solo. Le imprese di cui costoro leggono o sentono parlare, io in parte ho veduto, in parte ho compiuto di persona. Ciò che essi hanno appreso dai libri, io ho appreso sui campi di battaglia.

Giudicate ora voi se valgono di più i fatti o le parole. Essi disprezzano la mia origine; io la loro ignavia. A me si rinfaccia la condizione sociale; ad essi, la loro infamia.

Ma la natura è una sola, io credo, e a tutti comune: e più nobile è chi più vale. Se si potesse domandare al padre di Albino o di Bestia se me o costoro avrebbero preferito avere per figlio, che cosa credete che risponderebbero, se non che avrebbero voluto i figli migliori?

Se è giusto che disprezzino me, facciano lo stesso con i loro antenati, la cui nobiltà, come la mia, è derivata dai loro meriti.

Sono invidiosi della mia carica: ebbene invidino anche le mie fatiche, la mia integrità, i pericoli che ho affrontato: a tutto questo io debbo quella carica. Ma costoro, depravati dalla loro superbia, vivono come se disprezzassero gli onori che voi conferite; ma li sollecitano come se onorevolmente vivessero.

Ma sbagliano di grosso, se si aspettano insieme due cose tanto opposte: il piacere del dolce far nulla e i premi dovuti al merito.

Anche quando tengono discorsi a voi o in Senato, non fanno altro che tèsser gli elogi dei loro antenati: ricordando le loro nobili imprese, son convinti di acquistarsi gloria essi stessi. Ma è proprio il contrario: quanto più gloriosa fu la vita degli avi, tanto più infame è l’apatia dei nipoti! Proprio così, è: la gloria degli antenati è come una luce che illumina i discendenti: non lascia all’oscuro né il bene né il male ch’essi fanno.

Io non ho, lo confesso, ricchezza di tale luce, cittadini. Ma ho qualcosa di molto più luminoso: posso parlare delle imprese mie.

Guardate quanto sono ingiusti: ciò che essi si arrogano per meriti non propri, contendono ai meriti miei, perché, naturalmente, non ho ritratti da sbandierare, e perché fresca è la mia nobiltà. Ma è ben meglio conquistarsela, che contaminarne una ereditata.

So bene che, se adesso volessero rispondermi, sarebbero prodighi di copiosi e forbiti discorsi. Ma poiché, mentre ricopro l’altissima carica che la vostra benevolenza mi ha dato, dappertutto essi vanno dilaniando me e voi con le loro diffamazioni, non ho voluto tacere, perché non si scambi per cattiva coscienza il mio spirito di sopportazione.

Quanto a me, in coscienza, nessun discorso può recarmi danno, perché la verità non può che tornare a mia lode, e la menzogna è schiacciata dalla mia vita e dalla mia condotta.

Ma poiché si mettono sotto accusa le vostre decisioni, di voi che mi avete addossato l’onore più alto e il più gravoso dei compiti, ancora una volta vi dico di considerare se non dobbiate pentitene. Io non posso, per vostra garanzia, far mostra di ritratti e trionfi consolari dei miei avi; ma, se occorresse, di lance e vessilli e decorazioni ed altre ricompense al valore, e, in più, di cicatrici sul petto. Questi sono i miei ritratti, questa la mia nobiltà, e non ereditata, come la loro, ma acquistata tra mille fatiche e pericoli personali.

Non sono forbite le mie parole. Poco me ne importa. Il merito basta a mostrarsi da sé. Di artifìci oratòri hanno bisogno loro, per coprire con le parole le loro infamie. Neppure il greco ho imparato: non tenevo affatto ad impararlo, se a chi lo insegnava non è servito a nulla per conseguire il valore. Ben altre cose ho imparato, assai più utili alla Patria: colpire il nemico, difendere una posizione, di nulla aver paura se non dell'infamia, sopportare il gelo invernale come l’arsura estiva, riposare sulla nuda terra, far fronte contemporaneamente alle privazioni e alla fatica.

Con questi insegnamenti animerò i miei soldati. E non intendo tener essi nelle ristrettezze e me nell’abbondanza. Non farò mia la gloria, lasciando ad essi la fatica. Questo è comandare utilmente, questo da buon cittadino. Perché, spassarsela tra gli agi e tenére in pugno l’esercito con feroce rigore, significa esser tiranno, non generale.

Così operarono i vostri avi, ed onorarono se stessi e la Patria. Facendosi forte di essi, ma ben diversa da loro, l’attuale aristocrazia disprezza noi, loro emuli, e da voi pretende tutti gli onori, non per suo merito, ma come dovuti.

Ma quegli altezzosi messeri si sbaglian di grosso. I loro avi hanno lasciato loro tutto ciò che potevano: ricchezza, ritratti, luminosissimo ricordo di sé. Ma non hanno lasciato la virtù, né potevan lasciarla: essa sola non si può donare né ricevere in dono.

Mi dànno dello zoticone e del villano, perché non so predisporre sapientemente un banchetto, e non tengo commedianti e non pagherei di più un buon cuoco che un buon fattore. Son colpe, queste, che mi fa piacere confessare, cittadini. Mio padre ed altri valentuomini mi hanno insegnato che le raffinatezze vanno bene per le donne, ma per gli uomini le fatiche, e che le persone dabbene devono aver più gloria che ricchezza: le armi, non il lusso delle case sono il loro vanto.

Ebbene, continuino pure a far sempre ciò che loro piace e che tengono così caro: facciano all’amore, bevano, pàssino la vecchiaia dove han trascorso la giovinezza, a fare bisboccia, schiavi del ventre e della parte più ignobile del corpo. E il sudore, la polvere, e tutto il resto, làscino a noi, che li apprezziamo più dei banchetti.

Ma no! Dopo essersi insozzati delle loro turpitudini, quegli sporchi individui vengono a carpire le ricompense dei galantuomini! Così, nel modo più iniquo, la lussuria e l’ozio, i peggiori dei vizi, non tornano affatto a danno di chi li ha praticati, ma si risolvono in disastro per la Patria innocente.

Ora che ho risposto ad essi quanto esigeva il mio carattere e non la loro scandalosa condotta, parlerò brevemente della situazione politica.

Anzitutto, quanto alla Numìdia, state tranquilli, cittadini. Tutto ciò che finora ha protetto Giugurta, voi l’avete rimosso: la cupidigia, l’incapacità, la vanità. E poi, c’è là un esercito pratico del paese, ma purtroppo più valoroso che fortunato: gran parte di esso è stata logorata dalla cupidigia e dall’avventatezza dei suoi capi. Voi perciò, quanti siete in età di combattere, fate con me ogni sforzo e mettetevi al servizio della Patria. Nessuno si lasci spaventare dalla mala sorte degli altri o dall’arroganza dei generali. Io stesso, in marcia come in battaglia, sarò sempre accanto a voi, non solo a guidarvi, ma anche a condividere i pericoli. In ogni circostanza, me stesso e voi tratterò alla stessa stregua.

