La notte dopo aver lasciato Ali, tornai a dormire sulle colline con gli altri orfani. Partii al mattino. Camminai senza sosta, guidato dagli elicotteri che passavano regolarmente sopra la mia testa. Quando il sole tramontò, intravidi la FOB di Sharana, con gli edifici bassi sparpagliati sulla piana polverosa e la piccola pista di atterraggio. Tutto attorno alla base correva un fosso, e la terra rimossa era stata usata per riempire le barriere HESCO del muro perimetrale. Erano impilate su tre livelli e in cima correvano spire di filo spinato. Le intelaiature di acciaio e la spessa fodera di tessuto mostravano tagli e strappi. Di conseguenza, il muro cedeva e in certi punti la terra si riversava nel fosso dal quale era stata asportata. Dietro la base trovai le HESCO disposte a serpentina, che portavano a un cancello di ferro. Un faro montato su una torretta illuminava a giorno il terreno davanti. Accanto a una guardiola di compensato c’era una sentinella afghana. Si accorse di me un attimo prima che mettessi piede nella zona illuminata. Rientrò nella guardiola e afferrò la radio.

Mi immobilizzai.

Con gesti lenti e misurati tirai fuori il telefono e chiamai il contatto di Taqbir. Mi rispose una voce: «Come hai avuto questo numero?»

«Mi chiamo Aziz, sono un amico di Taqbir. Mi trovo all’entrata.»

«Resta in linea», disse la voce. Dal rumore sembrava che avesse riagganciato. Rimasi a fissare la guardia. Poi la voce tornò: «Sì, Aziz, ti richiamo».

Cadde la comunicazione.

Aspettai. La sentinella continuava a osservarmi, al capo opposto della serpentina. Cominciò a parlare alla radio. Avevo quasi deciso di andarmene, quando mi squillò il telefono.

«Di’ alla guardia che sei sul volo 873 per Shkin», disse la voce.

«Tutto qui?» chiesi.

La sentinella continuava a fissarmi. Era come se stessimo dialogando in silenzio, io al telefono e lui alla radio.

«Tutto qui», rispose la voce, riagganciando.

Mi avvicinai. Il soldato posò la radio e uscì dalla guardiola strofinandosi gli occhi, assonnato. L’uniforme kaki gli stava troppo piccola, gli stivali marroni scamosciati sembravano troppo grandi. Il fitto tappeto di corti peli che gli copriva le guance era incolto e sembrava più un effetto della pigrizia che il tentativo di farsi crescere la barba.

Gli diedi il numero del mio volo. «Shkin, eh?» fece lui, con un sorrisone. «Non hai l’aria del soldato.»

«Perché, come sono i soldati?» gli chiesi.

«Non come te.»

Picchiò sul cancello con il calcio del kalashnikov. Un’altra guardia scese di corsa dalla torretta per aprire. Aspettammo. «Shkin è un postaccio disumano», mi disse.

«Sul serio», ribattei; non era un’affermazione ma neppure una domanda.

«Per i soldati è un ottimo terreno di caccia, ma per me è meglio stare al cancello.»

«Forse», risposi.

Lui scoppiò a ridere. «Lo vedi che non sei un soldato?»

«Come fai a dirlo?»

«I soldati non vogliono stare di guardia a un cancello.»

«Presto sarò un soldato», gli dissi, trovando un po’ di fiducia in me stesso.

«Forse, ma io non lo saprò mai. I voli per Shkin trasportano soldati, ma quelli da Shkin mai.» Scosse la testa, burbero.

Nel cancello era stata ritagliata e incardinata una porta, in modo da non doverlo aprire completamente ogni volta. L’altra guardia sporse fuori la testa.

«Lui?» chiese.

«Sì, per Shkin», rispose l’uomo al cancello.

Ora scuotevano la testa entrambi.

«Buona caccia», disse l’altra guardia mentre entravo nella base. Non capii se mi stava augurando buona fortuna o se era di nuovo un’osservazione sul ruolo dei soldati. In ogni caso fui ben lieto di lasciarmi quell’uomo alle spalle.

