Dialogo degli oratori
1. Giusto Fabio, spesso ti rivolgi a me per sapere perché la nostra epoca, sterile e priva ormai della gloria che nasce dall’arte del parlare, a malapena si ricordi cosa vuol dire la parola oratore, mentre le generazioni precedenti hanno visto fiorire il talento e la gloria di tanti oratori eccellenti. Con questo nome, oratore, noi indichiamo infatti solo gli antichi, perché i moderni parlatori, prima di chiamarli oratori, bisogna definirli causidici, avvocati, patroni o quello che vuoi tu1.
Io non avrei certo il coraggio di intraprendere una risposta a questa tua domanda e nemmeno di farmi carico di una questione tanto pesante, che mi costringerebbe a disprezzare il nostro ingegno (se dovessi concludere che noi siamo incapaci di raggiungere il livello degli antichi) o il nostro gusto (se fosse chiara la volontà di non farlo); tuttavia, io qui non devo proporre un mio giudizio personale ma rifarmi al discorso di uomini, per quanto lo consenta questa epoca, eloquentissimi: da loro, io giovinetto, ho udito trattare a lungo questo stesso problema.
Dunque non mi serve particolare ingegno, ma memoria che si traduca in ricordi precisi: in questo modo io esporrò i sottili concetti e la loro rigorosa espressione che ho appreso da uomini eminenti, ognuno dei quali portava motivazioni diverse ma comunque accettabili e rivelatrici dei tratti del loro animo e del loro ingegno. Lo farò con lo stesso ordine, con le stesse argomentazioni, senza alterare l’ordine degli interventi.
Non è certo mancato, infatti, chi si assumesse il ruolo di contraddittore e anteponesse l’eloquenza dei nostri tempi al talento degli antichi, maltrattando e deridendo l’antichità.
2. Infatti, all’indomani del giorno in cui Curiazio Materno2 aveva recitato il suo Catone, nel quale si diceva avesse voluto colpire la sensibilità dei potenti poiché, in quella tragedia, proprio come Catone aveva pensato, dimenticandosi di se stesso, e poiché crescevano sulla tragedia le discussioni in città, si recarono a casa sua Marco Apro e Giulio Secondo.3 Erano allora le personalità più rinomate del nostro foro e io non li ascoltavo con grande passione solo durante i processi, ma li seguivo anche tra la gente e in casa loro con grande bramosia di apprendere, indotto da quel certo ardore giovanile che mi spingeva a cogliere quanto più potevo anche delle loro conversazioni private, delle opinioni personali, dei segreti della loro preparazione remota, anche se molti sostenevano con malizia che Secondo non fosse sciolto nell’eloquio e che Apro avesse ottenuto fama di grande oratore più per il suo talento e per la forza espressiva in lui connaturata che per una solida cultura letteraria.
In realtà Secondo era corretto, conciso e fluido nel dire quanto bastava; Apro aveva un grande bagaglio di conoscenze e quanto alla cultura letteraria, non la ignorava: la disprezzava, piuttosto, convinto di poter conseguire maggior merito di energia e sforzo intellettuale, se gli altri avessero pensato che il suo talento non si sorreggesse grazie ad artifizi estranei all’oratoria.
3. Entrammo dunque nella camera di Materno. Lo trovammo seduto mentre teneva tra le mani il libro che aveva recitato il giorno prima.
Allora prese la parola Secondo: «Materno, dunque le maligne dicerie non ti distolgono dall’amare la sfrontatezza di Catone? O quel tuo libro l’hai ripreso in mano per revisionarlo attentamente e mandar fuori un Catone magari non migliore ma certo apportatore di minori rischi, togliendogli quelle parti che si prestano a interpretazioni malevole?».
E lui: «Quello che Materno deve a se stesso, lo leggerai e quello che hai già ascoltato, lo riconoscerai. Anzi, se Catone non ha detto tutto, ci penserà Tieste, alla prossima declamazione; su di lui ho ideato una tragedia che già ha preso forma nella mia anima. È per questo che sto affrettando la pubblicazione del Catone, per togliermi il pensiero precedente e poter dedicare tutti i miei sforzi al nuovo lavoro».
«Dunque scrivere tragedie non ti sazia mai», interloquì Apro, «e consumi tutto il tuo tempo prima attorno a Medea, ora attorno a Tieste, trascurando arringhe e processi. E dire che al foro ti chiamano tante cause di amici, il patrocinio di tante colonie e municipi, ai quali a stento potresti far fronte, anche se non ti fossi addossata la nuova fatica di un Domizio4 e di un Catone; anche se non volessi continuare ad associare vicende nostre e nomi romani alle tragedie inventate dai Greculi.5»
4. E Materno: «Certo dovrei sentirmi turbato da questa tua severità, ma le nostre discussioni sono diventate così frequenti e lunghe che si sono trasformate in consuetudine. Tu non la smetti mai di perseguitare e incalzare i poeti. A me tu rimproveri la riluttanza ad assumermi cause, ma io ogni giorno sostengo la difesa della poesia contro di te.
Dunque sono felice che ci sia stato offerto un arbitro6 che mi impedisca di comporre versi per il futuro o, piuttosto, mi costringa a fare ciò che da tempo desidero: abbandonare le angustie delle cause forensi, per le quali ho già speso anche troppo sudore, e dedicarmi all’eloquenza più sacra e autorevole».
5. Intervenne Secondo: «Però, prima che Apro mi ricusi come arbitro, devo fare quello che fanno i giudici onesti ed equilibrati che si astengono da quei processi in cui è manifesto che una delle due parti gode, presso di loro, di maggior favore.
Non vi è alcuno, infatti, che ignori come nessuno mi sia più intimo per consuetidine di amicizia e comunanza di vita di Saleio Basso7, uomo straordinario e poeta perfetto. Dunque se a essere messa sotto accusa è la poesia, non vedo un reo che meglio si presti all’accusa».
«Saleio Basso e gente come lui che coltivano lo studio della poesia», replicò Apro, «e cercano la gloria che da quella deriva, perché dall’attività forense non possono trarne, non hanno di che preoccuparsi. Infatti io, non potendosi trovare un arbitro per questa disputa8, non accetterò che Materno sia difeso assieme ad altri, ma solo lui accuserò davanti a voi: lui, nato alla eloquenza virile e tipica dell’oratore di razza, grazie alla quale si possono ottenere e poi conservare amicizie, stringere relazioni, legare a sé intere province, rinuncia a questa attività. E niente, più di essa, si può trovare nella nostra città di più utile ai vantaggi personali, di più dolce e piacevole, di più generoso di prestigio, di più bello nella considerazione dei concittadini, di più significativo per essere conosciuti presso ogni popolo e in ogni parte dell’impero.
Diamo per scontato che tutto ciò che progettiamo e realizziamo debba tendere al nostro vantaggio: allora che cosa vi è di più sicuro che esercitare quell’arte grazie alla quale tu puoi sempre proporti, quasi fossi in armi, come presidio agli amici, aiuto agli estranei, salvezza ai minacciati? E di contro: terrore e sgomento per i detrattori e per i nemici, mentre tu sei tranquillo e difeso, per così dire, da un potere quasi perpetuo.9
Quando le circostanze sono favorevoli, si comprendono l’efficacia e i vantaggi dell’oratoria dalla possibilità di offrire ad altri rifugio e tutela. Ma se il pericolo incombe sull’oratore stesso, per Ercole, nemmeno lorica e spada sono, durante un combattimento, difesa più sicura dell’eloquenza per un accusato in pericolo: nello stesso tempo scudo e arma da offesa, con cui dunque difendersi o con cui attaccare in tribunale, nel senato, davanti al principe.
Non è molto che Eprio Marcello niente altro ha avuto da opporre ai senatori ostili se non la sua eloquenza, con cui, armato e minaccioso, potè avere la meglio sulla sapienza di Elvidio, certo feconda ma poco esercitata e poco esperta in simili contrasti.10 Null’altro voglio aggiungere sull’utilità dell’oratoria, perché ritengo che, sotto questo punto di vista, il mio Materno ben poco voglia contraddirmi.
6. Voglio ora parlare del piacere che procura l’eloquenza forense: è un piacere godibile non nella brevità di un istante, ma tutti i giorni e, quasi, tutte le ore.
Che cosa potrebbe accadere di più gradevole per un animo libero, nobile e nato per i piaceri onesti che vedere la sua casa sempre piena e frequentata da una folla di ottime persone? E sapere che quello è un omaggio tributato proprio a lui, non al suo denaro, non alla sua mancanza di eredi, non al prestigio di una carica pubblica! Che anzi sono proprio coloro che non hanno eredi, i ricchi, i potenti a recarsi spesso da un giovane, magari povero, per raccomandargli la difesa propria o quella degli amici.
E non credo proprio che il piacere di ingenti ricchezze e di un illimitato potere procurino una gioia paragonabile alla vista di uomini di antica nobiltà, vecchi, confortati dalla stima del mondo intero, costretti a confessare di non possedere il piacere più grande pur possedendo ogni cosa.
Che codazzo di uomini in toga accompagna le uscite dell’oratore! E che spettacolo solenne davanti al mondo intero! Quale rispetto attorno a lui nei tribunali! Che compiacimento quando si alza in piedi e se ne sta lì, nel silenzio, eretto mentre su lui solo è appuntata l’attenzione generale! E poi: la gente che accorre e lo circonda e fa proprio qualsiasi sentimento di cui l’oratore si sia investito!
E sto passando in rassegna le gioie evidenti di chi ha il dono della parola, gioie palesi anche agli occhi degli inesperti: ben più grandi sono quelle meno evidenti e, anzi, note solo agli stessi oratori. Se un oratore pronuncia un’orazione accuratamente preparata, la gravità e la fermezza del suo dire trovano misura nella sua gioia. Se invece, non senza qualche apprensione, affronta un tema nuovo, cui da poco va applicandosi, la sua stessa tensione intellettuale ne favorisce il buon effetto e acuisce il piacere.
Ma il piacere più grande nasce dall’audacia estemporanea e dalla temerità dell’improvvisazione: il talento assomiglia a un terreno su cui si seminano e si fanno crescere con lunga fatica delle piante, ma quelle che nascono spontaneamente recano la gioia maggiore.
7. Devo dire (e adesso sto parlando di me stesso) che io non hoprovato la gioia più grande il giorno in cui mi fu concesso il laticlavio11; e nemmeno il giorno in cui, uomo nuovo e svantaggiatodal mio luogo di nascita12, ho ricevuto la questura o il tribunatoo la pretura; provo la gioia più grande ogni volta che, entro i limiti della mia abilità oratoria per quanto modesta essa sia, riesco a difendere con successo un accusato o trattare, con buona fortuna, una causa davanti ai centumviri13 o, davanti al principe, tutelare o difendere proprio i liberti o i suoi stessi procuratori. Allora davvero mi pare di volare più alto del tribunato, della pretura, del consolato.