Ormai, a dio piacendo, indubbiamente tutto è a portata di mano: la vittoria, il bottino, la gloria. Ma anche se fosse dubbio o lontano, ogni buon cittadino dovrebbe lo stesso accorrere in aiuto della Patria. Nessuno è mai divenuto immortale rifiutando l’azione, né mai alcun padre ha augurato ai suoi figli di vivere in eterno, ma piuttosto, di vivere onesti ed onorati.

Parlerei più a lungo, cittadini, se davvero le parole potessero infondere coraggio nei vili. Ai valorosi ritengo di aver detto abbastanza».

 

86. Dopo questo discorso, Mario, vedendo l’entusiasmo della plebe, si affretta a imbarcare sulle navi vettovaglie, denaro, armi e tutto l’occorrente. Poi fece partire con questo materiale il suo luogotenente Aulo Manlio. Intanto, egli arruolava soldati. Non seguiva la consuetudine e non badava alle classi sociali: prendeva i volontari, per lo più nullatenenti. Alcuni attribuivano ciò alla mancanza di elementi idonei, altri alla politica di popolarità del console, che era stato glorificato e portato in alto proprio da quella categoria di cittadini. Del resto, per un uomo che ha mire di potenza, i più utili sono i più poveri: non sono attaccati ai loro beni, perché non ne hanno, e tutto ciò che comporti qualche guadagno è ai loro occhi onorevole.

Così Mario, partito per l’Africa con effettivi alquanto superiori a quelli decretàtigli, in pochi giorni giunse ad Utica. Le consegne gli vennero fatte dal luogotenente Publio Rutilio: Metello aveva voluto evitare l’incontro diretto con Mario, per non vedere ciò che, soltanto a sentirlo, gli era stato insopportabile.

 

87. Mario, dal canto suo, colmati i vuoti delle coorti ausiliarie, mosse verso un paese fertile e ricco di bottino. Qui, tutto ciò che fu preso lasciò in dono ai soldati. Poi attacca cittadine e città scarsamente difese dalla natura e dagli uomini. Qua e là impegna parecchie battaglie, ma di scarso rilievo.

Intanto le reclute partecipavano alle battaglie senza paura: vedevano che chi scappava veniva preso o ucciso, che i più valorosi se la cavavano meglio, che con le armi si difendevano la libertà, la patria, i genitori e tutto il resto, e si conquistava gloria e ricchezza. Così, in breve tempo, le reclute e i veterani si amalgamarono bene, e il valore fu uguale in tutti quanti.

Dal canto loro, i due re, saputo dell'arrivo di Mario, si separarono per raggiungere, ciascuno per conto suo, terreni di difficile accesso. Così aveva deciso Giugurta, sperando di poter presto attaccare il nemico sparpagliato: i Romani, naturalmente, messo da parte ogni timore, sarebbero stati meno attenti, allentando la disciplina.

 

88. Metello, intanto, partito per Roma, contro ogni sua aspettativa fu accolto con grandi manifestazioni di gioia: plebe e Senato, una volta passate le gelosie, lo avevano ugualmente caro48.

Quanto a Mario, sempre attivo e prudente, dedicava la propria attenzione al suo esercito non meno che a quello nemico, studiava gli elementi positivi e negativi dell’uno e dell’altro, spiava i movimenti dei due re, preveniva i loro piani e i loro tranelli, non dava riposo ai suoi né tregua agli avversari. Più volte aveva attaccato e sbaragliato i Getùli e Giugurta, che tornavano dopo aver saccheggiato i nostri alleati. Non lontano da Cirta aveva costretto a gettare le armi lo stesso re.

Ma quando dovette riconoscere che tutto ciò, per quanto glorioso, non serviva a concludere la guerra, decise di cingere d’assedio, una dopo l’altra, le città che, per gli uomini di cui disponevano e per la posizione che occupavano, erano importanti, a vantaggio del nemico e a svantaggio suo. In questo modo Giugurta, se lasciava fare, si sarebbe spogliato delle sue difese, altrimenti avrebbe dato battaglia.

Bocco, intanto, più volte aveva mandato a Mario messaggi, dicendo che voleva l’amicizia di Roma, e che non si dovevano temere atti ostili da parte sua. Se lo facesse per finta, per piombare addosso all’improvviso con più grave danno, o per volubilità di carattere – facile com’era ad alternare la guerra e la pace – non si può proprio dire.

 

89. Il console, come aveva deciso, affrontava città e cittadine, e ora con la forza, ora con le minacce, ora con le promesse, le toglieva al nemico. Dapprima furono operazioni di lieve portata, perché pensava che Giugurta, per proteggere i suoi, sarebbe sceso in campo. Ma quando seppe che se ne stava alla larga e pensava ad altro, gli sembrò giunto il momento di affrontare operazioni più importanti e più dure.

In mezzo ad un vasto deserto c’era una grande e poderosa città, Capsa49, che si diceva fondata da Ercole Lìbico. I suoi abitanti erano esenti dal pagamento di imposte a Giugurta, e il governo centrale gravava poco su di essi, che erano considerati, perciò, fedelissimi. Contro i nemici era difesa non solo dalle mura, dalle armi e dagli uomini, ma assai più dalle difficoltà del terreno. Tranne i dintorni della città, tutto il resto intorno era desolato, incolto, privo di acqua, infestato dai serpenti, la cui ferocia, come in tutte le bestie, era acuita dalla scarsezza del cibo. Ma, soprattutto, la naturale pericolosità dei serpenti è esasperata dalla sete.

Mario desiderava ardentemente impadronirsi di quella città, sia per motivi strategici, sia perché l’impresa appariva durissima e Metello aveva gloriosamente conquistato la piazzaforte di Tala, analoga per posizione e per difesa, tranne il fatto che vicino a Tala, poco lontano dalle mura, c’erano alcune sorgenti, mentre quelli di Capsa avevano una sola fonte perenne, per di più nell’interno della città: per il resto usavano l’acqua piovana. Là, come in tutte le zone dell’Africa poste lontano dal mare, nelle quali la vita è più aspra, tanto più facilmente si sopportava tale scarsità, perché i Nùmidi generalmente si nutrivano di latte e di cacciagione, senza pretendere sale od altri stimolanti della gola. Il cibo serviva loro contro la fame e la sete, non al piacere o ai bagordi.

 

90. Il console, dunque, fatto il punto della situazione – ma contando, credo, sull’aiuto divino, perché contro difficoltà così grandi non potevano bastare le provvidenze della sua mente umana, tanto più che lo imbarazzava anche la scarsezza del grano, dato che i Nùmidi si occupano più dell’allevamento del bestiame che d’agricoltura, e, per ordine del re, avevano accumulato ogni prodotto in solide piazzeforti; senza contare che la campagna in quella stagione, sul finire dell’estate, era arida e spoglia -, nondimeno, come meglio potè, fece i suoi preparativi con la necessaria prudenza.

Alla cavalleria ausiliaria affidò il compito di far avanzare tutto il bestiame razziato nei giorni precedenti; al suo luogotenente Aulo Manlio diede ordine di dirigersi con le coorti leggere verso la cittadella di Lares50, dove aveva depositato il denaro della truppa e i rifornimenti di viveri: entro pochi giorni, disse, vi si sarebbe recato anche lui saccheggiando il paese. Nascondendo in questo modo il suo piano, si avvia verso il fiume Tànai51.