Dentro c’era un recinto formato da paletti metallici uniti da corde. Era l’area di attesa per imbarcarsi sugli elicotteri, piena di soldati afghani che indossavano un misto di uniformi verdi, kaki e blu. Nessuno portava la mimetica che avevo visto addosso a Taqbir. Io non ero in divisa e mi guardavano con sospetto.

La sera divenne notte. Stringendomi le ginocchia al petto, mi appisolai sulla terra fredda. Ogni ora un afghano magro e sbarbato e un americano con muscoli enormi e le guance rosse come se punte dalle api entravano nell’area di attesa. L’afghano leggeva nomi e destinazioni da una lista, sotto la supervisione dell’americano. Attorno a me la folla si diradava. Presto un afghano paffuto in shalwar kameez fu l’unico rimasto, oltre a me. Non sembrava affatto un militare e sedeva sopra sacchi bianchi di riso appoggiati su un bancale, duri come grossi mattoni di fango. Sul davanti, chiaramente stampata in rosso e blu, campeggiava la scritta USAID.

L’afghano e l’americano tornarono. Anche se eravamo rimasti solo in due, l’afghano lesse i nostri nomi e la destinazione dalla sua lista. «Aziz Iqtbal, Shkin!» Mi alzai e mi spolverai i vestiti. «Naseeb Ilyas, Shkin!» L’uomo paffuto scivolò giù dal bancale.

L’afghano fece segno a un muletto di avvicinarsi ai sacchi di riso. I meccanismi idraulici della macchina ronzarono mentre i bracci salivano e scendevano, allineandosi alle estremità aperte del bancale; si soffermarono un attimo e lo inforcarono, sollevandolo così in alto che il conducente, per manovrare, dovette sporgersi dall’abitacolo. Il carico ballonzolava man mano che il muletto avanzava sul terreno irregolare, fino a raggiungere la pista di atterraggio cementata. Io e Naseeb lo seguimmo a piedi. Attorno a noi la notte era talmente buia che non si vedevano le file di elicotteri e aerei che immaginavo fiancheggiassero la pista. Sentivo solo il cemento liscio sotto i piedi e la delusione. Non avevo mai visto un aereo da vicino e probabilmente non avrei avuto un’altra occasione. Camminavamo rapidi e il grasso Naseeb ansimava dietro di me.

«Sei un nuovo soldato?» mi chiese.

Osservai il suo viso tondo. La pelle somigliava all’irregolare formaggio lunare che splendeva sopra di noi. «Sono un amico di Taqbir. Mi ha offerto un lavoro, come soldato.»

«Sì, sì, il posto dove stai andando è pieno di amici di Taqbir», disse Naseeb. «Ogni volta che ne perdiamo uno, ce ne manda un altro.»

«Tu lavori a Shkin?»

Indicò il bancale. «Sono l’addetto all’approvvigionamento. Un lavoro ingrato, ma almeno ho la fiducia incondizionata del comandante Sabir. Combattere in un’unità ai suoi ordini è un grande onore.»

Non dissi nulla, in dubbio su come esprimere il rispetto dovuto al comandante Sabir, che ancora non conoscevo.

«Ci sono altre reclute come te a Shkin. Sono arrivate una dopo l’altra quest’inverno, per l’addestramento, finché non verrà il bel tempo e comincerà la stagione dei combattimenti. Una settimana fa, quando sono partito, erano otto, forse adesso sono anche di più.»

«Io mi sento pronto», dissi.

Rimase in silenzio per un attimo. Quando riprese a parlare, la sua voce era appesantita: «Avrai sentito senz’altro dell’attentato di Gazan al bazar».

Feci spallucce. Non avevo nulla da dirgli al riguardo.

«Nei villaggi a sud è anche peggio», disse. «Quei cani attaccano e vanno a nascondersi sulle montagne. Che nang potrà esserci a combattere in questo modo?»

Scossi la testa.

«Eh, già», aggiunse, annuendo tra sé e sé. «Questa stagione faremo buona caccia. Ci sono più americani e Gazan è stanco, quindi...»