Allora davvero mi pare di possedere quello che non può nascere fuori di noi e non può essere concesso né per atto del sovrano né per favore popolare. E dunque? Quale arte concede fama e vanto paragonabili a quelli dell’arte oratoria?
E chi è in Roma più illustre di un oratore, non solo agli occhi degli uomini d’affari e d’azione ma anche dei giovani e degli adolescenti, a patto che onesta sia la loro indole e fondata la speranza sul loro futuro? Quali nomi vengono prima fatti conoscere dai padri ai loro figli?
Chi la turba ignorante o il popolino minuto nomina più spesso, indicandone anche il passaggio col dito? Perfino gli stranieri e i viaggiatori, appena arrivano in città, cercano coloro che hanno sentito citare nei loro municipi e nelle loro colonie e hanno quasi la presunzione di riconoscerli.14
8. Sostengo anzi che questo Marcello Eprio, di cui ho appena parlato, e Crispo Vibio15 (più volentieri mi servo di esempi freschi e recenti piuttosto che remoti e dimenticati) sono famosi a Capua e Vercelli16, dove si dice siano nati, non meno che in ogni remota parte del mondo.
E questo non succede per i duecento milioni di sesterzi che costituiscono il patrimonio del primo o per i trecento milioni dell’altro (anche se si può pensare che a simili ricchezze siano arrivati proprio grazie all’eloquenza) ma per la loro stessa eloquenza. La potenza e la virtù divina di quest’arte hanno fornito in ogni epoca molti esempi di quali livelli di fortuna possa raggiungere un uomo con le forze del suo ingegno; invece costoro che ho menzionato, sono vicini a noi e non siamo obbligati a conoscerli per sentito dire, ma li abbiamo sotto gli occhi.
Infatti quanto più sordida e abietta è stata l’origine di costoro, quanto più evidenti sono la povertà e le ristrettezze che li hanno circondati alla loro nascita, tanto più essi sono esempi luminosi e idonei a dimostrare l’utilità dell’oratoria autentica. Infatti, senza l’aiuto di illustri natali, senza ricchezze che li potessero sostenere, nessuno dei due essendo di integerrimi costumi, essendo deturpato uno dei due perfino da un difetto fisico17, sono ormai da molti anni i più potenti della città e, fino a quando è piaciuto loro, principi del foro; ora sono i più intimi amici di Cesare, ottengono ogni cosa e lo stesso principe li rispetta e li ama. Vespasiano infatti, vecchio venerabile e amantissimo della verità, comprende bene che tutti gli altri suoi amici poggiano sui benefici che lui ha concesso, che lui può aumentare ma anche dirottare su altri; ma Marcello e Crispo hanno portato alla sua amicizia ciò che non hanno ricevuto né potrebbero ricevere dal principe.
Fra tanti e tanto grandi beni, un piccolo posto lo tengono le immagini degli avi, le iscrizioni e le statue; tutte cose che non vengono certo disprezzate, per Ercole, rispetto alla ricchezza e al potere personale di cui si trovano molti disposti a dir male, ma nessuno che li rifiuti18. Di questi onori, dunque, di questi ornamenti, di queste ricchezze vediamo piene le case di coloro che, fin dalla prima adolescenza, si sono dedicati alle cause forensi e allo studio dell’oratoria.
9. Infatti le poesie e i versi, nei quali Materno desidera spendere tutta la sua vita (è da qui che è partito ogni nostro discorso) non regalano alcuna dignità al loro autore e non fanno crescere le sue ricchezze. Ci si guadagna invece un piacere breve, e una gloria vuota e senza vantaggi pratici.
Materno, le tue orecchie possono respingere fin che vuoi ciò che sto dicendo e ciò che ho in animo di dire, ma chi ci guadagna se, nelle tue opere, Agamennone e Giasone usano splendide espressioni? C’è qualcuno che torna a casa ben difeso e in obbligo con te? Chi mai va a prendere, saluta e accompagna per via il nostro Saleio, certamente egregio poeta o, se ti pare che gli rechi più onore, famosissimo vate?
Puoi star tranquillo che se qualche suo amico, se un suo parente, se egli stesso si troverà in qualche guaio, ricorrerà a Secondo oppure a te, Materno, e non certo perché sei un poeta e gli puoi costruire dei bei versi. Di versi, a casa di Basso, ne nascono di splendidi e piacevolissimi. Ma ecco il loro destino: in tutto un anno, giorno dopo giorno e anche per gran parte delle notti, Basso martella e lima un unico libro e poi, per di più, deve andare in giro a chiedere che qualcuno si degni di ascoltarlo e neppure gratis; infatti deve prendere in affitto un locale, allestire la sala, procurare le sedie, distribuire i programmi.
Beh, a questo punto, ammettiamo pure che la sua recitazione ottenga un gratificante successo: tutta la sua gloria dura un giorno o forse due, molto simile a quell’erba o a quel fiore che vengono recisi innanzitempo e non arrivano mai a essere frutto maturo e compiuto: non ne tira fuori alcuna amicizia, non una clientela, non un beneficio che resti saldo nell’animo di qualcuno, ma un instabile clamore, vuote voci, una gioia che presto vola via.
Un istante fa ho lodato la splendida e unica liberalità di Vespasiano, perché ha donato a Basso cinquecentomila sesterzi. Ah, certo, è bello meritare col proprio talento la benevolenza del principe; ma quanto più bello sarebbe, visto che così richiede la situazione familiare, coltivarsi da soli, rendersi amico il proprio genio, far prova della propria generosità!
E puoi aggiungere che i poeti, per poco che vogliano costruire e rielaborare qualcosa di valido, devono abbandonare le riunioni amicali e i piaceri della vita cittadina; devono lasciare ogni altro incarico per ritirarsi, come dicono loro, in selve e boschi cioè in solitudine.
10. Nemmeno la stima e la notorietà, che dicono essere la loro sola aspirazione e l’unico premio per la loro fatica, non vengono conseguite in ugual misura da oratori e poeti, poiché i mediocri poeti non li conosce nessuno, quelli bravi li conoscono in pochi.
Quando mai la notizia di letture, magari raffinatissime, si spande per ogni parte della città? E men che meno è conosciuta nelle province. Quanti sono quelli che arrivano a Roma dalla Spagna, dall’Asia (per non palare dei nostri Galli) e cercano Saleio Basso? Magari qualcuno c’è, ma appena lo vede, se ne appaga e passa via come dopo aver ammirato un quadro o una statua.
Però non desidero che le mie parole siano fraintese: io non voglio distogliere coloro cui la natura ha negato il talento oratorio dal comporre poesia, se con questa loro attività riescono a trascorrere piacevolmente il tempo libero e far ricordare il proprio nome tra quelli famosi.
Del resto io giudico sacra e venerabile ogni forma di espressione e ogni suo singolo genere: credo infatti che si debbano anteporre agli studi delle altre discipline non solo l’arte di voi poeti tragici o l’enfasi sonora dell’epica, ma anche la piacevolezza della poesia lirica e la mollezza di quella elegiaca, l’asprezza del giambo e gli scherzi dell’epigramma e ogni forma che l’arte dell’esprimersi assuma.
Ma diversa è, Materno, la questione che io ho aperto con te, poiché, mentre la tua natura ti porterebbe proprio nella cittadella dell’eloquenza, preferisci andartene vagabondo e, pur essendo arrivato già al culmine, ti perdi in sciocchezze. Se tu fossi nato in Grecia, dove è tutt’altro che disonorevole praticare le arti ludiche, e gli dèi ti avessero dato il nerbo e le forze di un Nicostrato19, non sopporterei che dei muscoli smisurati e nati per combattere andassero sprecati in esercizi leggeri, come il lancio del giavellotto o del disco; allo stesso modo, ora, io ti richiamo dagli auditori e dai teatri al foro, alle cause, alle vere battaglie. Oltre a tutto non puoi nemmeno rifugiarti in quell’argomento con cui si difendono tanti, cioè che la poesia, rispetto all’eloquenza, infligge offese meno gravi.
Ribolle infatti la forza del tuo splendido temperamento e ti metti a recare offese non in difesa di un amico, ma in difesa di Catone. E ciò è molto più pericoloso. L’offesa non può essere scusata da un obbligo professionale, dalla fedeltà alla causa patrocinata, dalla foga dell’improvvisazione: sembra, anzi, che tu abbia scelto una persona in vista, le cui parole sono dunque particolarmente autorevoli, dopo averci a lungo pensato.
Mi rendo conto della possibile obiezione: in questo modo si hanno grandi consensi e queste sono le parole che vengono apprezzate particolarmente negli auditori e poi riferite in ogni discussione. Ma allora smettila con il pretesto della quiete e della tranquillità, dal momento che vai a cercarti un avversario più potente.
A noi bastino le cause private e le dispute su controversie tipiche del nostro tempo. E se in queste è talora necessario offendere l’orecchio di qualche potente per un amico in pericolo, almeno è degna di lode la fedeltà all’amico e giustificata la nostra indipendenza di giudizio.»
11. Apro aveva detto queste cose, come suo solito, con molto trasporto e col volto teso. Materno, con un sorriso pacato, gli replicò: «Io mi preparavo a mettere sotto accusa gli oratori con la stessa ampiezza che Apro ha usato per tesserne l’elogio: infatti pensavo che, dopo il panegirico degli oratori, passasse a criticare i poeti e a denigrare chi si dedica alla poesia; ma lui, con una certa abilità, ha spuntato le mie armi poiché ha concesso a quelli che non sono in grado di sostenere cause, di dedicarsi alla poesia.
Dal canto mio, io sono probabilmente in grado di ottenere con qualche sforzo dei successi nella trattazione delle cause; tuttavia ho cominciato a farmi un po’ di nome portando in scena le mie tragedie, soprattutto quando, nel mio Nerone, ho abbattuto la prepotenza di Vatinio, malvagia e profanatrice perfino della sacralità degli studi. E se oggi il mio nome gode di una qualche notorietà, penso che questa mi sia venuta più dalla gloria poetica che da quella forense.
E dalla fatica del foro ho ormai deciso di affrancarmi. Non desidero affatto questi codazzi che accompagnano le uscite o la ressa di quelli che desiderano proporre il loro omaggio più di quanto io desideri i bronzi e le statue che hanno fatto irruzione, contro la rnia volontà, in casa mia.
È infatti l’innocenza a tutelare, molto più dell’eloquenza, la condizione e la sicurezza di ognuno e io non temo di dover prendere, prima o dopo, la parola in senato se non in occasione di un pericolo altrui.
12. Partiamo da quei boschi e da quelle selve e da quello stesso desiderio di restare soli che tanto Apro ha criticato: essi mi recano tanto piacere che io annovero tra i primi vantaggi della poesia il fatto che essa non viene composta in mezzo al chiasso né con un cliente seduto davanti alla porta né tra le miserie e le lacrime degli accusati: l’animo, invece, si apparta in luoghi puri e innocenti dove può rifugiarsi in un divino asilo.