 

91. Durante la marcia, ogni giorno aveva distribuito equamente all’esercito, per centurie e per squadroni, il bestiame, e con le pelli faceva fare degli otri. Con ciò sopperiva alla scarsezza del grano, e, all’insaputa di tutti, preparava ciò che presto sarebbe servito. Finalmente, al sesto giorno, quando raggiunsero il fiume, era pronta una gran quantità di otri.

Lì pose il campo con fortificazioni leggere, e ordinò ai soldati di prendere un pasto e di tenersi pronti a partire al tramonto del sole. Gettato ogni altro bagaglio, dovevano caricare se stessi e le bestie da soma soltanto di acqua. Poi, quando gli sembrò il momento, uscì dal campo, marciò tutta la notte, e si fermò.

Lo stesso fece la notte successiva. Alla terza, molto prima dell’alba, giunse in un punto accidentato, distante da Capsa non più di due miglia. Qui, tenendosi nascosto più che potè, con tutte le truppe rimase in attesa.

Quando fu giorno, i Nùmidi, che niente temevano dal nemico, uscirono in gran numero dalla città. A questo punto, d’improvviso, egli diede ordine a tutta la cavalleria e ai fanti più veloci di correre verso Capsa e di occupare le porte. Sùbito dopo, rapidamente, venne anche lui, pieno di slancio, senza permettere ai soldati di abbandonarsi al saccheggio.

Quando gli abitanti si resero conto di ciò, la confusione, il terrore, la repentinità del disastro, il fatto, poi, che una parte dei cittadini fosse fuori delle mura in potere del nemico, li costrinsero alla resa.

La città, però, fu incendiata; i Nùmidi adulti uccisi; tutti gli altri, venduti come schiavi; il bottino, diviso tra i soldati. L’atto, contrario al diritto di guerra, non fu commesso per cupidigia o per malvagità del console, ma perché la posizione era vantaggiosissima per Giugurta e di difficile accesso per noi, e quella gente era volubile e infida, e non si era mai riusciti prima a domarla, né con la bontà né col terrore.

 

92. Quando Mario ebbe riportato un così notevole successo senza alcun danno dei suoi, se prima era considerato grande ed illustre, ancor più grande ed illustre si cominciò a considerarlo da allora.

Le sue imprese più avventate si ascrivevano alla sua bravura; i soldati, tenuti con autorità non troppo rigida, e per di più arricchiti, lo portavano alle stelle. I Nùmidi lo temevano come un essere sovrumano. Tutti, insomma, i nostri e i nemici, erano convinti che in lui fosse spirito divino o che tutto gli venisse ispirato dagli dèi.

Il console, intanto, dopo quel successo, passa ad altre città. Poche ne conquista forzando le difese dei Nùmidi; più numerose quelle che distrusse col fuoco, abbandonate dopo il disastro di Capsa. Dappertutto c’era desolazione e massacro.

Infine, impadronitosi di molte posizioni, per lo più senza spargimento di sangue per il suo esercito, affronta un’altra impresa, non altrettanto dura che quella di Capsa, ma non meno difficile.

Non lontano dal fiume Mulucca, che divideva il regno di Giugurta da quello di Bocco, c’era, in mezzo alla pianura circostante, una montagna rocciosa che si ergeva elevatissima, abbastanza larga da accogliere una piazzaforte di modeste dimensioni, con una sola strettissima via d’accesso: tutto il resto era a picco, come se la natura avesse lavorato secondo un piano preciso.

Era questa la posizione che Mario, sapendo che là erano i tesori del re, si accinse col massimo impegno a conquistare. Ma il successo fu dovuto più al caso che ai calcoli umani. La piazzaforte era sufficientemente fornita di uomini e d’armi, c’era una gran quantità anche di grano, e per di più una sorgente. La posizione non si prestava all’uso di terrapieni, delle torri e degli altri ordigni di guerra. La via di accesso alla fortezza era assai stretta, tra due pareti a picco. Le «vigne» avanzavano solo con grave pericolo e senza successo. Quando si erano un poco avvicinate, venivano distrutte dal fuoco o dai macigni. I soldati non potevano reggersi in piedi a lavorare, in quel terreno accidentato, né manovrare le «vigne» senza pericolo. I più arditi cadevano o venivano feriti, e negli altri cresceva la paura.

 

93. Mario, perduti molti giorni e molte fatiche, angustiato, si dibatteva nel dilemma se dovesse abbandonare l’impresa, che sembrava destinata all’insuccesso, o attendere un colpo di fortuna, come tante volte aveva fatto vittoriosamente.

Mentre giorno e notte rimuginava da un pezzo senza decidersi, il caso volle che un Ligure, un soldato semplice delle coorti ausiliarie, uscito dal campo per le provviste d’acqua, poco lontano dal fianco del castello opposto a quello dove si combatteva, scorse, tra i macigni, delle lumache che strisciavano. Cercando di prenderne una, poi un’altra, poi sempre di più, appassionatosi alla raccolta, a poco a poco sbucò quasi alla sommità della montagna. Vedendo che lì non c’era nessuno – si sa bene com’è la natura umana – il desiderio di compiere una prodezza gli fece nascere altre mire. Per caso, in quel punto, era radicato tra i macigni un grosso leccio, dapprima un po’ inclinato in basso, poi raddrizzato e cresciuto verso l’alto, dove la natura porta tutte le piante.

Il Ligure, aggrappandosi ora ai suoi rami, ora alle rocce sporgenti, potè raggiungere la spianata del castello, perché tutti i Nùmidi se ne stavano, attentissimi, dalla parte dove si combatteva. Esaminato tutto ciò che riteneva potesse presto servire, se ne tornò indietro per la medesima via, non più a casaccio, come era salito, ma studiando bene tutto il terreno e guardandosi accuratamente intorno.

Poi si presentò a Mario, lo informò della sua avventura, lo incoraggiò a tentare un attacco al castello dalla parte dove lui stesso era salito, e si offrì come guida nel rischioso cammino. Mario, per verificare quanto il Ligure prometteva, mandò in ricognizione con lui alcuni degli uomini che aveva sotto mano. Questi, ciascuno secondo il suo carattere, riferirono mostrandosi ottimisti o pessimisti sulle possibilità dell’impresa.

Ma il console riprese un po’ di baldanza. Fra i tanti trombettieri e i suonatori di corno, ne scelse cinque dei più agili, e quattro centurioni per appoggiarli: mise tutti agli ordini del Ligure, e fissò l’operazione all’indomani.

 

94. Quando, secondo le istruzioni, sembrò il momento adatto, preparata e sistemata ogni cosa, il Ligure si avviò al punto prescelto. Gli incaricati della scalata, preavvisati dalla loro guida, avevano cambiato armamento e tenuta: capo scoperto e piedi nudi, per vedere ed aggrapparsi meglio tra le rocce, e spada e scudo in spalla, scudo, però, di pelle, del tipo numidico, per via del peso e perché, urtando, facesse meno rumore.