Tonfi lontani e uno stridio smorzato soverchiarono ogni altro suono. Non si vedeva niente, eppure il rumore non cessava. Un vento caldo soffiava dall’alto. Si allargava a terra come acqua versata da una brocca, incollandoci addosso gli abiti larghi. L’elicottero si posò davanti a noi. Gli altri suoni tornarono e la raffica divenne una brezza tiepida nella notte fredda. La rampa posteriore si abbassò, aprendosi come una mano. Dentro, le luci azzurre sul tettuccio interno illuminavano debolmente una lunga stiva vuota che tremava, come in preda a un malore, sotto i rotori. Un paio di membri dell’equipaggio correvano su e giù, slegando involti dai pianali e liberando il vano di carico. Avevano la parte superiore del volto coperta dai visori notturni, tranne dove due monete di un verde spettrale brillavano sui loro occhi. Indossavano tute scure, verde oliva, forse nere. I caschi erano dipinti come grandi teschi, bianco su nero. La mentoniera, dipinta con denti irregolari, scimmiottava la mandibola; i caschi erano identici, se non che uno dei due elicotteristi aveva dipinto sul suo una cresta rossa da mohicano.

Ci fecero segno di salire. Seguii Naseeb fino a un sedile di tela, sul davanti. Lui si allacciò le cinture sulle spalle, se ne tirò un’altra in vita e agganciò le tre fibbie con una quarta che aveva un fermaglio rotondo. Lo osservai, poi lo imitai infilando le fibbie nel fermaglio, ma ero molto più piccolo di chi si era seduto prima di me. Le cinghie, troppo molli, si ingarbugliarono. Cercai di accorciarle, ma senza riuscirci. Allora riprovai ad agganciarle, lunghe com’erano, nel modo in cui aveva fatto Naseeb, ma il fermaglio non scattava. Naseeb ebbe pietà di me. Allentò il suo imbrago, si sporse nella mia direzione, tirò le mie cinghie e premette un bottone sul fermaglio, che non avevo visto. Tornò ad accomodarsi, tese le sue cinture e annuì. Quando fummo entrambi sistemati, il conducente del muletto abbassò il visore notturno e depositò il bancale di riso dietro di noi. L’equipaggio lo assicurò al pavimento. La rampa si chiuse, l’elicottero si alzò tra gli scossoni. In un istante ci librammo fluidi e leggiadri. Sorrisi nel buio. Era la prima volta che volavo.

 

 

Neppure un’ora dopo, l’elicottero si inclinò all’indietro, i rotori urlanti che tremavano, e ci portò verso terra. Guardavo fuori dal finestrino ma non vedevo niente. Atterrammo con un pesante sobbalzo. Le luci azzurre si riaccesero. La rampa si abbassò e l’equipaggio spinse il bancale sulla terra mista a ghiaia della pista. Io e Naseeb li seguimmo. Fuori ci raggomitolammo contro i sacchi di riso mentre i rotori dell’elicottero ci spingevano addosso l’aria calda. Il velivolo si sollevò e sparì.

Le orecchie mi ronzavano nel silenzio e gli occhi faticavano nel buio. Non c’era nessuno. Naseeb fece per allontanarsi.

Lo presi per un braccio. «Dove dormo?» gli chiesi.

«Vedi quella luce?» In lontananza baluginava fioca una fessura. «Quella è la baracca delle reclute», mi disse. Poi si voltò e si addentrò nella notte, lasciando il suo pallet dove si trovava.

Sull’apertura nelle barriere HESCO che fungeva da ingresso era appuntata una pesante coperta di feltro, che sventolava lasciando intravedere la luce all’interno, acceso-spento, acceso-spento. Fango e sassi gonfiavano i telai metallici delle barriere, facendole inclinare. Dentro la baracca, una stufa piena di braci opponeva resistenza al freddo. Un sottile tappeto polveroso copriva a malapena il pavimento di terra battuta. Sotto coperte di lana troppo corte dormivano otto corpi, con le ginocchia al petto. Mi distesi nell’angolo e mi raggomitolai per riscaldarmi. Non avevo coperte ed ero il nono.