Da qui si è generata la parola, questo è il suo sacrario: in tale veste e in tale forma, per la prima volta, essa operò a vantaggio dei mortali entrando in quei cuori ancora puri e incorrotti dai vizi: così parlavano gli oracoli. Invece la pratica di questa eloquenza dedita al guadagno e grondante sangue è tutta moderna, nata dai cattivi costumi e, come tu stesso ammettevi, Apro, inventata come arma d’offesa.
Al contrario, quell’epoca fortunata (o età aurea per dirla al nostro modo di poeti) non conosceva né avvocati né crimini e abbondava invece di poeti e vati che cantavano le azioni oneste e non si piegavano a difendere quelle malvage.
E nessuno godeva di una gloria più grande o di un più augusto onore dei poeti: prima di tutto davanti agli dèi (di cui si credeva che annunziassero i responsi, partecipando ai loro banchetti); poi presso quei sacri re che erano di origine divina, vicino ai quali mai abbiamo sentito dire che ci fosse qualche causidico, ma Orfeo e Lino20 e, se vuoi risalire ancora più indietro, lo stesso Apollo.
Se poi questa visione sembra leggendaria o troppo fantasiosa, certo, Apro, mi concederai che presso i posteri la gloria di Omero non è minore di quella di Demostene e la fama di Euripide o Sofocle non può essere circoscritta in confini più angusti di quella di Lisia o Iperide.21 E al giorno d’oggi tu troverai molte persone più disposte a criticare la gloria di Cicerone che quella di Virgilio e nessun libro di Asinio22 e Messalla23 è tanto nominato come la Medea di Ovidio24 o il Tieste di Vario.25
13. Quanto poi al confrontare la sorte dei poeti e quel loro star bene in sodalizio con la vita inquieta e ansiosa degli oratori, non mi sento affatto imbarazzato. Anche se le lotte e i pericoli che sostengono, sono la via migliore al consolato, io preferisco la solitudine serena e tranquilla di Virgilio, cui del resto mai vennero meno il favore di Augusto o la notorietà presso il popolo romano.
Lo testimoniano le lettere di Augusto26, lo testimonia anche la gente comune che, dopo aver udito in un teatro alcuni versi di Virgilio, si alzò tutta in piedi e, siccome lo stesso poeta era per caso lì presente come spettatore, gli tributò un omaggio quasi come fosse Augusto.
E, se veniamo ai nostri tempi, Secondo Pomponio27 non appare certo inferiore ad Afro Domizio28 sia per dignità di vita sia per la persistenza della fama.
E questi tuoi Crispo e Marcello, che tu mi richiami come esempio, che cosa hanno di tanto desiderabile nella loro sorte? Il fatto che essi provano paura o la incutono agli altri? Il fatto che ogni giorno si chiedano loro dei favori e proprio i destinatari di questi favori si arrabbiano con loro? Il fatto che sono tanto impastoiati dall’adulazione che a chi comanda non sembrano mai sufficientemente schiavi e a noi mai sufficientemente liberi? E poi come definiresti questa loro grande influenza? Ci sono dei liberti che ne hanno altrettanta.
Lasciami usare un’espressione di Virgilio: che le dolci Muse mi rapiscano nei luoghi a loro consacrati, presso quelle loro fonti, lontano dalle preoccupazioni, dagli affanni, dalla costrizione a fare ogni giorno qualcosa controvoglia; e che io non debba, pieno di trepidazione, sperimentare l’infido foro che ci rende forsennati e inseguire la fama che ci toglie il colore dal viso.
E che non mi sveglino il mormorio dei clienti o un liberto ansimante; che non debba scrivere, preoccupato per il futuro, un testamento servile a mia garanzia.29 E dunque non voglio possedere più di quanto io possa lasciare a chi voglio, dal momento che anche per me arriverà il giorno fatale: scenderò nella tomba non triste e invelenito contro gli altri, ma gioioso e incoronato di fiori. E che nessuno, per onorare la mia memoria, debba chiedere un voto al senato o il permesso dell’imperatore30».
14. Materno, appassionato e quasi ispirato, aveva appena finito di parlare, quando entrò nella sua stanza Vipstano Messalla.31 Egli vide i volti tesi e intuì che il discorso, tra loro avviato, era di grande importanza: «Forse sono stato poco tempestivo», si scusò, «nell’intervenire ad una riunione segreta in cui magari state preparando la difesa per qualche processo».
«No, no», lo tranquillizzò Secondo, «anzi mi avrebbe fatto piacere che tu arrivassi prima. Intanto ti sarebbe piaciuto molto l'abilissimo discorso che ha fatto il nostro Apro per esortare Materno a rivolgere tutto il suo talento e tutto il suo zelo all’attività forense. Ma anche Materno ti sarebbe piaciuto con la sua difesa gioiosa della poesia: un’orazione risoluta, davvero utile a difendere i poeti e più simile ad una recitazione poetica che non al discorso di un oratore.»
«Davvero», replicò Messalla, «avrei provato grandissimo piacere da questa discussione. Ma ciò che più mi emoziona è il fatto che voi, uomini di grande prestigio e oratori del nostro tempo, non solo esercitiate le vostre abilità nelle pratiche forensi e negli esercizi di declamazione, ma intraprendiate anche delle discussioni che nutrono la mente e che recano il godibilissimo conforto della cultura e della letteratura, non solo a voi che in questa discussione siete impegnati, ma anche a coloro che la ascoltano.
Allora, per Ercole, vedo che tu, Secondo, vieni elogiato per aver dato, con la tua narrazione della vita di Giulio Africano32, ai tuoi contemporanei la speranza di molti libri di ugual livello. Altrettanto viene rimproverato Apro, perché ancora non ha preso le distanze dalle dispute scolastiche e preferisce impegnare il suo tempo libero secondo le abitudini dei nuovi retori piuttosto che seguire il modello degli oratori antichi.»
15. Apro di rimando: «Messalla, tu non vuoi proprio smetterla di ammirare tutto ciò che è vecchio e decrepito, mentre invece deridi e disprezzi le tendenze del nostro tempo. Molte volte ti ho ascoltato mentre, dimentico dell’eloquenza tua e di tuo fratello, sostenevi che oggi non c’è alcun oratore che regga il confronto con gli antichi. È un’affermazione piuttosto ardita, mi pare, visto che tu non temevi alcuna critica malevola, negandoti da solo quella gloria che invece molti ti concedono».
«Non rinnego una sola parola di quello che ho detto», rispose Messalla, «anche perché sono convinto che né Secondo né Materno e nemmeno tu, Apro, che talora ti accanisci su posizioni opposte, siate di diverso avviso. Vorrei anzi che qualcuno di voi indagasse le cause di questa abissale differenza33, su cui molto spesso io rifletto, e ce la riferisse.
C’è poi un argomento in cui alcuni trovano conforto e che in me invece acuisce il desiderio di sapere. Devo infatti constatare che anche ai Greci è accaduto che si sia creata una enorme distanza tra Eschine e Demostene34 da una parte e, dall’altra, Sacerdote Nicete35 e gli altri, se pure ve ne sono, che buttano per aria Efeso e Mitilene36 con le acclamazioni e gli applausi dei loro discepoli. Ed è una distanza maggiore di quella che si è creata tra Cicerone e Asinio rispetto ad Afro, all’Africano, a voi stessi.»
16. «Hai sollevato una questione importante», interloquì Secondo, «e certo degna di essere esaminata: ma chi potrà farlo meglio di te che hai saputo unire alla tua immensa erudizione e al tuo formidabile talento anche la diligenza nell’indagine e la riflessione?»
«Vi aprirò ogni mio pensiero», rispose Messalla, «ma prima mi dovete promettere di collaborare anche voi a questa nostra conversazione.»
«Te lo prometto per me», fu pronto a dire Materno, «e per Secondo: lui e io esploreremo quelle argomentazioni che comprenderemo essere state non dirò da te trascurate, ma lasciate a noi. Che Apro sia contrario per principio, lo hai detto tu stesso poco fa. Ed è evidente che egli si sta ormai preparando a combatterci e a non lasciar passare a cuor leggero questa nostra comunanza nella lode agli antichi.»
«Davvero è così», fu pronto Apro, «perché non voglio lasciare inascoltata e indifesa questa nostra epoca: la vostra cospirazione la condannerebbe. Prima però voglio sapere da voi chi è che definite antico e soprattutto quale generazione di oratori voi vogliate delimitare con questa definizione.
Io, infatti, quando sento dire antichi penso a uomini nati e vissuti molto tempo fa: penso a Ulisse e a Nestore, la cui epoca precede di quasi mille e trecento anni la nostra.37 Voi invece citate Demostene e Iperide che, come tutti sanno, ebbero il loro massimo fulgore ai tempi di Filippo e Alessandro, ai quali peraltro sopravvissero.38
Chiaro dunque che tra noi e l’età di Demostene sono passati poco più di trecento anni. Se uno rapporta questo tempo alla debolezza del corpo umano, potrebbe anche reputarlo lungo; ma al confronto dello scorrere dei secoli in questo infinito tempo, si tratta di un intervallo breve e di un periodo molto vicino a noi.
Infatti se, come scrive Cicerone nell’Ortensio39, il vero, grande anno40 è quello in cui si riproduce esattamente la stessa posizione del cielo e delle stelle e questo grande anno comprende dodicimilanovecentocinquantaquattro di quelli che sono i nostri anni, il vostro Demostene che voi proponete come vecchio e antico, ha vissuto non solo nel nostro stesso anno, ma perfino nel nostro stesso mese.
17. Ma ora vengo agli oratori antichi. Tra di essi, penso, non siete soliti citare Menenio Agrippa41 (che può sembrare antico) per anteporlo agli eloquenti oratori dei nostri tempi. Ecco allora Cicerone e Cesare e Celio42 e Calvo43 e Bruto44 e Asinio e Messalla: proprio non vedo come possiate ascrivere questi oratori ai tempi antichi piuttosto che alla contemporaneità.
Prendendo come punto di riferimento Cicerone, egli fu ucciso, come scrive il suo liberto Tirone, sotto il consolato di Irzio e Pansa, il 7 di dicembre di quell’anno in cui il divo Augusto entrò in carica assieme a Quinto Pedio come console supplente45, al loro posto.
Cominciate a contare i cinquantasei anni nei quali il divo Augusto resse lo Stato; aggiungete i ventitré di Tiberio; poi i quasi quattro di Caligola, i ventotto di Claudio e di Nerone, quell’unico ma interminabile anno di Galba, Otone e Vitellio, i sei anni che sono passati da quando, col suo felice principato, Vespasiano monta la guardia allo Stato46: dalla morte di Cicerone a oggi sono passati centoventi anni, cioè quanto può arrivare a vivere un uomo.47
Io stesso ho conosciuto in Britannia un vecchio che affermava di aver partecipato alla battaglia in cui i Britanni avevano cercato di tener lontano e respingere dalle loro coste Cesare che si apprestava a invadere quella regione. Dunque se egli, che resistette in armi a Cesare, si fosse recato a Roma (o prigioniero o di sua spontanea volontà o per qualche altro caso del destino) avrebbe potuto ugualmente ascoltare lo stesso Cesare e Cicerone e anche partecipare ai nostri processi.