Il Ligure, aprendo la marcia, legava delle corde alle rocce o ad eventuali vecchie radici che sporgessero: perché i soldati, sostenendosi ad esse, fossero agevolati nell’ascensione. In qualche caso, li aiutava di sua mano quando si sentivano impauriti da quell’insolito percorso. Quando la salita era un po’ troppo difficile, li faceva passare avanti a sé uno alla volta, senza le armi, poi'li seguiva portandole lui. Nei punti che apparivano più rischiosi, tentava il terreno per primo, e infondeva coraggio ai compagni salendo e scendendo più volte per la stessa via, facendo poi prontamente largo agli altri.

Dopo lunga e molteplice fatica, finalmente raggiunsero il castello, deserto da quella parte, poiché tutti, come gli altri giorni, se ne stavano dalla parte dov’era il nemico.

Mario fu informato dai suoi messaggeri del successo del Ligure. Allora, per quanto, già prima, per tutta la giornata, avesse tenuto i Nùmidi impegnati in battaglia, da quel momento, incitati i soldati, uscendo in campo egli stesso fuori delle «vigne», cominciò a farsi sotto facendo avanzare la testuggine. Nel contempo terrorizzava da lontano il nemico con le macchine da lancio, con gli arcieri e con i frombolieri.

Ma i Nùmidi, che già più volte avevano rovesciato e incendiato le «vigne» dei Romani, non si tenevano al riparo dietro le mura del castello, ma se ne stavano giorno e notte sui baluardi, insultavano i Romani, accusavano Mario di follia, minacciavano ai nostri soldati le catene di Giugurta: facevano, insomma, gli spavaldi perché le cose andavano loro bene.

Frattanto, mentre tutti, Romani e nemici, erano intenti alla battaglia, e da entrambe le parti lottavano, gli uni per la gloria e l’impero, gli altri per la salvezza, improvvisamente, alle spalle del nemico, squillarono le trombe.

Dapprima cominciarono a fuggire le donne e i bambini, che si erano fatti avanti per vedere; poi quelli che erano più vicini alle mura; infine tutti quanti, armati o inermi che fossero.

A questo punto, ecco i Romani con rinnovato vigore incalzare, sfondare, limitarsi per lo più a ferire senza uccidere, poi passare sui cadaveri degli uccisi, assetati di gloria, facendo a gara nella scalata delle mura, senza che alcuno perdesse tempo a fare bottino.

Così, la temerità di Mario, corretta dal caso, ricavò gloria da un errore.

 

95. Contemporaneamente a questi fatti, giunse al campo romano, con un grosso contingente di cavalleria, il questore Lucio Silla52, che Mario aveva lasciato a Roma per fare il reclutamento nel Lazio e tra gli alleati.

Ma poiché l’occasione ci ha condotto a ricordare un uomo così ragguardevole, è opportuno, mi pare, parlare brevemente della sua personalità: non avrò occasione di esporre altrove la storia di Silla, e, d’altra parte, Lucio Sisenna53, lo storico che meglio e più attentamente di ogni altro ha studiato quelle vicende, non mi pare che abbia parlato con la dovuta obiettività.

Silla, dunque, apparteneva ad una nobile famiglia patrizia, ma ad un ramo ormai quasi estinto per l’apatìa dei suoi avi.

Raffinato cultore di lettere greche e latine, al livello degli uomini più dotti; spirito gigantesco; avido di piaceri, ma più avido di gloria; dissoluto nei momenti di inattività, nel piacere non trovò mai rèmora all’azione (a parte il fatto che avrebbe potuto comportarsi più decorosamente nella vicenda coniugale); abile parlatore, astuto, aperto all’amicizia; vero genio della simulazione, oltre ogni credere; prodigo di molte cose, ma soprattutto di denaro.

Fortunatissimo più d’ogni altro prima della sua vittoria nella guerra civile, in lui la fortuna non fu mai superiore all’operosità, sicché molti si domandarono se fosse più forte o più fortunato.

Quanto a ciò che fece successivamente, non saprei se, a parlarne, sia maggiore la vergogna o il rammarico.

 

96. Ebbene, Silla, giunto, come si è detto, in Africa e al campo di Mario con la cavalleria, senza esperienza né cognizioni di guerra prima d’allora, in breve tempo divenne il più abile di tutti quanti. Ai soldati, poi, si rivolgeva affabilmente. A molti, sollecitato, ad altri di sua iniziativa, egli faceva favori, ma a riceverne era restio; in ogni modo, li restituiva più in fretta che se si trattasse di un debito in denaro. Personalmente, però, non chiedeva la restituzione a nessuno. Piuttosto, si adoperava perché il maggior numero di persone gli fossero debitrici.

Anche con i più umili si intratteneva sia scherzosamente sia seriamente. Nei lavori, nelle marce, nelle ispezioni alle sentinelle, era molto assiduo.

Intanto, però, lungi da deteriore ambizione, non sparlava mai del console né di alcun uomo di merito. Soltanto non tollerava che altri lo superasse in senno o valore. Del resto, superava realmente quasi tutti. Con tale comportamento e tali doti, in breve divenne carissimo a Mario e ai soldati.

 

97. Intanto Giugurta, perduta Capsa ed altre posizioni ben difese e strategicamente preziose, e per di più molto denaro, mandò a dire a Bocco che portasse al più presto le sue truppe in Numidia: era tempo, ormai, di dare battaglia.

Ma quando seppe che quello esitava e, tuttora incerto, calcolava il prò e il contro della guerra e della pace, di nuovo, come già in passato aveva fatto, corruppe con doni i suoi intimi, e allo stesso re promise un terzo della Numidia, se i Romani fossero ricacciati dall’Africa o se almeno egli concludesse la guerra conservando intatto il suo territorio.

Allettato da tale prospettiva, Bocco raggiunse Giugurta con una gran massa di uomini. Congiunti così i due eserciti, attaccarono Mario – che già partiva per i quartieri invernali – a poco più di un’ora dal tramonto, pensando che la notte, ormai prossima, in caso di sconfitta li avrebbe protetti, e in caso di vittoria non li avrebbe ostacolati, pratici com’erano dei luoghi, mentre per i Romani, in entrambe le alternative, le tenebre avrebbero peggiorato la situazione.

Ecco dunque che nel momento stesso in cui il console riceveva da varie parti la notizia dell’arrivo del nemico, il nemico stesso era lì. E prima che l’esercito potesse disporsi a battaglia, o raccogliere i bagagli, prima, insomma, che potesse ricevere ordini o segnali, i cavalieri Màuri e Getùli, non in formazione o in qualsiasi ordine di battaglia, ma alla rinfusa, in gruppi formatisi casualmente, caricano i nostri.

Questi, tutti quanti, sbalestrati di fronte all’improvviso pericolo, ma sempre memori del loro valore, o prendevan le armi, o difendevano dai nemici i camerati che si armavano. Alcuni montavano a cavallo e movevano verso il nemico.

Lo scontro assumeva l’aspetto di un attacco di briganti più che di una vera e propria battaglia. Niente insegne, niente formazioni, cavalleria e fanteria mescolate. Chi indietreggiava, chi veniva massacrato. Molti, mentre combattevano col massimo accanimento contro il nemico che avevano di fronte, venivano colti alle spalle.