 

 

Mi svegliai un’ora prima del sorgere del sole, in ansia per mio fratello, poiché non sapevo se Taqbir avesse mantenuto la promessa. La preoccupazione, tra l’altro, mi impediva di riprendere sonno, così uscii dalla baracca e cercai un posto al caldo dove stare fino all’alba. Fuori, da qualche parte, ronzava un generatore. Attraversai la base con passo rapido, diretto verso quel suono e la speranza di tepore. Presto il ronzio divenne un lamento e trovai il generatore, accanto a un rimorchio pieno di latrine. Ci entrai. Era tutto pulito e semplice. Un grande specchio, due lavabi e due file di gabinetti, non del tipo occidentale, ma cabine costruite attorno a buchi scavati nel terreno. Mi accovacciai per scaricarmi e, stremato dall’ansia per mio fratello, non so come mi appisolai.

All’improvviso sentii il rumore di un veicolo all’esterno e poi dei passi: era entrato qualcuno. Un rubinetto si aprì. Sbirciai tra le fessure della cabina e vidi la barba bionda dell’ospedale. L’uomo tirò fuori da una borsa alcuni vestiti: magliette, biancheria e jeans. Niente uniformi, solo normalissimi vestiti. Li lavò con una saponetta, mentre fischiettava un motivetto allegro. Non aveva notato i miei piedi sotto la porta della cabina. E io non osavo muovermi.

La porta sbatté di nuovo. Giunsero altri passi. Inclinai la testa e intravidi per la prima volta un uomo che avrei conosciuto molto bene, Issaq. Aveva la corporatura tarchiata di chi ha passato l’infanzia in compagnia della fame. Quella strana apparizione mi fece dubitare di essere sveglio, o che lui fosse reale. Andò al lavabo accanto al biondo e passò uno straccio sotto l’acqua. Si tolse la camicia e si strofinò lo straccio sotto le ascelle e sulle spalle. Lo intravedevo solo a pezzi, ma mi fece paura lo stesso. Il suo corpo era attraversato da cicatrici in tutte le direzioni, e la pelle intorno era secca e screpolata. Con lo straccio bagnato Issaq si grattava quel groviglio di cicatrici, che presto si arrossarono e presero un aspetto maligno, come serpenti addormentati sotto la pelle.

Il biondo gli stava accanto, a strizzare magliette e mutande. Per un po’ nessuno dei due parlò, ma in quel silenzio c’era un senso di abitudine. Uno dopo l’altro, il biondo appese i vestiti sul bordo di un lavabo vuoto. Stampato su una cintola o un colletto c’era il suo nome: JACK.

Alla fine Mr Jack ruppe il silenzio. «Come vanno le reclute?» chiese. Il suo pashtu era infantile. Inventava pronunce insolite per parole comuni.

«Vanno bene», rispose Issaq. «Però mi domando fino a quando si fermeranno.»

«Hanno paura di combattere?» chiese Mr Jack.

Issaq si voltò verso di lui, esibendo le molte cicatrici. «Non è mai stato un problema per noi», disse. Si soffermò un attimo di troppo, per costringere Mr Jack a guardarlo. Poi, soddisfatto, tornò a voltarsi verso lo specchio. Parlò al proprio riflesso: «Sono due mesi che non veniamo pagati».

«Ieri sera ho parlato con Sabir», disse Mr Jack. «Ne ha per tutti, adesso.»

Issaq rimase un istante in silenzio. «Vuoi assistere all’addestramento, domani, per vedere le reclute?»

«Mi piacerebbe, ma sono venuto solo per l’incontro con Sabir di ieri sera», rispose Mr Jack.

«Per quando tornerai, saranno pronti», gli assicurò Issaq, orgoglioso.

«Usa la mano pesante», disse l’altro. «In primavera ci sarà parecchio da fare.»

«C’è sempre da fare», brontolò Issaq.

Non credo che Mr Jack avesse capito. Issaq aveva parlato in fretta e, come ho già detto, Mr Jack non parlava molto bene il pashtu. Mi appoggiai al muro e smisi di guardarli. Sentii il rubinetto chiudersi. Ancora rumore di passi. Fuori si chiuse la portiera di un veicolo. Il rombo del motore si disperse in lontananza: Mr Jack se n’era andato.