All’ultima distribuzione di denaro48, del resto, voi stessi avete visto molti vecchi che erano in grado di affermare di aver ricevuto una o due donazioni già dal divo Augusto.
Da ciò si può dedurre che essi avrebbero potuto ascoltare Corvino e Asinio (il primo vissuto fino alla metà del principato di Augusto, il secondo quasi fino alla fine). Dunque non potete spezzare un secolo in due e definire antichi o vecchi degli oratori, che gli orecchi degli uomini appartenuti a una stessa generazione avrebbero potuto conoscere, connettere e congiungere fra di loro.
18. Ho fatto queste premesse, per dimostrare che, se qualche titolo di merito deriva ai tempi in cui vivono, dalla fama e dalla gloria di questi oratori, ciò è comune alla nostra età e, anzi, appartiene più a noi che a Servio Galba49 o a G. Carbone50 e a quanti altri possiamo, a buon diritto, chiamare antichi. Sono infatti ispidi, ruvidi, rozzi, informi: in nessun aspetto li avessero mai imitati il vostro Calvo o Celio o Cicerone!
Voglio proprio affermare questa premessa, che le forme e i generi dell’espressione cambiano al variare dei tempi; poi, con maggior forza e maggior coraggio, affronterò la questione. C. Gracco51, confrontato a Catone il Vecchio52, appare più nutrito e copioso, e del resto Crasso53, messo vicino a Gracco, appare più levigato e ornato. Cicerone, poi, è più chiaro, più colto ed elevato di entrambi. E Corvino è più pacato, più suadente, più attento alla scelta lessicale di Cicerone.
Dunque non posso perdere tempo a dire chi sia più oratore di tutti: mi basta aver provato che l’eloquenza non ha un solo modo di presentarsi ma che anche in quelli che voi chiamate antichi si possono distinguere aspetti diversi. E non è detto che essere diversi significhi essere più brutti; è anzi colpa della ristrettezza mentale degli uomini lodare ciò che è vecchio e ostentare sufficienza nei riguardi di ciò che è moderno.
Non possiamo certo dubitare che ci sia stato qualcuno che, piuttosto che Catone, ammirava Appio Cieco.54 E neanche a Cicerone sono mancati i critici, come ben si sa: lo giudicavano enfatico, gonfio, non abbastanza conciso, ridondante oltre ogni possibile limite, verboso e poco attico.
Certo avete letto le lettere che Calvo e Bruto hanno mandato a Cicerone55, da cui si può agevolmente comprendere che lo stesso Calvo appariva a Cicerone esangue ed eccessivamente scarno. E di Bruto pensava che fosse prolisso e incoerente. Cicerone era a sua volta criticato da Calvo, perché fiacco e snervato; Bruto, per usare le sue stesse parole, diceva che Cicerone era debole e slombato.
Basta che tu me lo chieda: io ti dirò che ognuno ha formulato una critica vera. Poi parlerò dei singoli, adesso mi occupo di tutti in generale.
19. Infatti gli ammiratori degli antichi sono soliti porre una sorta di confine dell’antichità nella personalità di Cassio Severo56 che viene accusato di essere stato il primo a deviare dall’antica, diritta via dell’eloquenza. Io affermo che egli ha operato la scelta di un diverso modo di esprimersi, non perché avesse scarso talento o fosse ignorante di letteratura, ma intelligentemente e a ragion veduta.
Si rese conto, ed è la mia tesi di poco fa, che cambiavano i tempi, cambiavano i gusti di chi ascoltava e dunque dovevano cambiare anche la forma e la veste dell’eloquenza. La gente di una volta, poco educata e rozza, sopportava facilmente quelle orazioni tanto lunghe da sembrare goffe e, anzi, lodava chi riuscisse a far passare un giorno intero in tali verbosità.
Erano in auge la lunga preparazione dell’esordio, le riprese degli eventi nel loro generarsi più lontano, l’ostentazione nel suddividere all’infinito la materia e di graduarne quanto più possibile gli argomenti e ogni altro artifizio che viene insegnato negli aridissimi libri di Ermagora e Apollodoro.57 Se poi qualcuno dimostrava di aver messo un po’ il naso nelle discipline filosofiche e ne infiorettava un po’ le sue orazioni, veniva innalzato dalle lodi fino al cielo.
Non c’è di che stupirsi: erano novità assolute e, fra gli oratori stessi, pochissimi erano quelli che conoscevano i precetti dei retori e le verità bandite dai filosofi.
Ma, per Ercole, ormai questa è roba alla portata di tutti e in ogni uditorio non vi è persona che abbia, se non proprio un’istruzione, almeno una infarinatura culturale. Dunque anche all’eloquenza si devono aprire vie nuove e mai percorse, grazie alle quali l’oratore possa evitare la noia di chi ascolta: soprattutto quei magistrati che amministrano la giustizia poco seguendo il diritto e la legge, ma basandosi sul potere della loro carica; costoro i tempi del processo non se li lasciano imporre, ma li fissano loro. Non pensano che l’oratore vada ascoltato con pazienza finché arriva al cuore della questione, ma spesso intervengono, lo ammoniscono, lo richiamano se divaga, gli giurano che hanno fretta.
20. Chi oggi potrebbe sopportare un oratore che esordisce parlando della sua malattia? (Gli esordi di Corvino sono pressapoco di questo tipo.) Chi avrebbe la pazienza di ascoltare cinque libri contro Verre? Chi riuscirebbe a tollerare quegli scritti lunghissimi che noi leggiamo in difesa di M. Tullio e Aulo Cecina e che vertono tutti su una eccezione e su una formula58?
Al giorno d’oggi il giudice previene l’oratore e se non è stimolato e sedotto dall’incalzare degli argomenti o dal colorito linguaggio delle sentenze o dal nitore e dall’eleganza delle descrizioni, prende in antipatia il suo interlocutore.
Anche la folla di chi assiste e gli uditori che sopraggiungono per caso e poi se ne vanno, si sono ormai abituati a pretendere un eloquio brillante e fiorito, perché non si sopportano più nei processi quelle anticaglie tristi e disadorne, come, in un teatro, non si sopporterebbe più la recitazione di un Roscio o di un Turpione.59
Inoltre i giovani che stanno forgiando la loro cultura e che seguono gli oratori per imparare, vogliono non solo ascoltare ma anche avere qualcosa di significativo e degno di ricordo da riportare a casa: se lo comunicano tra loro e lo scrivono in provincia e nelle colonie sia che un pensiero abbia brillato per una penetrante e breve sentenza, sia che un passaggio abbia acquisito il nitore di uno squisito tocco di poesia.
Infatti, ormai, all’oratore si chiede anche il decoro della poesia: poesia che non sappia di stantio come i versi di Accio e di Pacuvio60, ma appaia tratta dal sacrario di Orazio, Virgilio e Lucano.
Dunque per assecondare il gusto e il giudizio di costoro, è nata la generazione dei nostri oratori, più bella e più adorna. E le nostre orazioni non sono meno efficaci per il fatto di recare anche piacere alle orecchie dei giudici.
Spero che tu non ritenga gli edifici sacri eretti in questi tempi, meno solidi solo perché risplendono di marmi e rifulgono d’oro, e non sono invece costruiti con pietre rozze e tegole informi.
21. Ora, molto semplicemente, vi voglio dire che su certi oratori antichi a stento trattengo le risate, e altri mi fanno quasi addormentare. E guardate che non mi riferisco a uno qualsiasi, un Canuzio61, un Attio62, per non parlare di un Furnio63 o di un Toranio64 e nemmeno di tutti quegli altri che nello stesso ospedale esibiscono la loro scheletrica magrezza. No, anche Calvo che, da quanto so, ha lasciato ventun libri65, mi soddisfa soltanto in una o due delle sue meschine orazioni.
E vedo che altri condividono questo mio giudizio: quanti sono quelli che leggono le orazioni di Calvo contro Asicio e Druso66? Invece, per Ercole, le accuse scritte contro Vatinio67 (specialmente la seconda) sono compulsate da tutti gli studiosi: infatti sono arricchite di parole a effetto e di sentenze, scritte apposta per incontrare l’orecchio dei giudici. Dunque anche Calvo conosceva il meglio e non per difetto di volontà non riuscì a dire in maniera più sublime ed elegante, ma perché gli mancavano talento e nerbo.
Cosa devo aggiungere? Tra le orazioni di Celio piacciono, nella loro interezza o in alcune parti, quelle in cui possiamo riconoscere lo splendore e l’eleganza della nostra epoca.
Ma la sciatteria del lessico, i suoni mal combinati, il periodare frammentato puzzano di vecchio: e non penso proprio che ci sia qualcuno tanto amante delle cose antiche da apprezzare proprio quei passaggi in cui Celio evidenzia la sua vecchiezza.
Io posso capire Cesare, il quale, preso com’era dalla grandezza dei suoi pensieri e delle sue azioni, non ha ottenuto nell’eloquenza risultati all’altezza del suo divino talento. E lascio, per Ercole, Bruto alla sua filosofia dato che anche i suoi ammiratori confessano che, in lui, l’oratore vale meno del filosofo.
Ma è certo che nessuno legge l’orazione di Cesare in difesa di Decidio Samnite68 o quella di Bruto in difesa del re Deiotaro69 e le altre orazioni ugualmente fiacche e prive di qualsiasi slancio. Fanno eccezione quelli che ammirano le loro poesie: perché Cesare e Bruto hanno anche composto dei versi e li hanno pure consegnati alle biblioteche; sono versi non migliori di quelli di Cicerone, ma più fortunati, perché nessuno li conosce.
Anche Asinio, che pure è nato in tempi più recenti, mi pare che abbia studiato assieme ai Menenii e agli Appii. Sicuramente si è tenuto come modelli Pacuvio e Accio non solo nelle sue tragedie, ma anche nei suoi discorsi, tanto il suo stile è duro e arido.
Un’orazione assomiglia al corpo umano: questo è bello quando non risaltano le vene e non si contano le ossa, ma il sangue, sano e ben regolato, riempie le membra e, mentre gonfia i muscoli, li copre di un bel colore e ne rende gradevole la bellezza.
Non voglio incalzare con le mie critiche Corvino, perché non è dipeso da lui se non ha raggiunto lo stile gioioso e sfolgorante dei nostri tempi. E sappiamo quanto la forza del suo animo e del suo ingegno gli sarebbero bastate a raggiungere ciò che voleva.
22. Ed eccomi a Cicerone, il quale ha dovuto sostenere con i suoi contemporanei la stessa battaglia che io sto combattendo contro di voi70. I suoi avversari, infatti, ammiravano gli antichi ed egli, invece, anteponeva loro l’eloquenza dei suoi tempi: soprattutto nel gusto egli supera gli oratori del suo tempo.