Né il valore né le armi erano sufficiente difesa: il nemico era superiore di numero e sparso dappertutto. Infine i Romani, veterani ed ultime leve, dove il terreno o il caso li riuniva, facevano cerchio: così protetti contemporaneamente da tutte le parti, e con un certo ordine, sostenevano l’urto dei nemici.

 

98. Neppure in quella situazione così critica Mario si sgomentò o perdette l’abituale sangue freddo. Col suo squadrone personale, che aveva formato con i più'forti anziché con i più intimi, correva qua e là, e ora soccorreva i suoi dove erano in difficoltà, ora attaccava i nemici dove più compatti si erano piantati. Aiutava i soldati col suo braccio, poiché non poteva dare ordini in quella confusione generale. Già il giorno era finito, e i barbari non allentavano affatto la pressione, anzi, secondo le istruzioni del loro re, convinti che la notte fosse a loro vantaggio, più accanitamente incalzavano.

Allora Mario prese consiglio dalle circostanze, e per dare ai suoi uomini un luogo di raccolta, occupò due colline vicine tra loro: una era troppo piccola per piantarvi il campo, ma aveva un’abbondante sorgente, l’altra era più adatta allo scopo, perché, piuttosto alta ed a picco, richiedeva scarse opere di difesa. Presso l’acqua ordinò a Silla di passare la notte con la cavalleria. Dal canto suo, a poco a poco raccolse insieme i soldati dispersi – mentre non minor confusione regnava tra i nemici – e di buon passo riuscì a condurli tutti sull’altra collina.

Così i due re, costretti dalla difficoltà della posizione, dovettero rinunciare al combattimento. Non permisero però ai loro uomini di allontanarsi troppo, anzi, circondando in massa i due colli, presero posto disordinatamente. Poi, accesi numerosi fuochi, i barbari a modo loro per la maggior parte della notte fecero festa, abban donandosi a danze e a grida incomposte. Persino i loro capi erano baldanzosi: poiché non erano fuggiti, cantavano vittoria.

Tutto ciò i Romani, avvolti nelle tenebre e in posizione più elevata, sorvegliavano agevolmente e ne traevano grande incoraggiamento.

 

99. Mario, pienamente rassicurato dall’inettitudine del nemico, ordinò di mantenere il massimo silenzio e di non sonare neppure i rituali segnali del cambio di guardia notturno. Poi, quando fu quasi giorno, mentre i soldati nemici erano ormai sfiniti dalla stanchezza e da poco addormentati, ad un tratto ordinò alle sentinelle e ai trombettieri delle coorti, degli squadroni e delle legioni, di dar fiato alle trombe tutti insieme, e ai soldati di levare il loro grido e di slanciarsi fuori delle porte.

I Màuri e i Getùli, destati bruscamente da quello strano e orribile frastuono, non furono capaci né di fuggire né di prendere le armi, né di fare o pensare assolutamente nulla: tanto erano rimasti tutti quanti atterriti e quasi istupiditi dal fragore, dalle grida, dalla confusione e dalla paura, senza che alcuno li sorreggesse e mentre i nostri incalzavano.

Infine furono tutti sbaragliati e messi in fuga. Le armi e le insegne militari furono quasi tutte catturate. E in quella battaglia ne furono uccisi più che in tutte le precedenti: il sonno e il pànico avevano paralizzato la fuga.

 

100. Dopo ciò, Mario proseguì la marcia verso i quartieri invernali. Per assicurarsi i rifornimenti di viveri aveva deciso di fermarsi nelle città costiere. La vittoria, però, non lo aveva reso negligente o baldanzoso: come se il nemico fosse sempre in vista, procedeva in formazione quadrata. Silla, con la cavalleria, all’estrema destra; sulla sinistra, Aulo Manlio con i frombolieri e gli arcieri, ed anche le coorti dei Liguri; in testa e alla retroguardia aveva messo i tribuni con la fanteria leggera.

Alcuni disertori – che erano gli elementi meno preziosi e i più pratici dei luoghi – spiavano le mosse dei Nùmidi. E il console, come se non avesse distribuito i compiti, vegliava su tutto, era dappertutto, e lodava e rimproverava secondo i meriti. Armato ed attento egli stesso, esigeva altrettanto dai soldati.

E come durante la marcia, così, nelle soste, fortificava il campo, distaccava a guardia delle porte soldati delle coorti legionarie, e dinanzi al campo cavalieri ausiliari; altri disponeva nei pressi delle fortificazioni, alla palizzata; e ispezionava personalmente i posti di guardia, non tanto perché non si fidasse che i suoi ordini venissero eseguiti, quanto perché, mettendosi alla pari con i soldati, rendeva loro più accètta la fatica, condivisa con il loro generale.

In effetti, Mario, sia in quella, sia nelle altre fasi della guerra contro Giugurta, tenne a dovere l’esercito contando più sul senso dell’onore che sulle punizioni. Molti sostenevano che lo facesse per rendersi popolare; altri, perch’egli provava piacere di quella vita dura – a cui era abituato fin da bambino – e di ciò che gli altri chiamano disgrazia. Fatto sta, però, che gli interessi dello Stato furono salvaguardati altrettanto bene e onorevolmente, che con l’autorità più spietata.

 

101. Al quarto giorno, finalmente, non lontano da Cirta, tornarono precipitosamente, da ogni parte, quelli che erano stati mandati in ricognizione: era chiaro che il nemico doveva essere vicino. Ma poiché, pur venendo dalle direzioni più diverse, tutti segnalavano gli stessi fatti, il console, non sapendo decidersi sullo schieramento da dare alle truppe, attese sul posto senza nulla mutare, per far fronte ad ogni evento.

Così fece fallire le speranze di Giugurta, che aveva distribuito in quattro corpi le sue truppe, convinto che, fra tutti, indubbiamente qualche reparto avrebbe colto il nemico alle spalle.

Intanto Silla, con cui il nemico era venuto a contatto per primo, incoraggiati i suoi uomini squadrone per squadrone, con i cavalli in file più serrate possibile, caricò con le sue truppe i Màuri. Gli altri, restando sul posto, si limitavano a proteggersi dai colpi avventati da lontano; ma se qualcuno capitava loro a portata di mano, lo massacravano.

Mentre così combatteva la cavalleria, Bocco, con la fanteria condottagli da suo figlio Volùce – giunta in ritardo, non aveva preso parte alla battaglia precedente – attacca la retroguardia romana.

In quel momento Mario era in azione all’avanguardia, perché là era Giugurta col grosso dei suoi. Il Nùmida, informato dell’arrivo di Bocco, quatto quatto, con pochi uomini, piega verso la fanteria. A questo punto, in latino – l’aveva imparato all’assedio di Numanzia – grida che per i nostri la battaglia era perduta, e che di sua mano aveva appena ucciso Mario. E mostrava, imbrattata di sangue, la spada che, durante la battaglia, aveva insanguinato uccidendo infaticabilmente i nostri fanti.