Ero immobile, in ascolto. I passi si avvicinarono a me. Due stivali piantati davanti alla cabina.

Issaq spalancò la porta con un calcio, mancando la mia testa per un pelo.

«Sciacquone! Pulisci! E dopo ancora sciacquone! Chiaro?»

Ero accovacciato sul buco a culo nudo. Non riuscivo a staccare gli occhi dal suo petto coperto di cicatrici, al di sopra del quale gli occhi verdi mi fissavano furiosi. Il viso sembrava cuoio rinsecchito dall’uso, teso sugli zigomi. I pantaloni erano gli stessi dell’uniforme americana che avevo visto addosso a Taqbir, ma con le unghie e i capelli tinti di henné rosso, come voleva la tradizione, era impossibile prenderlo per qualcosa di diverso da ciò che era: un guerriero pashtun.

Non ribattei, seguii le istruzioni alla lettera e tornai di corsa alla baracca delle reclute, dove sarei stato al freddo ma al sicuro.

Poco dopo, appena prima che sorgesse il sole, Issaq scostò la coperta appesa alla nostra porta. Nella luce fioca, portò dentro di peso quattro sacchi di sabbia. Io stavo rannicchiato nell’angolo più lontano. Aprì i sacchi con un coltello. Una nuvola di polvere riempì la stanza quando ci buttò addosso il contenuto gridando: «Su! Su! Spey zoy! Porci! Fuori dalla vostra sporcizia!» Stringeva fra i denti un fischietto, e ci soffiava a pieni polmoni. Le altre reclute saltarono su dalle brande. Io rimasi paralizzato nell’angolo in fondo, ricorrendo alla difesa per eccellenza degli impotenti: l’anonimato.

Ci preparammo in fretta. Sbirciavo le altre reclute, domandandomi che genere di uomini fossero. A dire il vero, erano a malapena uomini. Come me, la maggior parte non aveva più di vent’anni. Sentivo un’affinità con loro, ma non mi fidavo. Di certo a portarli lì era stata una disgrazia, come era successo a me, ma mi ricordai di quei primi due inverni a Orgun e di quello che mi aveva insegnato Ali sui ragazzi che dormivano sulle colline. Come allora, sarei stato uno sciocco a fidarmi di qualcuno che era povero quanto me.

Ci accalcammo alla porta per uscire nel cortiletto polveroso. La base consisteva in poco più di dieci casotti di compensato, circondati da barriere HESCO. L’alba proiettava ombre sulle montagne e Issaq ci girava attorno descrivendo un cerchio; le sue energie sorgevano con il sole. La sua voce svegliò i cani randagi addormentati tra i casotti, che si stiracchiarono nell’aria fredda del mattino riservandoci occhiate incuriosite. Una recluta alta e magrissima con i capelli chiari corse fuori a piedi nudi. Stringeva al petto un paio di sandali. Quando si chinò per infilarseli, i pantaloni gli scivolarono giù. Si chiamava Tawas. «Issaq!» gridò, chiamando per nome il nostro torturatore. Presto imparai che nello Special Lashkar non c’erano gerarchie. A determinare il grado era un’autorevolezza implicita. L’idea era che chi aveva bisogno di affidarsi al grado per comandare non fosse adatto a quel ruolo.

Issaq si precipitò verso Tawas e spinse in fuori il petto, le costole premute contro quella che, nella migliore delle ipotesi, doveva essere la pancia di Tawas. «Cosa c’è?» disse, sputando le parole.

Tawas si mise sull’attenti. Con una mano si teneva i pantaloni. «Ho dimenticato la cintura», borbottò.

Issaq dovette allungare il braccio in alto per dargli un ceffone in pieno viso. «Vai a prenderla, allora!» gridò.

I comandanti bassi di statura sono i peggiori. Non cercano di nascondere la propria amarezza. Se la riversano su se stessi, diventano timidi. Se la riversano sugli altri, diventano tiranni.