È stato il primo, infatti, a dare qualche ornamento all’orazione, a scegliere con cura le parole, a comporre armoniosamente il periodo. Tentò inoltre un periodare più brillante e coniò alcune sentenze ben congegnate, soprattutto in quelle orazioni che compose ormai vecchio e prossimo alla fine71, cioè dopo aver fatto i più evidenti progressi e aver appreso dall’esercizio e dall’esperienza quale fosse il miglior genere di oratoria.
Infatti le sue prime orazioni72 non sono esenti da limiti propri dell’antichità: i suoi esordi sono lenti, le narrazioni sono prolisse, le digressioni sono inutilmente ampollose. È restio a commuoversi, quasi mai si accalora; poche volte i suoi periodi si chiudono lasciando la sensazione di armonia e una improvvisa illuminazione: niente che se ne possa scegliere, niente di cui appropriarsi. Accade la stessa cosa per un edificio rustico che ha certamente pareti solide e destinate a durare nel tempo, ma non è abbastanza levigato e splendente.
Io penso che un oratore debba assomigliare a un padre di famiglia ricco e onorato. Non gli può bastare un tetto che lo protegga dalla pioggia o lo ripari dal vento: la sua casa deve anche essere una gioia per gli occhi e deve essere arredata non solo con le suppellettili necessarie all’uso ma anche con oggetti d’oro e gemme, piacevoli da prendersi in mano e da guardarsi tutte le volte che si vuole.
L’oratore deve evitare tutto quello che è vecchio, obsoleto e rancido; nessuna parola sia contaminata, se posso dire così, dalla ruggine; nessun periodo abbia la struttura lenta e svigorita della prosa annalistica. E si deve rifuggire dalle scurrilità volgari e insulse; si deve variare la composizione dei periodi che non possono chiudersi sempre tutti con la stessa clausola.
23. Non vale nemmeno la pena di fare dell’ironia su espressioni come rotae Fortunae, ius verrinum e su quella famosa clausola esse videatur che Cicerone ti sbatte là, in tutte le orazioni, ogni due periodi, come una sentenza73. Queste espressioni non le riferisco volentieri e, anzi, molte ne ho tralasciate: ma sono proprio queste che riscuotono ammirazione e che vengono imitate da quelli che si definiscono oratori antichi.
Non faccio nomi, mi basta aver indicato questa genia di persone. Del resto stanno davanti ai vostri occhi quelli che leggono Lucilio trascurando Orazio e Lucrezio trascurando Virgilio. Sono gli stessi per cui l’eloquenza di Aufidio Basso74 e Servilio Nomano75 è miserabile se paragonata a quella di Sisenna76 o Varrone77, gli stessi che disprezzano gli abbozzi di discorso dei retori moderni e ammirano quelli di Calvo.
Gli stessi, anche, che parlano davanti ai giudici secondo la moda antica con la conseguenza che gli uditori non vanno loro dietro, la gente non li ascolta e a malapena li sopporta il loro cliente: a tal punto sono funerei e ineleganti che quella loro salute che tanto vantano, non viene dal loro vigore, ma dal digiuno.
Certo i medici non sono entusiasti di quella salute che si ottiene attraverso continue preoccupazioni ed è poca cosa potersi dire non malato; io l’oratore lo voglio forte, brillante, allegro. Insomma: è vicino a una malattia colui di cui si può solo dire che è sano.
Ma voi, eloquentissimi uomini, date lustro alla vostra generazione col miglior genere di oratoria, come è nelle vostre possibilità e come dav vero fate.
Messalla, vedo infatti che tu imiti gli aspetti più brillanti degli antichi e voi, Materno e Secondo, sapete mescolare parole luminose ed eleganti alla severità dei vostri periodi; tale è il buon gusto nello scegliere gli argomenti e nell’ordinarli, tale è la vostra ricchezza, quando la causa lo richiede, tale è la vostra concisione, tutte le volte che è possibile, tale è il decoro del periodare e l’evidenza dei concetti, tanto bene esprimete i sentimenti e controllate il vostro impeto oratorio che sicuramente i posteri vi daranno quel riconoscimento che, al presente, viene ostacolato dalla malevolenza e dalla gelosia.»
24. Apro aveva appena finito di parlare che Materno gli replicò: «Eccoli qua, li riconoscete?, gli slanci e gli ardori del nostro Apro! Ma che impetuoso torrente per difendere la nostra epoca78! Lui, gli antichi, li ha attaccati da ogni parte e con abbondanza d’armi. E da loro ha preso non solo ingegno e ispirazione, ma anche erudizione e scaltrezza e usa le loro stesse armi per aggredirli.
Comunque, Messalla, tu non devi venir meno alla tua promessa. Noi non stiamo cercando un difensore degli antichi e non paragoniamo nessuno di noi, nonostante le lodi che abbiamo appena ricevuto, a quelli che Apro ha tanto aspramente criticato. E poi, neanche lui la pensa davvero così; solo che ha voluto prendersi la parte del bastian contrario secondo una vecchia abitudine che anche i nostri filosofi hanno reso famosa.
Allora esponici non un panegirico degli antichi, che sono lodati abbastanza dalla loro stessa fama, ma le cause per cui la loro eloquenza è così decaduta, tanto più che, mettendoci a far calcoli, abbiamo scoperto che solo centoventi anni sono passati dalla morte di Cicerone»79.
25. Ecco che finalmente Messalla prende la parola: «Materno, io mi voglio attenere allo schema che tu hai prefissato. Nei riguardi di Apro non serve una lunga confutazione. È partito, mi pare, da una questione di termini, dato che lui non accetta che siano chiamati antichi, coloro che sappiamo essere vissuti cento anni fa.
Perché contendere attorno a una parola? Lui li può chiamare antichi, antenati o col nome che preferisce; a me basta che si riconosca che quell’eloquenza era superiore a quella contemporanea. Poi non mi pare nemmeno di dovermi opporre a quell’altra parte del suo discorso: perché non riconoscere che esistono diverse forme di eloquenza nell’arco di una stessa generazione e non solo in più generazioni?
Ma, allo stesso modo in cui tra gli oratori attici si riconosce il primato di Demostene e gli si collocano vicino Eschine, Iperide, Lisia e Licurgo80 e, tuttavia, per consenso unanime, quella viene considerata la miglior epoca dell’eloquenza, così presso di noi Cicerone ha superato tutti gli altri oratori dei suoi tempi. E inoltre Calvo, Asinio, Cesare, Celio e Bruto a buon diritto sono considerati migliori di quelli che li hanno preceduti e seguiti.
Né importa che essi differiscano per alcuni aspetti particolari, quando comune è la tendenza generale: Calvo è più conciso, più nervoso Asinio, più splendido Cesare, più aspro Celio, più severo Bruto. E Cicerone è più veemente, più pieno, più efficace. Ognuno rivela tuttavia la stessa sana eloquenza e se si prendono in mano tutti i loro libri, ci si rende conto che, pur nella diversità di inclinazioni, vi sono somiglianze e parentele nel gusto e nelle tendenze.
Quanto al fatto che si criticavano a vicenda (come dimostra la gelosia che si riscontra nelle loro lettere) questo dipende dal loro essere uomini, non dal loro essere oratori.
Io credo che anche Calvo e Asinio e perfino Cicerone nutrissero invidie e livori e non fossero immuni da ogni altra debolezza umana. Penso, anzi, che soltanto Bruto, tra di loro, avesse rivelato con schietta semplicità (e non certo con maligne gelosie) gli intendimenti del suo animo. Come avrebbe potuto invidiare Cicerone uno che, a quanto mi pare, non provava gelosia nemmeno nei riguardi di Cesare?
Per quanto riguarda Servio Galba e C. Lelio e gli altri antichi che Apro non ha smesso un istante di criticare, non c’è bisogno di un difensore, perché io sono il primo a riconoscere che alla loro eloquenza, piuttosto primitiva e mai diventata adulta, mancava effettivamente qualcosa.
26. Del resto se dovessi rinunciare a quel genere di eloquenza, ottimo e ormai arrivato alla perfezione, e dovessi scegliere un altro modo di espressione, certo preferirei l’impeto di G. Gracco e la gravità di L. Crasso alle cincischiature di Mecenate o ai tintinnii di Gallione81: a tal punto sono convinto che è meglio rivestire un’orazione con una ruvida toga piuttosto che con le appariscenti vesti che portano le prostitute.
Non è degno di un oratore e nemmeno di un uomo, questo modo di presentarsi che adottano gli avvocati del nostro tempo i quali, con la sensualità delle loro parole, con le loro battute insulse, con gli abusi del loro stile, si atteggiano a istrioni.
Accade poi una cosa che non si dovrebbe nemmeno sentire: molti si vantano che i loro discorsi vengano messi in musica e accompagnati da danze, come un titolo di merito e di gloria e come una prova del loro talento. Nasce qui quella vergognosa esclamazione (che ribalta il buon senso ed è tuttavia frequente) secondo la quale i nostri oratori parlano languidamente e gli istrioni ballano con eloquenza.
Certo io non potrei negare che Cassio Severo, l’unico che il nostro Apro ha osato nominare, se comparato a quelli che vennero dopo di lui, possa essere chiamato oratore, anche se nella maggior parte dei suoi libri scorre più bile che sangue. Infatti è stato il primo a disprezzare la corretta distribuzione delle parti e a bandire misura e pudore dall’apparato lessicale, di modo che, mal rivestito perfino delle armi che usa e spesso scoprendosi, nella foga di offendere, non combatte, si accapiglia piuttosto.
Ma insomma, ripeto, se lo paragoniamo a chi lo ha seguito, per la sua articolata erudizione, per la sua arguta eleganza, per il nerbo della sua forza espressiva, supera di gran lunga tutti gli altri, nessuno dei quali Apro ha voluto nominare o, per così dire, condurre a battaglia.
Una volta messi sotto accusa Asinio e Celio e Calvo, io mi aspettavo, anzi, che lui producesse una schiera contrapposta formulando un numero superiore o almeno uguale di nomi: in questo modo avremmo potuto opporne uno a Cicerone, un altro a Cesare e così via, ogni moderno contro un antico.
Ma lui si è accontentato di denigrare uno a uno gli oratori antichi, e dei moderni non ha osato lodarne uno solo: li ha lodati tutti insieme e in generale perché, credo, temeva di offenderne molti, citando quei pochi che vale la pena di citare.
Infatti, tra i frequentatori di scuole di retorica, quanti sono a non essere convinti di valere più di Cicerone e meno di Gabiniano82? Io non avrò però alcun timore nel nominarli uno a uno, perché sia più chiaro dagli esempi che proporrò, quanto, di gradino in gradino, l’eloquenza sia scesa in basso e si sia infranta».