I soldati, a quelle parole, più per l’atrocità del fatto che per la credibilità di chi dava l’annuncio, rimasero atterriti. I barbari, invece, si sentirono incoraggiati e accentuarono la pressione sugli sbigottiti Romani.

Poco mancava, ormai, ad una vera rotta, quando Silla, sgominati gli avversari che aveva di fronte, tornando indietro attaccò i Nùmidi di fianco.

Sùbito Bocco è costretto a ripiegare. E Giugurta, mentre voleva sostenere i suoi uomini e non lasciarsi sfuggire di mano una vittoria ormai conquistata, circondato dalla nostra cavalleria, caduti tutti i suoi a destra e a sinistra, lui solo riuscì a sfondare il cerchio sfuggendo ai dardi nemici che gli piovevano intorno.

Mario, intanto, messa in fuga la cavalleria avversaria, corse in aiuto dei suoi, di cui gli era giunta notizia che non reggevano alla pressione nemica.

Finalmente, in tutti i settori, i nemici furono sbaragliati.

Orribile lo spettacolo nella vasta pianura: inseguimenti, fughe, massacri, catture. Cavalli ed uomini abbattuti al suolo. Molti, coperti di ferite, non riuscivano a fuggire né a reggere fermi: si sollevavano un momento, per sùbito crollare. Insomma, tutto, fin dove arrivava lo sguardo, era ricoperto di dardi, di armature, di cadaveri. E il suolo, lordo di sangue.

 

102. Dopo simili avvenimenti, il console, forte di una vittoria ormai inequivocabile, giunse a Cirta, la mèta che si era inizialmente prefissa.

Là, cinque giorni dopo la seconda disfatta dei barbari, si presentarono a lui alcuni inviati di Bocco. A nome del re, chiesero a Mario che gli mandasse due uomini, i più fidi che avesse: intendeva discutere con loro degli interessi suoi e del Popolo Romano.

Quello mandò sùbito Lucio Silla e Aulo Manlio. Sebbene andassero in séguito a invito del re, questi decisero però di parlare per primi, per cercare di mutarne i sentimenti se era alieno dalla pace, o di confermarlo più saldamente in essa se era favorevole.

Silla, dunque – a cui Manlio aveva ceduto la parola, in considerazione non dell’età, ma dell’abilità di parlatore – parlò brevemente al re in questi termini:

«Siamo assai lieti, Bocco, che gli dèi abbiano ispirato un uomo del tuo valore a preferire finalmente la pace alla guerra, a non contaminare la tua personalità superiore, al contatto con la criminalità di un Giugurta, e a toglierci dalla dolorosa necessità di colpire il tuo errore alla pari con la delinquenza di lui. E poi, il Popolo Romano, fin dai suoi umili primordi, ha sempre preferito cercarsi amici piuttosto che servi, ritenendo più sicuro esercitare la sua autorità su chi l’accettasse di buon grado, piuttosto che su chi la subisse per forza.

Per te, in particolare, la nostra amicizia è pure la più vantaggiosa: anzitutto siamo lontani, e ciò ridurrebbe al minimo le occasioni di contrasto, mentre il nostro favore ti sarebbe lo stesso che se fossimo vicini; e poi, sudditi ne abbiamo a sufficienza, ma amici né noi né nessun altro ne ha mai abbastanza.

Meglio sarebbe stato se a questa decisione tu fossi giunto sin da principio. Indubbiamente, dal Popolo Romano assai più bene avresti ricevuto di quanto male ne hai patito.

Ma poiché la maggior parte degli eventi umani sono guidati dalla fortuna, e questa evidentemente ha voluto farti sperimentare sia la nostra forza sia la nostra benevolenza, ora ch’essa lo permette, senza perder tempo continua come hai cominciato. Molte occasioni tu hai per più facilmente cancellare l’errore passato coi futuri servigi. Infine, di questo devi essere profondamente convinto, che Roma, nel campo dei benefici non si lascia vincere da nessuno».

A queste parole, Bocco si mostrò pacato e cortese, e brevemente rispose a sua discolpa: se aveva impugnato le armi, lo aveva fatto senza animo ostile, ma per difendere il suo regno: quella parte della Numidia, da cui aveva con la forza cacciato Giugurta, gli apparteneva per diritto di guerra, ed egli non aveva potuto lasciare che Mario la devastasse. Inoltre, egli aveva in passato inviato ambasciatori a Roma, e la sua amicizia era stata respinta. In ogni modo, ora dimenticava il passato, e, se Mario glielo consentiva, avrebbe inviato ambasciatori al Senato.

Più tardi, però, quando n’ebbe l’autorizzazione, il barbaro mutò avviso, convinto da quegli amici che Giugurta, saputa la missione di Silla e di Manlio, aveva corrotto per timore di ciò che si preparava.

 

103. Frattanto Mario, sistemato l’esercito nei quartieri invernali, partì, con alcune coorti leggère e una parte della cavalleria, verso una zona desertica per assediare una fortezza del re, dove Giugurta aveva messo una guarnigione formata esclusivamente dai disertori.

Ed ecco che nuovamente Bocco – ripensando a ciò che gli era toccato nelle due battaglie, o per suggerimento di altri amici che Giugurta non aveva corrotto – fra tutti i suoi intimi ne sceglie cinque, di provata fedeltà e di grande intelligenza, e ordinò loro di recarsi prima da Mario, e poi, se questi era d’accordo, anche come ambasciatori a Roma, con pieni poteri per negoziare e per concludere in qualsiasi modo la pace.

I cinque partirono immediatamente per i quartieri invernali romani. Lungo il cammino furono attaccati e depredati da briganti Getùli. Cosicché si rifugiarono, impauriti e male in arnese, da Silla, che il console, partito per la sua spedizione, aveva lasciato come suo vice.

Silla, anziché trattarli da nemici sleali, come avrebbero meritato, li trattò con riguardo e generosità. Sicché essi si convinsero che la fama di avidità che avevano i Romani fosse falsa, e Silla, tanto generoso, fosse loro amico.

A quel tempo, molti non conoscevano ancora la liberalità interessata, e si credeva che non si facessero doni se non si era animati da sentimenti altrettanto benevoli, per cui ogni dono era considerato espressione di vera benevolenza.

Essi dunque rivelarono al questore ciò di cui li aveva incaricati Bocco, chiedendogli anche di aiutarli e consigliarli. E non mancarono di magnificare la forza, la lealtà, la grandezza del loro re, e tutto ciò che ritenevano utile o atto a guadagnargli benevolenza.

Silla promise tutto ciò che volevano, suggerì loro come dovevano parlare a Mario e in Senato, e li fece aspettare sul posto per una quarantina di giorni.

 

104. Mario, conclusa la sua missione, tornò a Cirta, dove fu informato dell’arrivo degli ambasciatori. Li fece venire da Utica, e con loro convocò Silla e anche il pretore Lucio Bellieno54 e quanti appartenevano all’ordine senatorio. In presenza di tutti costoro ascoltò le proposte di Bocco.