Issaq era un tiranno.

Per il resto dell’inverno, ci mostrò il meccanismo su cui si basa la vita militare: la ripetizione. Il primo giorno fu uguale a tutti gli altri. Dopo la sveglia, correvamo all’area di atterraggio degli elicotteri. Zuppi e annaspanti, strisciavamo nel fango e nella ghiaia sotto la supervisione di Issaq. Facevamo flessioni e addominali sui sassi che ci scorticavano i palmi e ci tagliavano la schiena. Indossavamo solo il sottile shalwar kameez, le uniformi erano un privilegio che dovevamo ancora guadagnarci. Tra un esercizio e l’altro, Issaq si soffermava a riflettere su come accrescere le nostre agonie. Ma non aveva molta fantasia, quindi facevamo sempre le stesse cose. E se anche fosse stato creativo, non avrebbe potuto ideare tortura peggiore di quella routine invariabile.

Ci derideva sempre. Buttava indietro la testa chiedendo al cielo, o magari a Dio, come avremmo potuto essere pronti per combattere gli uomini di Gazan in primavera. «Come riuscirò a convincere un nobile comandante come Sabir che queste femminucce darwankee sono soldati?» borbottava tra sé e sé, sputando per terra, come se nella melma fredda potesse trovare il nostro viso. Quando poi si annoiava, ci ordinava di correre in tondo lungo il muro perimetrale di HESCO. Solidali, i cani trotterellavano al nostro fianco.

Quando Issaq si stancava anche di vederci correre in tondo, ci schierava in formazione. Aspettavamo, coperti di fango, che andasse a prendere la sua amata motocicletta, piccola e rossa, con la sella ricoperta di nastro adesivo, da cui fuoriusciva l’imbottitura marroncina. In seguito Tawas mi disse che era stata confiscata durante un raid due estati prima. Un uomo l’aveva usata per cercare di scappare. Era passato proprio davanti a Issaq, che gli aveva sparato un colpo di pistola in piena faccia. Secondo lui, questo gli aveva conferito il diritto di tenersi la moto. Dopo il raid, contrariando il comandante Sabir, l’aveva guidata per otto ore, per tornare alla base.

«Fianco destro, in marcia! Avanti, march! Aumentare il passo, march!» gridava Issaq, in testa alla formazione. La moto sputacchiava a ogni accelerazione. Noi gli correvamo dietro, fuori dal cancello a righe bianche e rosse e giù dalla collina polverosa che indossava la nostra base come una corona. Prendevamo la strada del Nord, un pesto nastro di ghiaia che tagliava tra le montagne, largo appena per un solo veicolo. La strada andava in entrambe le direzioni, ma la gente del posto la chiamava la strada del Nord perché verso sud non viaggiavano né merci né oggetti di valore.

Salivamo e scendevamo gli stretti tornanti. Scavalcavamo infinite creste e ci trovavamo all’ombra di una lunga vallata. Lì ci fermavamo, ansanti e sudati. Era il nostro poligono di tiro.

Naseeb ci aveva preceduto su un binjo bianco, che aveva parcheggiato accanto a un container abbandonato. Stava trafficando con la combinazione del grosso lucchetto alla porta. Il catenaccio si aprì. Entrò.

«Cosa aspettate? In riga! In riga!» gridò Issaq.

Ci mettemmo in fila. Naseeb diede a ciascuno un vecchio fucile a ripetizione: Lee-Enfield britannici e Mauser tedeschi, in pessime condizioni. Il legno del guardamano si era fossilizzato, il calcio era scheggiato e qualcuno aveva la canna lievemente piegata. I fucili migliori, i kalashnikov, erano destinati ai soldati, non a noi reclute. E il valore di un uomo, anche se recluta, non si distingue da quello del suo fucile.