27. «Lascia stare», lo interruppe Materno, «piuttosto onora la tua promessa. Noi non avvertiamo affatto il desiderio di sentirci dire che gli antichi oratori sono migliori (su questo, per mio conto, non ho dubbi). Piuttosto andiamo in cerca delle cause che tu hai detto essere spesso oggetto della tua riflessione, poco fa, quando eri più tranquillo, meno adirato contro l’eloquenza contemporanea e Apro non ti aveva offeso attaccando i tuoi antenati morali.»
«Le critiche di Apro non mi hanno affatto offeso», riprese Messalla, «e nemmeno voi dovrete offendervi se qualche dura espressione colpirà le vostre orecchie. Questa è la regola delle dispute: esprimere liberamente il proprio pensiero, senza che l’amicizia ne venga toccata.»
«Avanti, allora», lo esortò Materno, «e parlando degli antichi usa la libertà antica che abbiamo perduto ancor più dell’eloquenza.»
28. Allora Messalla prese a parlare: «Materno tu vai cercando motivazioni già evidenti e certo non ignote né a te stesso, né a Secondo, né ad Apro; tuttavia tu mi hai assegnato il ruolo di esternare a tutti ciò che tutti avvertiamo.
Nessuno ignora che l’eloquenza e tutte le altre manifestazioni dell’ingegno, hanno perso il loro antico fulgore, non per mancanza di personalità all’altezza, ma perché i giovani sono pigri e i genitori li trascurano, perché i maestri sono ignoranti e vengono dimenticati i costumi del passato. Sono sciagure nate qui, a Roma, poi si sono sparpagliate per l’Italia e adesso si stanno ramificando anche nelle province.
Ma queste cose sono vostre e meglio di me le conoscete83. Io parlerò di Roma e dei suoi malanni particolari e peculiari, che ci aggrediscono quando siamo appena nati e ci si accumulano addosso, anno dopo anno. E allora prima dirò poche cose attorno alla rigorosa disciplina degli antichi circa il loro modo di educare e formare i figli.
Nei tempi antichi, ognuno allevava suo figlio, partorito da una sposa casta, non nella stanzetta di una nutrice prezzolata, ma nel grembo e sul seno della madre, il cui merito maggiore consisteva nel custodire la casa e nell’accudire i figli. Poi si sceglieva una parente anziana, di virtuosi e provati costumi, cui affidare tutta la prole della famiglia; davanti a lei non era lecito pronunciare espressioni volgari o compiere atti sconvenienti.
Essa regolava, con quella che definirei una religiosa verecondia, non solo gli studi e le occupazioni, ma anche i giochi durante il tempo libero dei bambini. Abbiamo appreso che in questo modo Cornelia, madre dei Gracchi, Aurelia, madre di Cesare, Azia, madre di Augusto, hanno presieduto all’educazione dei loro figli e ne segnarono il destino di uomini nati a comandare.
Questa rigorosa disciplina mirava a far sì che la natura di ciascuno, serena, integra, non sviata da alcuna depravazione, avvertisse subito e con urgenza il richiamo delle arti liberali. Sia che un figlio inclinasse verso la vita militare, sia che inclinasse verso lo studio del diritto o verso l’educazione all’eloquenza, a questo soltanto si dedicava e la sua scelta lo assorbiva tutto.
29. Oggi invece il fanciullo, appena nato, viene affidato a un’ancella greca, cui si uniscono uno schiavo o due, scelti a caso, e per lo più spregevolissimi e inadatti a qualsiasi tipo di servizio. Subito le loro anime tenere e fresche si imbevono delle fantasie e dei pregiudizi di costoro e nessuno in casa ha minimamente a cuore che cosa si dica o si faccia davanti a colui che è destinato a diventare il padrone84.
E anzi sono i genitori che, per primi, non si preoccupano di educare i figli all’onestà e all’equilibrio, ma alla licenza e al linguaggio impertinente, attraverso cui poco a poco si insinuano impudenza e disprezzo di sé e degli altri.
E mi pare che i vizi tipici di questa città, il trasporto verso gli attori e la passione per gladiatori e cavalli, siano concepiti già nel grembo materno: quanto piccolo sarà lo spazio che l’animo, occupato e assediato da queste passioni, lascerà disponibile ai buoni insegnamenti? E quanti giovani troverai che in casa parlino di un altro argomento? Che altri discorsi sentiremo mai fare, se qualche volta entreremo in una scuola?
E queste sono anche le conversazioni più frequenti che i maestri hanno con i loro discepoli: oggi si attirano gli allievi non con modelli di rigorosa disciplina o con prove d’ingegno ma con l’ossequio tipico dei ruffiani e con le lusinghe tipiche degli adulatori.
30. Lascio da parte l’istruzione primaria, che pure viene svolta con molta superficialità: non si dedica sufficiente lavoro né alla lettura degli autori, né allo studio dell’antichità, né alla conoscenza dei tempi e dei modi dell’azione umana nella storia.
Invece si vanno a cercare avidamente quelli che chiamano retori: dovendo dire quando per la prima volta questo insegnamento sia stato introdotto nella nostra città e quanto poco considerato esso fosse dai nostri antenati, è necessario che io ricordi il metodo educativo nel quale sappiamo essersi formati quegli oratori, la cui incessante fatica, la quotidiana meditazione, gli assidui esercizi in ogni genere di studi vengono descritti nei loro stessi libri.
Certamente è noto a tutti voi il libro di Cicerone che si intitola Brutus85: nella sua seconda parte (infatti la prima è dedicata alla storia dell’eloquenza antica) egli riferisce i suoi inizi, i passaggi della sua formazione, e, direi quasi, il prendere corpo e il crescere della sua eloquenza: ha imparato il diritto civile presso Q. Muzio86, ha approfondito le varie problematiche filosofiche alla scuola dell’accademico Filone87 e dello stoico Diodoto88. Poi, non pago del loro insegnamento girò tutta l’Acaia e l’Asia89 per abbracciare ogni possibile conoscenza di ogni arte e scienza.
Da tutte le opere di Cicerone possiamo comprendere che non gli mancavano le conoscenze né della geometria, né della musica, né della grammatica, né infine di alcuna arte liberale. Egli aveva appreso le sottigliezze della dialettica, le utili verità dell’etica, gli aspetti e le cause dei fenomeni naturali.
Davvero le cose stanno così, o uomini egregi: quella sua mirabile eloquenza tracima e trae alimento da una vastissima erudizione e dalla conoscenza di tutte le arti e di tutta la realtà umana. La forza e le potenzialità dell’eloquenza non si possono chiudere, come altre discipline, entro confini brevi e angusti: oratore è invece colui che sa dire su ogni argomento in modo brillante, elegante e adeguato a persuadere secondo la dignità dell’argomento, le esigenze dei tempi e anche con diletto degli ascoltatori90.
31. Di questo erano convinti gli antichi oratori; e capivano che per ottenere ciò non bisognava declamare nelle scuole di retorica o esercitare la lingua e la voce in controversie fittizie o prive di ogni attinenza con la verità, ma riempire il petto di quelle arti, che permettono di discutere cosa sia bene e cosa male, cosa sia onesto e cosa disonesto, cosa sia giusto e cosa ingiusto; questo è il materiale su cui l’oratore deve costruire i suoi discorsi.
Infatti nei giudizi affrontiamo per lo più il tema della giustizia, nelle deliberazioni dell’utilità, negli elogi dell’onestà, in modo tale però che tutti questi argomenti si mescolano tra loro. Su questi temi può parlare in modo esauriente, vario ed elegante, solo colui che ha conosciuto la natura umana, la forza della virtù, la depravazione dei vizi, il contenuto di quelle qualità che non sono né vizi né virtù91.
Da queste fonti derivano anche le capacità di eccitare più facilmente lo sdegno del giudice o di mitigarlo da parte di chi sa cosa sia l’ira; e chi conosce la misericordia e da quali moti dell’animo essa nasca, sa più prontamente spingere verso di essa.
L’oratore, dotato di queste abilità e in esse esercitato, avrà sempre il polso della situazione92, anche se deve parlare davanti a persone ostili o faziose o invidiose o tristi o pavide: a seconda di quanto richiede la natura di ciascuno, manovrerà e regolerà il dire, avendo a disposizione gli strumenti più diversi, tenuti in serbo per ogni evenienza.
Qualcuno accorda maggior fiducia a un genere di eloquenza serrato, tutto raccolto in se stesso, adatto a concludere ogni argomento con poche parole: con questi bisognerà essere abili dialettici. Altri trovano più piacevole un’orazione ampia, omogenea, tutta improntata al buon senso: per commuovere costoro mutueremo dai Peripatetici i motivi adatti e pronti per ogni situazione.
Gli Accademici ci daranno la combattività, Platone la sublimità, Senofonte l’eleganza. L’oratore non dovrà poi considerare fuori luogo far proprie certe decorose esclamazioni di Epicuro e Metrodoro93 e farne l’uso richiesto dalle circostanze.
Noi non vogliamo qui costruire un filosofo o un seguace degli Stoici, ma un uomo che deve assimilare a fondo solo certe discipline e avere anche un’infarinatura di tutte. Per questo gli antichi oratori si specializzavano in diritto civile, ma conoscevano anche elementi di grammatica, musica e geometria.
Capitano infatti cause (moltissime, se non tutte) nelle quali si richiede la conoscenza del diritto; ma molte vogliono anche nozioni di queste altre discipline.
32. Spero che qualcuno non mi obietti che, quando serve, basta una informazione rapida e schematica. Intanto c’è da dire che in un modo facciamo uso di ciò che ci appartiene, in un altro delle cose trovate al momento: evidentemente c’è una grande differenza che uno possieda ciò che offre o lo prenda a prestito. Poi la conoscenza di molte discipline ci può essere di utile ornamento anche quando ne trattiamo altre e, quando meno te lo aspetti, salta fuori e risplende.
Questo lo comprende non solo l’ascoltatore colto ed esperto, ma anche la gente comune; subito te ne viene un titolo di merito perché si afferma che hai studiato sul serio, che hai percorso tutti i gradini dell’eloquenza, che insomma sei un oratore. E io affermo che tale può essere ed essere stato solo colui che sia uscito nel foro armato di ogni disciplina, come sarebbe fornito di ogni arma se andasse in battaglia.
Dagli oratori di oggi tutto ciò è talmente trascurato che nelle loro arringhe si possono cogliere perfino i depravati e vergognosi difetti della lingua quotidiana: ignorano anche le leggi, non hanno presenti le deliberazioni del senato, si prendono gioco del diritto civile, hanno assolutamente in orrore lo studio della filosofia e i precetti dei suoi maestri.
Sviliscono l’eloquenza in pochi periodi e in asfittiche sentenze. È come se l’avessero cacciata dal suo regno, lei, regina di tutte le arti, che una volta, col suo splendido seguito, riempiva i petti: ora, sfrondata e mutila, senza apparato, senza onori, direi quasi ridotta in schiavitù, viene appresa come un mestiere spregevolissimo.
Ecco, secondo me, la prima e principale causa della nostra così grave decadenza rispetto agli oratori antichi. Volete dei testimoni eccellenti? Vi cito, tra i Greci, Demostene che fu attentissimo discepolo di Platone, a quanto si tramanda94.