Agli ambasciatori fu dato il consenso di recarsi a Roma, ed essi chiesero intanto al console una tregua. Silla e la maggior parte dei presenti furono d’accordo su tutto ciò. Alcuni pochi si mostrarono spietati: evidentemente non conoscevano l’incostanza e la mobilità delle vicende umane, che continuamente si capovolgono.

In ogni modo, i Màuri, ottenuto tutto ciò che chiedevano, in tre partirono per Roma accompagnati dal questore Gneo Ottavio Rusone, che aveva portato in Africa il denaro per pagare le truppe; gli altri due tornarono dal re. Con soddisfazione Bocco apprese da essi tutto il resto, ma soprattutto la benevolenza e la sollecitudine mostrata da Silla.

A Roma, i suoi ambasciatori, espresso il rammarico che il loro re avesse commesso un errore cadendo nelle pànie della scelleratezza di Giugurta, chiesero amicizia ed alleanza, e ricevettero questa risposta:

«Roma ricorda sempre i benefìci e le offese. Ma a Bocco, poiché si è pentito, perdona la sua colpa. Alleanza ed amicizia gli saranno concesse quando le avrà meritate».

 

105. Appreso ciò, Bocco chiese per lettera a Mario che gli mandasse Silla, con pieni poteri per trattare i comuni interessi. Gli fu inviato con una scorta di cavalieri e di frombolieri delle Baleari. Ma andarono anche degli arcieri ed una coorte Peligna55 con armamento da vèliti – per fare più in fretta – senza che quelle armi fossero meno valide delle altre contro i leggeri dardi nemici.

Durante il viaggio, però, al quinto giorno, improvvisamente, nella vasta pianura, compare Volùce, il figlio di Bocco, con non più di mille cavalieri. Ma questi, sparpagliati in disordine, fecero temere, a Silla e a tutti gli altri, un numero superiore a quello reale ed un attacco nemico.

Ciascuno allora si preparò, controllò le sue armi, e si tenne pronto. C’era un certo timore, ma, più che altro, ottimismo: erano truppe vittoriose e l’avversario era lo stesso che più volte avevano battuto. Frattanto, i cavalieri inviati in ricognizione riferirono che tutto era tranquillo, come in effetti era.

 

106. Volùce, raggiungendo il questore, lo salutò e gli disse d’essere stato mandato da suo padre per incontrarli e far loro da scorta. Così, per quel giorno e per il successivo, procedettero senza timore, congiuntamente.

Poi, quando fu sera ed era già stato posto il campo, improvvisamente il Màuro, smarrito in volto e tutto spaventato, corse da Silla, gli disse di aver appreso dai suoi ricognitori che Giugurta era vicino, e lo pregò insistentemente di approfittare della notte per fuggire clandestinamente con lui.

L’altro dichiarò fieramente che non aveva affatto paura del Nùmida tante volte sbaragliato: aveva piena fiducia nel valore dei suoi uomini; e poi, anche se fosse imminente una sicura rovina, sarebbe rimasto, piuttosto che, tradendo i suoi soldati, salvare con una fuga infamante una fragile vita che poteva presto spegnersi per malattia.

Tuttavia, quando Volùce gli consigliò che nel corso della notte si mettessero in marcia, approvò la proposta. Ordinò ai soldati di terminare sùbito il rancio, di accendere nell’accampamento il maggior numero possibile di fuochi, e di uscire in silenzio sul far della notte.

Quando già tutti erano stanchi per quella marcia notturna, e Silla, al levar del sole, prendeva le misure per il campo, improvvisamente i cavalieri Màuri annunciarono che Giugurta era accampato un paio di miglia più avanti.

A quella notizia, i nostri furono presi da vero terrore. Erano convinti che Volùce li avesse traditi e gettati in un’imboscata. Alcuni arrivarono a dire che bisognava vendicarsene ammazzandolo, e non lasciargli passare impunito un simile delitto.

 

107. Silla, però, benché la pensasse allo stesso modo, impedì che si recasse offesa al Màuro. Esortò invéce i suoi uomini a mostrarsi forti, ricordando che già spesso, in passato, pochi valorosi si erano battuti con successo contro una folla di nemici: quanto meno si fossero risparmiati in battaglia, tanto più si sarebbero assicurati la salvezza: non era certo onorevole, per chi avesse le armi in mano, chiedere aiuto ai piedi disarmati, e, nel più grave pericolo, volgere al nemico le spalle, nude e cieche.

Poi, chiamando il sommo Giove a testimone del delitto e del tradimento di Bocco, ordina a Volùce, poiché si comportava da nemico, di uscire dall’accampamento.

L’altro, con le lacrime agli occhi, lo supplicò di non credere a una simile infamia: non c’era stato alcun tradimento, ma piuttosto l’astuzia di Giugurta, che evidentemente, dalle sue spie, aveva saputo del loro viaggio. D’altronde, poiché grandi forze Giugurta non aveva, e tutte le sue speranze e risorse dipendevano da suo padre Bocco, riteneva ch’egli non avrebbe osato nulla apertamente, in presenza e sotto gli occhi del figlio di lui. La cosa migliore da fare gli sembrava passare apertamente in mezzo al campo stesso di Giugurta; quanto a lui, mandati avanti o lasciati sul posto i Màuri, sarebbe andato da solo con Silla.

Date le circostanze, il progetto fu approvato. Partirono immediatamente e, sopraggiunti all’improvviso, mentre Giugurta era ancora dubbioso ed esitante, passarono sani e salvi.

Pochi giorni dopo giunsero alla mèta.

 

108. Là, insieme con Bocco, e in grande intimità con lui, c’era un Nùmida, un certo Aspare, che Giugurta gli aveva mandato, appena saputo della convocazione di Silla, come suo ambasciatore e per spiare i progetti di Bocco. C’era pure un Dabar, figlio di un Massugrada, del ceppo di Massinissa (ma inferiore di nascita per parte di donna, dato che suo padre era figlio di una concubina), assai caro al re per le sue buone doti d’ingegno. Bocco, avendone più volte in passato sperimentato le buone disposizioni verso i Romani, lo inviò sùbito a Silla, a riferirgli che egli era pronto a fare ciò che Roma volesse: scegliesse egli stesso il giorno, il luogo e l’ora del colloquio, e non avesse paura dell’inviato di Giugurta: volutamente egli aveva mantenuto intatte le relazioni con lui, per poter trattare più liberamente con Silla gli interessi comuni: altro modo non aveva trovato per proteggersi dalle trame di Giugurta.

Per conto mio, sono convinto che Bocco, non per i motivi che andava dicendo, ma per la sua malafede degna di un Cartaginese, tenesse presso di sé, contemporaneamente, col miraggio della pace, l’inviato romano e quello nùmida: continuava a soppesare in cuor suo se dovesse consegnare Giugurta ai Romani, o Silla a Giugurta; il suo segreto desiderio lo spingeva contro di noi; ma la sua paura giocava a nostro favore.

 

109. Silla, dunque, rispose che alla presenza di Aspare avrebbe detto poche parole; del resto avrebbe parlato in segreto, senza alcun testimone o col minor numero possibile. Intanto spiegò che cosa gli si doveva rispondere.