Per tutta la mattina sparammo dal fondovalle mirando a sassi e alberi. Afferravamo la sfera di metallo in cima al manubrio dell’otturatore; la alzavamo per far scorrere indietro l’otturatore e aprire la culatta. Dentro ci mettevamo vecchie e pesanti pallottole con il bossolo tutto ammaccato, la forma un tempo affusolata ridotta a un grumo di piombo. Sparavamo in tutte le posizioni: seduti, in ginocchio, sdraiati, camminando e correndo. Issaq sembrava poco interessato al fatto che i nostri proiettili colpissero o meno qualcosa. Per lui l’unica cosa importante era che seguissimo le sue istruzioni. Quasi sempre avevo troppa paura di mancare clamorosamente il bersaglio per sparare. Facevo finta.

A mezzogiorno Naseeb ci portava il pranzo dalla base. Sentivamo le ruote del suo binjo bianco grattare contro il telaio ogni volta che prendeva una buca. Parcheggiava vicino alla nostra linea di tiro e scendeva. Io gli sorridevo e lui ricambiava, ma quando Issaq gli si avvicinava tornava subito ai suoi doveri.

«Che cosa mi hai portato oggi, mio grasso amico?» gli chiedeva Issaq.

Naseeb gli indicava con la testa il sedile del passeggero.

Issaq prendeva un thermos e ne annusava il contenuto fumante. «Ah! Ottimo! E per loro?» chiedeva.

«Sì, sì, il solito», diceva Naseeb.

«Servilo», gli ordinava Issaq. Poi andava a sedersi con il suo pranzo all’ombra degli alberi e si dimenticava di noi. Naseeb toglieva dal baule due sacchi neri dell’immondizia. Il drappello si metteva in fila disordinatamente. Dentro un sacco c’erano i naan avanzati dalla mensa dei soldati, nell’altro cipolle bianche crude. Cominciavano le imprecazioni, a voce abbastanza bassa perché Issaq non ci sentisse.

«Basta.»

«Bowli, cazzo.»

«Come si fa a combattere con questo rancio!» gridò qualcuno.

L’esclamazione fu accolta da molti grugniti di approvazione.

«Piantatela di lagnarvi!» interruppe Mortaza, la prima recluta della stagione, che aveva sopportato quella vita più a lungo di tutti gli altri. «Il cibo è abbondante. Che sia buono non ha importanza», ci rimproverò.

Presi il mio pasto e andai a sedermi vicino a Tawas e a suo fratello Qiam. Quasi tutto il plotone riusciva a farsi crescere almeno un ciuffo di barba. Quei due invece, come me, non ci riuscivano ancora. E a differenza degli altri, i due fratelli scherzavano mentre mangiavano.

«Sembra un banchetto. Certo che siamo fortunate, noi reclute!» disse Qiam.

«Le cipolle saranno forse poco cotte, ma i naan compensano ampiamente», rispose Tawas da sotto i riccioli biondo scuro.

Il fratello con i capelli neri, Qiam, mi diede una pacca sulla spalla e mi chiese: «E tu, amico? Non hai qualche suggerimento per lo chef?»

Non sapendo cosa rispondere, restai in silenzio.

Qiam scrollò le spalle ossute. Mi guardò con durezza, quasi che il mio silenzio fosse un insulto. Tawas sorrideva e prese il fratello per un gomito. «Ah, un muto! È l’ideale», disse, guardandomi.

Sopra di noi, alcuni rami si mossero. Era Mortaza che si arrampicava sul pino, dal quale ci arrivò addosso una pioggia di aghi marroni. Si isolava dal drappello, mangiando sdraiato su un ramo robusto. Guardava dall’alto i fratelli e me, e gli altri soldati che si lamentavano.

Finiti i naan e le cipolle, eravamo abbastanza pieni. Riprendevamo l’addestramento. Quando il sole sfiorava il profilo delle creste, Issaq ci faceva mettere in marcia verso la base, per cena. Ci toccava sempre anche un addestramento notturno, quindi consumavamo il pasto con il fucile accanto. Era importante. La cena era l’unico momento in cui vedevamo i quasi trenta soldati dello Special Lashkar. Il possesso del fucile era l’unica cosa che ci accomunava. Invidiavo l’uniforme che portavano e, giorno dopo giorno, imparai a odiare il comodo shalwar kameez che indossavo da sempre.