Cicerone afferma, mi pare proprio con queste parole, che ciò che egli ha ottenuto nell’eloquenza, lo ha appreso non nei laboratori dei retori, ma negli ampi spazi dell’Accademia.
Vi sono anche altre cause, significative e gravi, che è giusto siate voi a illustrare. Io ho esaurito il mio compito e, secondo quanto mi capita spesso, ho offeso la suscettibilità di parecchi. Sono coloro che, se mi avessero sentito fare queste affermazioni, certamente direbbero che, nel momento in cui io lodo la conoscenza del diritto e della filosofia come necessaria all’oratore, non ho fatto altro che elevare un applauso alle inezie che sono solito coltivare».
33. Materno però gli replicò: «Non mi pare proprio che tu abbia esaurito il compito che ti sei assunto; anzi, lo hai appena incominciato e ce ne hai presentato, come dire?, le tracce, uno schema a grandi linee.
Ci hai raccontato infatti con quali strumenti gli antichi oratori fossero soliti prepararsi. E ci hai anche resa evidente la differenza fra la nostra pigrizia e ignoranza rispetto ai loro studi acutissimi e fecondi. Ma adesso mi aspetto il resto e come ho appreso da te quello che essi sapevano e che noi non sappiamo, adesso voglio conoscere anche per mezzo di quali esercizi, ormai giovani e sul punto di entrare per la prima volta nel foro, fossero soliti rendere saldo il loro ingegno e nutrire...
Infatti non potrai negare quello che si legge in faccia a tutti i presenti: va bene la preparazione teorica e culturale, ma l’eloquenza dipende anche molto di più dalla capacità e dalla pratica».
Apro e Secondo fecero un cenno di consenso e Messalla si trovò praticamente a dover cominciare di nuovo: «Dal momento che pare che io abbia sufficientemente individuato i fondamenti e i germi dell’antica eloquenza, insegnando gli strumenti della formazione culturale – generale e in particolare – degli antichi oratori, ora tratterò dei loro esercizi.
E dunque diamo per assodato che nello studio di queste discipline è implicito l’uso della parola e che non esiste persona in grado di assimilare nozioni tanto difficili e varie se allo studio teorico non si aggiunge la riflessione, alla riflessione la capacità, alla capacità la pratica dell’eloquenza. Se ne deduce dunque che il metodo per imparare quello che devi esporre e per esporre quello che hai imparato, di fatto coincidono.
Ma se qualcuno trova troppo oscure le mie parole e pensa che apprendimento teorico ed esercizio debbano stare separati, certo anche costui converrà con me che un animo difeso e nutrito da questi studi, giungerà di gran lunga più preparato alla fase dell’esercizio pratico, che è un tratto caratteristico dell’autentico oratore.
34. Presso i nostri antenati, dunque, il giovane destinato all’eloquenza del foro, già formato dall’educazione assorbita in casa e nutrito di nobili studi, veniva portato dal padre o dai parenti all’oratore che in quel momento aveva miglior fama in città.
Si abituava a stargli dietro, ad accompagnarlo, ad ascoltare tutti i discorsi che egli teneva nei tribunali e nelle assemblee, in modo che imparava a seguire i contradditori più aspri, a partecipare agli alterchi più duri. Dirò così: proprio in mezzo alla battaglia imparava a combattere.
Da ciò derivavano ai giovani discepoli grande esperienza, grande fermezza, grande spirito critico perché stavano imparando in piena luce, in mezzo a pericoli veri, dove nessuno impunemente dice una sciocchezza o si contraddice: il giudice glielo risputerebbe in faccia, il suo avversario lo svergognerebbe, e perfino dai suoi amici ricaverebbe disprezzo.
Dunque si impregnavano dell’autentica e incorrotta eloquenza e, pur essendo al seguito di un solo patrono, imparavano a conoscere anche tutti gli altri in molte cause civili e penali. Imparavano a conoscere anche, nelle inclinazioni del popolo, i gusti più diversi. Insomma, con grande facilità, apprendevano cosa in un oratore piace o dispiace agli altri.
In tal modo non mancava il maestro – il migliore, il più bravo – che mostrava l’aspetto vero, non un’immagine qualsiasi dell’eloquenza; ma c’erano anche avversari e concorrenti che combattevano con la spada, non col fioretto. E l’auditorio era sempre affollato, si rinnovava di continuo, ora favorevole ora ostile, e non lasciava passare niente di quanto si diceva, in bene o in male. Voi sapete che una grande e duratura fama di eloquenza la si costruisce sui banchi degli avversari non meno che sui propri: anzi, è lì che si manifesta con maggior forza e più stabilmente si irrobustisce.
Per Ercole, con precettori tanto bravi, eccolo pronto ad assumersi ugualmente accuse e difese il giovane di cui parliamo, discepolo di molti oratori, abituato ad ascoltare nel foro, spettatore di processi, scaltrito e fatto esperto dalle esperienze altrui, pratico delle leggi di cui ogni giorno sente parlare, conoscitore del volto dei giudici, abituato a frequentare le assemblee popolari, pronto a captare i gusti del pubblico: solo, fin dal primo momento all’altezza di qualsiasi causa.
A diciannove anni L. Crasso sostenne l’accusa contro G. Carbone, a ventuno Cesare contro Dolabella, a ventidue Asinio Pollione contro G. Catone. E Calvo non era molto più anziano quando intraprese la sua accusa contro Vatinio: le loro orazioni le leggiamo ancor oggi con ammirazione95.
35. Invece oggi i nostri ragazzi vengono condotti nelle scuole di costoro, che sono chiamati retori, le quali hanno cominciato a funzionare in un periodo di poco anteriore all’attività di Cicerone96; che siano piaciute poco ai nostri antenati è dimostrato dal fatto che i censori Crasso e Domizio imposero la chiusura di quelle che con parole di Cicerone chiamo scuole di impudenza97.
Proseguo comunque col mio discorso. I ragazzi vengono portati in queste scuole: non mi è facile dire se il loro talento venga mortificato più dal luogo stesso, dai loro compagni o dal genere di studi.
Come si può rispettare un luogo, in cui tutti quelli che entrano devono essere ugualmente ignoranti? Nessun progresso può essere indotto dai condiscepoli poiché, i fanciulli con i fanciulli e gli adolescenti con gli adolescenti, parlano e si ascoltano con ugual avventatezza. Dunque si tratta di esercizi, per la maggior parte, controproducenti.
Gli esercizi, presso i retori, sono di due tipi: le suasorie e le controversie98. Le suasorie sono riservate ai fanciulli perché esigono minor impegno e minor avvedutezza. Invece le controversie vengono affidate ai discepoli più maturi. Ma che razza di controversie sono! Mi dovete credere, di più astruse non ne esistono! Per forza si deve ricorrere all’enfasi quando si trattano problemi tanto distanti dalla realtà!
Ecco le ricompense da darsi ai tirannicidi, le possibilità che hanno le ragazze sedotte, i rimedi contro le pestilenze, gli incesti consumati sulle madri e cose di questo tipo: ecco gli argomenti che ogni giorno si dibattono in queste scuole a suon di gran paroioni99. E quando mai si sono sentiti trattare nel foro? Così quando questi ragazzi si trovano davanti ad un vero giudice...100
36. ... meditare sull’argomento, non poteva dire nulla di basso o di umile. La grande eloquenza assomiglia alla fiamma: ha bisogno di combustibile, quanto più viene agitata tanto più si ravviva e, via via che arde, acquista splendore. Ecco le cause che favorirono nella nostra città i grandi progressi dell’eloquenza.
Anche ai nostri giorni gli oratori hanno conseguito quelle ricompense che era giusto conseguissero in uno Stato ben ordinato, tranquillo e felice; tuttavia sembrava che ben maggior vantaggi si potessero conseguire in un tumultuoso clima di rivolgimenti poiché, in una grande confusione sociale e senza una guida sicura, un oratore tanto più valeva quanto più riusciva a sedurre alle sue tesi il popolo oscillante.
Le proposte di legge erano continue perché da esse si ricavava prestigio presso il popolo, i magistrati tenevano discorsi lunghissimi e quasi passavano la notte sulla tribuna, personaggi molto in vista erano messi sotto accusa e intere famiglie ne condividevano le inimicizie, i potenti si dividevano in partiti e una conflittualità infinita divideva il senato dalla plebe.
Anche se ognuno di questi fattori dilaniava la cosa publica, tuttavia irrobustiva l’eloquenza di quei tempi e le apriva grandi prospettive, perché quanto più uno sapeva farsi valere con la parola, tanto più facilmente conseguiva cariche pubbliche, tanto più superava i suoi stessi colleghi di magistratura, tanto più era nel favore dei capi, tanto più era autorevole presso il senato, tanto più era popolare e apprezzato fra la gente.
Ondate di clienti arrivavano agli uomini eloquenti anche dalle nazioni straniere; i magistrati in partenza per le province rendevano loro omaggio e quando tornavano li tenevano in grande considerazione; sembrava quasi che preture e consolati li chiamassero e nemmeno da privati cittadini erano senza potere, perché con i loro consigli e la loro autorevolezza indirizzavano il popolo e il senato.
Anzi, gli antichi erano convinti che, senza l’aiuto dell’eloquenza, nessuno poteva ottenere o mantenere un posto di grande prestigio e risalto nello Stato.
Non stupitevi: erano costretti a presentarsi al popolo anche contro la loro volontà; dire con poche parole il proprio parere in senato era considerato insufficiente e bisognava sostenerlo con tutto il proprio talento e la propria eloquenza; dovevano rispondere di persona quando erano sottoposti a critiche o ad accuse e se erano chiamati a testimoniare in qualche processo, non potevano assentarsi e mandare una testimonianza scritta, ma dovevano presentarsi davanti ai giudici.
Insomma l’eloquenza offriva sì grandi vantaggi, ma era anche necessaria e, nello stesso modo in cui uno era apprezzato e nominato se era considerato eloquente, si incorreva nel disprezzo a sembrar muti e senza lingua.
37. Dunque era il senso dell’onore, non meno delle ricompense, a pungolare gli oratori a non essere annoverati tra i clienti da due soldi invece che tra i patroni; a non consentire che altri li soppiantassero nelle relazioni tramandate dagli antenati; a non essere esclusi, come buoni a nulla o inadeguati agli incarichi, dalle magistrature o magari a perderle, dopo essere riusciti ad ottenerle.
Non so se avete mai avuto occasione di consultare quei vecchi documenti che si possono ancora rintracciare negli scaffali degli antiquari, e che vengono, soprattutto da Muciano101, raccolti. Credo anzi che siano stati ordinati ed editi in undici libri di Atti e in tre libri di Epistole.