Quando l’incontro ebbe luogo alle condizioni da lui volute, dichiarò d’essere inviato dal console per chiedere al re se voleva la pace o la guerra. Allora il re, secondo le istruzioni ricevute, lo invitò a ritornare dopo dieci giorni: per il momento non aveva deciso nulla; la risposta l’avrebbe data nel giorno indicato.

Poi ciascuno tornò nei suoi quartieri. Ma, a notte inoltrata, Bocco fece venire segretamente Silla. Entrambi si servirono solo di interpreti fidatissimi, con l’aggiunta della mediazione di Dabar, vero galantuomo e gradito ad entrambi. Il re prese subito la parola.

 

110. «Non avrei mai creduto che io, il più potente re di queste terre e di quante io ne conosca, mi sarei sentito obbligato verso un privato cittadino. In fede mia, Silla, prima di conoscerti, a molti ho dato il mio aiuto dietro loro preghiera, ad altri di mia iniziativa, ma di nessuno ebbi mai bisogno io stesso. Che ciò non sia più così, mentre chiunque altro si rammaricherebbe, io invece son lieto. Un giorno, in avvenire, possa io dire che l’aver avuto bisogno sia stato per me il prezzo da pagare per la tua amicizia, di cui niente è più caro al mio cuore. E puoi averne la prova: armi, uomini, denaro, insomma, qualunque cosa tu voglia, prendi e sèrvitene pure. E, finché vivrai, non credere ch’io ti abbia mai reso grazie abbastanza: ti sarò sempre interamente debitore. Pur ch’io lo sappia, non ci sarà tuo volere che non sia esaudito. Per un re, io credo, è meno umiliante essere superato in guerra che in munificenza.

Quanto agli interessi di Roma, che qui sei stato inviato a curare, eccoti in breve la mia risposta: io non ho fatto guerra al popolo Romano, né mai avrei voluto farla; ma ho difeso con le armi il mio territorio contro uomini armati. Ma rinuncio anche a questo, se a voi così piace. Fate, come volete, la guerra a Giugurta. Dal canto mio non varcherò il fiume Mulucca, che segnava il confine tra me e Micipsa. E non permetterò che lo varchi Giugurta. Se altro tu vorrai chiedermi, degno di me e di voi, non te ne andrai inesaudito.»

 

111. Silla, per quel che riguardava la sua persona, rispose brevemente e modestamente, ma sulla pace e sui comuni interessi si intrattenne a lungo. Infine, disse chiaro e tondo al re che, quanto alle sue promesse, Roma, dal momento che in guerra si era rivelata più forte, non le avrebbe considerate come un gran favore: egli doveva compiere un gesto che apparisse di maggior vantaggio per loro che per lui stesso: e questo gesto era bell’e pronto, poiché egli aveva Giugurta a sua discrezione. Se lo avesse consegnato ai Romani, questi gli sarebbero stati obbligatissimi: l’amicizia, l’alleanza, la parte della Numidia a cui ora aspirava, tutto gli sarebbe venuto naturalmente.

Il re dapprima si rifiutò ostinatamente: c’erano di mezzo vincoli di affinità e di parentela, senza contare il trattato. Per di più, temeva che la sua mancanza di parola gli alienasse l’animo della popolazione, che amava Giugurta e odiava i Romani.

Infine, sollecitato insistentemente, si piegò e promise di fare tutto ciò che Silla voleva. Naturalmente fissarono tutto ciò che ritennero opportuno per fingere la conclusione di una pace, di cui Giugurta, stremato dalla guerra, era ansiosissimo. Ordito così l’inganno, si separarono.

 

112. L’indomani, Bocco chiamò Aspare, l’ambasciatore di Giugurta, e gli disse di aver appreso da Silla, tramite Dabar, che si poteva, a determinate condizioni, porre fine alla guerra: s’informasse dunque delle intenzioni del suo re. L’altro, tutto contento, raggiunse il campo di Giugurta.

Ricevute da lui tutte le istruzioni, a marce forzate ritorna da Bocco dopo otto giorni, per riferirgli che Giugurta era disposto a fare tutto ciò che gli si imponesse, ma si fidava poco di Mario: già più volte la pace concordata con i generali Romani era fallita. Bocco, dunque, se voleva fare gli interessi di entrambi e avere la pace sul serio, doveva cercare di ottenere che tutti gli interessati venissero ad un convegno, con la scusa di trattare la pace, e in quell’occasione consegnargli Silla: una volta ch’egli avesse in proprio potere un tale personaggio, allora sì che il Senato o il Popolo avrebbero autorizzato la conclusione di un trattato, perché un uomo di nobile famiglia, catturato non per sua viltà ma per servire la Patria, non sarebbe stato lasciato in mano al nemico.

 

113. Il Màuro soppesò a lungo fra sé la proposta, e finalmente promise. Se esitasse davvero o volesse solo darlo ad intendere, non saprei proprio dire. Il fatto è che le decisioni dei re, come sono violente, così son mutevoli, e spesso anche contraddittorie.

Poi, fissato il tempo e il luogo per il convegno della pace, Bocco ora chiamava Silla, ora l’ambasciatore del re: li trattava con ogni cortesia, e faceva ad entrambi le stesse promesse. Così quelli erano lieti e fiduciosi.

La notte antecedente al fissato convegno, il Màuro prima convoca gli amici, poi, mutato parere, li congeda: sembra che a lungo sia rimasto a dibattersi, col volto, e gli occhi, e l’animo stesso, in continuo mutamento. E tutto ciò, naturalmente, nonostante il suo silenzio, rivelava i segreti del suo cuore.

Finalmente, fa chiamare Silla, e, dando ascolto al suo consiglio, organizza un’imboscata contro il Nùmida.

Quando fu giorno, e gli riferirono che Giugurta era ormai vicino, egli, con pochi amici e col nostro questore, gli si fece incontro, quasi a rendergli onore, verso un’altura bene in vista per gli uomini ch’erano in agguato.

Anche il Nùmida vi giunse con parecchi suoi intimi, disarmato, secondo gli accordi. D’un tratto, al segnale convenuto, fu assalito da tutte le parti contemporaneamente. Tutti gli altri furono massacrati. Giugurta fu consegnato in catene a Silla, e da questo condotto a Mario.

 

114. Nello stesso torno di tempo, i nostri generali Quinto Cepione e Marco Manlio venivano battuti dai Galli56 e l’Italia tutta ne aveva tremato. Da allora, e sino ai nostri giorni, i Romani rimasero convinti di questo: che tutto il mondo era aperto al loro valore, ma con i Galli si lottava per la salvezza e non per la gloria.

Ma quando giunse la notizia che la guerra in Numidia era conclusa e che Giugurta veniva condotto a Roma in catene, Mario, sebbene assente dalla capitale, fu rieletto console e gli fu assegnata la provincia di Gallia.

Il primo di gennaio, in veste di console, celebrò in gran pompa il trionfo. In quel momento tutte le speranze e tutte le risorse della città furono riposte in lui.

Questo ebook appartiene a Roberto Giuliattini - 5689 Edito da Newton Compton Editori Acquistato il 18/01/2014 10.55.24 con numero d'ordine 646080
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