A cena mangiavamo bene, un quorma di manzo o di capra stufati, carne tenera e riso cotto al forno con olio, sale e burro, serviti insieme come un chalow. Alla mensa sedevamo quasi alla pari con i soldati. Siccome non si fidavano di noi, parlavano poco della futura campagna militare. Piuttosto ricordavano i vecchi amici, ridevano raccontando storie di anni prima. Così passavano le settimane di quell’inverno di cui pativamo aspramente i rigori. Man mano che gli altri soldati ci vedevano trascinarci in mensa, malconci e con lo sguardo torpido, si controllavano sempre meno nel parlare.

Non mancava molto alla primavera quando gli uomini di Gazan fecero esplodere un’altra bomba a Orgun. L’ordigno distrusse il pianterreno di un edificio dove io e Ali un tempo andavamo a mendicare. Morirono sei persone. I soldati ne discutevano animatamente e senza più reticenze. Si chiedevano come avrebbe reagito il comandante Sabir. Si diceva che Gazan si nascondesse sulle colline a sud di Shkin, in una serie di villaggi di confine isolati. Gli americani lo volevano prigioniero o morto. Mr Jack avrebbe fornito al comandante Sabir i mezzi per mettersi sulle sue tracce, consegnandoci uniformi e fucili nuovi e, si vociferava, aumentando il budget dello Special Lashkar per la nuova stagione di combattimenti. Ogni sera, a cena, imparavamo qualcosa in più su quello che ci aspettava. Il pasto e le informazioni a spizzichi e bocconi ci davano l’energia e la pazienza per sopportare i tormenti dell’addestramento.

Issaq mangiava sempre a un tavolino nell’angolo, insieme agli altri comandanti dei plotoni e delle squadre. A capotavola, il comandante Sabir era svaccato sulla sedia con le braccia incrociate sul petto snello e studiava il cibo quasi fosse una scritta in piccolo in fondo a un contratto. Ogni tanto ne masticava una forchettata e il suo viso si serrava in un’espressione risentita, come se avesse preferito non dover mangiare per vivere.

Il passaggio al tavolo del comandante Sabir avveniva grazie ai risultati conseguiti in battaglia. Il suo viso sfigurato ce lo ricordava con brutalità. Il labbro inferiore maciullato sembrava un petardo esploso. Dietro, due file di denti, alcuni d’oro, altri marci e altri ancora bianchi, si affacciavano in un ringhio scomposto. Quella deturpazione, insieme alle cicatrici, al ventre prominente e ai calli degli altri uomini, dava al gruppo di comando un’autorità di tutto rispetto, ben superiore a quella del rango o delle medaglie luccicanti.

Dopo cena, la notte si dipanava esattamente come il giorno, tranne che Issaq ci raggiungeva in moto e indossava un casco con il visore notturno. Nessuno di noi l’aveva e, tornando al poligono, gli stavamo dietro a fatica. Appena arrivati, ansimanti e sudati, ci rimettevamo al lavoro: sparavamo con i Lee-Enfield e i Mauser a ripetizione, con la canna piegata, e mancavamo sempre il bersaglio. Nel freddo notturno il vapore emanato dai nostri corpi si mischiava al fumo degli spari, immergendo il poligono nella nebbia. La mia mente vagava e a quel punto la nebbia sembrava dissiparsi. Il segreto di mia madre, i suoi occhi marrone e verde, il fucile di mio padre nascosto nella legna, quello che Gazan aveva tolto ad Ali, tutto mi appariva vivido. La vita del soldato però incombeva, e la nebbia dopo poco tornava. Quell’inverno, se avessi visto il futuro con la chiarezza con cui vedevo il passato, forse sarei scappato.

Alla fine le giornate divennero più calde. Sulle montagne gli aghi dei pini si infittivano, segnale che presto sarebbe arrivata la primavera. Dopo un po’ anche le notti divennero meno fredde. Una notte, di ritorno dal poligono, ciascuno di noi trovò un’uniforme verde sulla coperta. La mattina seguente, a venirci incontro non fu Issaq. Fu il comandante Sabir.