Dalla loro lettura si capisce bene che Cn. Pompeo e M. Crasso non si sono imposti solo con la loro energia e con le armi, ma anche con il loro talento oratorio. E i Lentuli, i Metelli, i Luculli, i Curioni102 e tutta la schiera di personaggi di prima grandezza, hanno speso fatica e dedicato grande cura a questi studi, perché nessuno, in quell’epoca, conseguiva grande potere senza possedere qualche qualità oratoria.
Bisogna aggiungere che spesso gli accusati erano persone molto in vista e le cause diventavano dunque importanti: sono elementi che da soli conferiscono grande prestigio a chi sa parlare. Vi è infatti molta differenza tra il dover parlare attorno a un furto, a una formula, all’ordinanza di qualche magistrato oppure attorno a un broglio elettorale, ad alleati rapinati o a cittadini massacrati.
Certo, queste sono sciagure che sarebbe meglio non accadessero e il miglior ordinamento statale è da ritenersi quello in cui tali malanni non si patiscono, ma, quando accadono, forniscono moltissimo materiale agli oratori. Cresce infatti la forza dell’ingegno insieme alla grandezza dell’argomento, e nessuna orazione può diventare famosa e conferire gloria se non trova una causa all’altezza.
Penso che a consacrare la fama di Demostene non siano state le orazioni che ha composto contro i suoi tutori103; e nemmeno Cicerone è un grande oratore solo per aver difeso P. Quinzio o Licinio Archia104: Catilina, Milone, Verre e Antonio105 lo hanno circondato di fama. Certamente non era utile alla repubblica doversi tenere cittadini tanto malvagi da fornire ricca materia agli oratori, ma, come ormai vado ripetendo da un pezzo, dobbiamo ricordarci della questione da cui siamo partiti: noi dobbiamo essere consapevoli di discutere dell’eloquenza, che più facilmente si manifesta nei periodi torbidi e inquieti.
Nessuno vorrà affermare che è cosa migliore e più utile essere tormentati da una situazione di conflittualità piuttosto che vivere in pace; tuttavia è la guerra che produce i buoni guerrieri, non la pace. E simile è la situazione dell’eloquenza.
Infatti, quanto più spesso, per dirla così, è scesa in battaglia, quanti più colpi ha inferto e subito, quanto più valorosi sono stati gli avversari, quanto più aspre sono state le battaglie che ha spontaneamente affrontato, tanto più alta e sublime, si leva, nobilitata da quei pericoli, sulle labbra degli uomini. E la natura umana è tale che vorrebbe guardare i pericoli altrui, restando nella tranquillità.
38. Ed eccomi alla procedura e alle norme consuete degli antichi processi. Riconosco che il sistema moderno riesce ad accertare più velocemente la verità. Ma stimolava certo di più l’eloquenza l’abitudine al foro in cui nessuno era costretto a concludere la sua arringa nel giro di poche ore, in cui non vi era limite ai rinvìi, in cui ognuno dava la durata che voleva al suo discorso, in cui non si pretendeva di limitare il numero dei giorni e dei patroni.
Il primo a imporre delle limitazioni all’eloquenza e a tirarle, per così dire, le briglie fu, durante il suo terzo consolato, Cn. Pompeo106: ma le cause continuarono a venir trattate tutte nel foro, tutte in pieno regime di legalità, tutte davanti ai pretori. Quanto fossero di maggior rilevanza le cause che una volta venivano abitualmente trattate davanti a loro, è reso evidente dal fatto che le cause centumvirali, che ora sono di gran lunga le più numerose, erano a tal punto offuscate dallo splendore degli altri tribunali che oggi non si legge un solo discorso di Cicerone o di Cesare o di Bruto o di Celio o di Calvo o di qualsiasi altro grande oratore pronunciato davanti ai centumviri107. Con un’unica eccezione: le orazioni di Asinio a favore degli eredi di Urbinia108; ma esse vennero composte da Pollione stesso nel bel mezzo del principato del divo Augusto, quando il lungo periodo di quiete, l’apatia indisturbata del popolo, l’ininterrotta tranquillità del senato, l’assoluta disciplina imposta dal principe avevano pacificato, come ogni altro aspetto della vita civile, anche l’eloquenza.
39. Quello che sto per affermare sembrerà di poco conto e risibile, ma tuttavia lo dirò, altro non fosse che per strapparvi un sorriso. Riflettiamo su questo: quanto hanno mortificato le forze dell’eloquenza codeste mantelline, in cui, avviluppati e quasi prigionieri, noi chiacchieriamo con i giudici109? Di quanta energia pensiamo siano stati derubati i discorsi a opera delle sale d’udienza e degli archivi, dove ormai si svolge la maggior parte dei processi?
Infatti, allo stesso modo in cui sono le corse e i grandi spazi a provare la nobiltà dei cavalli, così anche gli oratori hanno bisogno di un terreno su cui muoversi liberi e sciolti da impacci: altrimenti l’eloquenza si indebolisce fino a spezzarsi.
Spesso, anzi, dobbiamo constatare che la cura ansiosa e diligente con cui prepariamo le nostre orazioni, viene usata contro di noi perché il giudice si mette a far domande proprio mentre stai delineando il tuo esordio e così devi incominciare rispondendo ai suoi quesiti. E poi, a ogni piè sospinto, ti viene imposto il silenzio per ascoltare testimoni e argomenti probatori. E mentre si dicono queste cose, il processo si svolge come in mezzo a un deserto, con una o due persone ad ascoltarti.
L’oratore ha invece bisogno di avvertire clamori e applausi come se fosse in teatro. Ed effettivamente agli antichi oratori accadeva così: tanti e tanto illustri cittadini stipavano il foro; intere clientele, intere tribù, delegazioni di municipi, intere popolazioni d’Italia assistevano ai dibattimenti più importanti; e spesso, quando giudicava che si dibattessero questioni che lo interessavano direttamente, era presente l’intero popolo di Roma.
E tutti sanno che per ascoltare l’accusa e la difesa di C. Cornelio, di M. Scauro, di T. Milone, di L. Bestia, di P. Vatinio110, accorreva tutta la città e l’entusiasmo del popolo diviso in fazioni risvegliava e incendiava anche gli oratori più freddi. E così, per Ercole, ecco le orazioni, che ancor oggi troviamo nei libri e che sono il maggior titolo di merito per chi le ha pronunciate!
40. Davvero! Quanto fuoco e quante fiaccole accese apportarono al talento degli oratori le incessanti assemblee, il diritto – valido per tutti – di attaccare i più potenti, il vanto che veniva dall’avere nemici importanti! Moltissimi tra coloro che erano abili a parlare non risparmiarono nemmeno P. Scipione o Silla, o Cn. Pompeo e per demolire gli uomini più influenti, sfruttavano, con l’atteggiamento proprio di chi odia e atteggiandosi a istrioni, le orecchie del popolo.
Non stiamo parlando di qualcosa che nasca dal tranquillo disimpegno e che volentieri si accompagni a onestà e moderazione, no, questa è quella grande eloquenza capace di lasciare il segno, nutrita di insubordinazione (quella che qualche sciocco chiama libertà), compagna delle sedizioni, provocatrice di un popolo sfrenato, restia all’obbedienza e al rigore, insofferente, temeraria, arrogante, quale, insomma, mai nasce nelle città bene ordinate.
Si è mai avuta notizia di un oratore di Sparta o di una città di Creta? No, perché ci vengono tramandate come città severissime per disciplina e leggi. E non conosciamo nemmeno l’eloquenza dei Macedoni o dei Persiani o di qualunque altro popolo che sia stato tenuto a freno da un governo ben regolato. Invece si imposero alcuni oratori a Rodi111 e parecchi ad Atene: lì il popolo poteva tutto, tutto potevano gli ignoranti e, se mi consentite il gioco di parole, tutti potevano tutto.
Fino a quando la nostra città deviò dalla sua strada e fino a quando si consumò nelle discordie e nelle lotte di parte, finché il foro non fu pacificato, finché il senato non trovò concordia di intenti, finché non vi fu regola nei procedimenti giudiziari, finché nessun rispetto era dovuto ai potenti, finché i magistrati non ebbero limitazioni al loro potere, Roma produsse una più valida eloquenza, come un campo non domato dall’aratro produce erbacce rigogliose. Ma l’eloquenza dei Gracchi non fu per la repubblica tanto preziosa, da tollerare anche le loro proposte di legge. E Cicerone, con la sua morte infame, ha pagato troppo cara la sua eloquenza.
41. Del resto, anche quanto dell’attività forense sopravvive agli oratori antichi, comprova che lo Stato non ha raggiunto l’ordine e l’assetto che sarebbero desiderabili.
Chi, infatti, ha bisogno della nostra opera se non è colpevole o vittima? Quale municipio diviene nostro cliente se non quello che ha gravi difficoltà interne o esterne? Quale provincia ci troviamo a patrocinare se non è stata almeno depredata od oggetto di vessazioni? Certo sarebbe meglio non aver lamentele che dover ottenere giustizia.
Se fosse possibile trovare una città in cui non si compisse alcuna trasgressione, tra persone tutte innocenti, un oratore sarebbe perfettamente inutile, come un medico tra persone in buona salute. Allo stesso modo112 in cui l’arte medica non ha che una minima utilità e non compie alcun progresso presso i popoli che hanno salute di ferro e complessioni fisiche sanissime, così gli oratori godono di minor onore e di minor gloria in mezzo ai buoni costumi e a persone ossequienti al potere.
Che bisogno c’è di lunghi dibattiti in senato, se i migliori sono subito d’accordo? Che servono tanti discorsi davanti al popolo, quando non è una folla di ignoranti a occupare le magistrature repubblicane, ma a decidere è uno solo, il più saggio? Quale utilità hanno le iniziative di accusa, quando le trasgressioni sono tanto rade e blande? E poi a nulla servono odiose e interminabili difese, quando la clemenza del giudice va così volentieri incontro all’accusato in difficoltà.
Credetemi, uomini egregi e, per quanto è possibile oggi, eloquentissimi: se voi apparteneste a generazioni antiche o se coloro che ammiriamo appartenessero alla nostra, se un dio capovolgesse all’improvviso lo scorrere delle vite e del tempo, voi non manchereste di quei grandi meriti e di quella grande gloria che furono proprie della loro eloquenza, ma anch’essi ne guadagnerebbero in senso della misura e del limite. Nessuno può conseguire nello stesso tempo la più grande fama e la più grande tranquillità: e allora ciascuno goda dei vantaggi della sua generazione, senza disprezzare le altre».
42. Materno aveva finito e Messalla provò a replicare: «C’erano alcune affermazioni che volevo controbattere e alcune su cui volevo parlare in modo più ampio, ma il giorno sta finendo». «La prossima volta», disse Materno, «faremo a tuo modo e se qualche parte del mio discorso ti è parsa oscura, ci torneremo sopra.»
Si alzò e abbracciò Apro, aggiungendo: «Ti denunceremo, io ai poeti e Messalla agli ammiratori dell’antichità». Ma Apro ebbe la battuta pronta: «E io denuncerò voi ai retori e ai maestri di scuola».
Ci fu una risata generale. Ci separammo.