Le voci che giravano in mensa si rivelarono vere. La mattina dopo il comandante Sabir ordinò che si allestissero i primi posti di blocco. Se gli uomini di Gazan operavano liberamente attorno a Gomal e sulle montagne circostanti, noi dovevamo prendere posizione, isolando il villaggio dal resto del mondo. Ogni giorno alcuni di noi bloccavano la strada del Nord con i sacchi di sabbia e il filo spinato, mentre gli altri si nascondevano tra le rocce e i pini aspettando in agguato, casomai qualcuno sbucasse dal reticolo di sentieri del contrabbando che solcava cime e crinali.
Un giorno, a parecchie settimane dall’inizio delle operazioni, ero appostato lungo uno di quei sentieri, a metà strada fra la nostra base e Gomal. Avevo appoggiato il fucile contro il tronco di un pino e mi ero accovacciato. Toccava a me tenere d’occhio il passaggio. Alle mie spalle correva un crinale di scisto. Sull’altro versante Yar, Tawas e Mortaza dormivano nella nostra Hilux. Avevamo guidato tutta la notte per arrivare lì e ormai il primo sole del mattino ricacciava indietro l’ombra fredda. Sul fare del giorno le montagne erano belle e tiepide attorno a me. Dal tascone dei pantaloni presi un pezzo di naan stantio e una bustina di miele. Il naan era congelato e il miele sembrava malta. Non ero ancora riuscito a spalmarlo tutto, quando il sordo borbottio di un motore riecheggiò sulle pareti rocciose. La paura mi strinse lo stomaco. Chi viaggiava su quegli angusti sentieri da trafficanti non poteva avere intenzioni oneste. Lasciai cadere il cibo, afferrai il fucile e mi buttai sulla pista. Dietro una sporgenza si levò un mulinello di polvere. Vidi un uomo su una motocicletta che avanzava scoppiettando verso di me.
«Fermo!» gridai, e puntai il mirino su di lui, incerto se sparare o no. L’uomo era completamente concentrato sul terreno accidentato che stava percorrendo. Aveva gli occhi fissi davanti al manubrio.
Non si fermò.
La moto sobbalzava e scodava sul pietrisco.
Gridai di nuovo.
Sembrava che non mi sentisse, forse per via del frastuono del motore, e comunque non si fermò.
Man mano che si avvicinava, lo vidi meglio. Era giovane e snello e il suo turbante era nero e gonfio. Una lunga barba nera gli scendeva sul petto. Legata dietro la moto c’era una grossa cassa, appena più lunga del mio fucile, che rendeva ancora più difficile mantenere l’equilibrio.
Ormai mi aveva quasi raggiunto ma, prima che avessi il tempo di gridare un altro avvertimento, un colpo sparato dall’alto piombò in mezzo a noi. Guardai in su. In piedi sulla cresta c’era Yar, stagliato contro il cielo, il fucile puntato. Il motociclista alzò gli occhi e mi vide davanti a sé. Girò di colpo il manubrio tirando i freni, ma perse il controllo del mezzo e cadde sui sassi, rotolando sul pendio.
Appena si rimise in piedi, ignorando la moto si tuffò a prendere la cassa, che si era slegata ed era finita fuori strada. Io percorsi il breve tratto che mi separava da lui, il fucile imbracciato, gli occhi nel mirino, finché non gli fui sopra. Lui non mi guardò nemmeno; affondava i talloni dei sandali nei sassi, in preda al panico, scalciando e arrancando per spingere la cassa sul sentiero. L’urto gli aveva fatto volare via il turbante. Il viso graffiato sanguinava, ma lui non se ne curava: badava solo alla cassa.
Sovrastandolo, gli dissi a bassa voce: «Fermati o sparo». A quel punto il motociclista si sedette per terra, mi guardò e sputò.
«Se sei un uomo di Dio, aiutami», mi disse. Tornò a guardare la cassa. Era di legno, tranne a uno dei due capi, dove c’era un vetro. La finestrella era intatta, ma crepata. Dentro si vedeva un visino grigio circondato da una ghirlanda di salvia, cardi e tulipani. Negli occhi del motociclista brillava limpida una determinazione disperata. Misi il fucile a tracolla e presi un’estremità di quella che ormai sapevo essere una piccola bara. Il motociclista prese l’altra e la issammo sul sentiero.
Yar, Tawas e Mortaza stavano scendendo sul crinale per raggiungerci. Avevano i fucili in spalla. Erano rilassati. «Cosa sta facendo questo cretino?» gridò Yar.
«Ha bisogno di aiuto!» risposi.
«È già fortunato se lo lasciamo andare», disse Yar.
«Datemi una mano!» gridai io.
Yar si accigliò e aggrottò la fronte, pensieroso. Guardò Mortaza e Tawas e indicò con un cenno la motocicletta, che si era fermata a metà della scarpata. Con la canna del fucile, fece segno all’uomo di alzarsi e allontanarsi dalla bara.
«Aziz, perquisiscilo.»
«Non è pericoloso», risposi.
Yar spalancò gli occhi, arrabbiato.
Mi avvicinai all’uomo e tastai la sua struttura ossuta, perquisendolo. Ogni volta che lo toccavo, la pelle scivolava flaccida sulle ossa. Si vergognava di essere trattato come un criminale e io mi vergognavo di trattarlo come tale. Non riuscivamo a guardarci in faccia.
Quando ebbi terminato, alzai le mani. «Non ha niente», dissi.
«Sotto la barba», insistette Yar.
Eravamo in piedi, petto contro petto. Lui sollevò il mento e mi guardò con sdegno. Inclinai la testa e allungai la mano sul suo collo. Lo tastai con delicatezza, poi mi scostai.
Yar si avvicinò a noi. Diede un’occhiata alla cassa. «Cos’è?» mi chiese.
Invece di rispondergli, lasciai che lo scoprisse da solo. La pelle del bambino era liscia, quasi fresca, ma gli mancava la pienezza della tenera età. Le guance avrebbero dovuto essere paffute, ma il grasso era sparito, lasciandole ingiallite e magre come quelle di un uomo. E la perdita era tutta nel viso. Quello che sarebbe diventato crescendo, nel giro di dieci o quindici anni, era già lì, ci guardava, e penso che perfino il più duro di noi, perfino Yar, che aveva combattuto contro Hafez e gli Haqqani prima che arrivassero Gazan e i talebani, Yar, il cui passato di miserie era sepolto così in profondità dentro di lui da sapere che non l’avrei mai sentito raccontare, perfino lui riuscì a vederlo. Perfino lui fu in grado di rispettare quel dramma.
«Cos’è successo?» domandò Yar.
Gli occhi del motociclista guizzavano tra i suoi piedi e la bara. Non riusciva a guardare il bambino a lungo e pronunciò in fretta le parole: «È morto».
«Certo, lo vedo», rispose Yar, in un tono che si avvicinava alla tenerezza. «Com’è morto?»
Lo sguardo dell’uomo era fisso su di noi. Il suo petto si espanse e sembrò guadagnare parecchi centimetri con l’odio che stava inalando nei polmoni. «Mio nipote era fuori da un altro villaggio, a rubare cibo, pinoli. Gli uomini del posto gli hanno sparato, come a un ladro, e l’hanno lasciato sulla collina, in mezzo agli alberi.»
«Ti prenderai la tua badal contro i responsabili?» gli chiese Yar.
Lui annuì.
«Allora seppellisci tuo nipote e vieni a combattere insieme a noi», gli disse Yar. «Quando avremo scacciato Gazan da Gomal, le sofferenze cesseranno.»
Lui scosse la testa. «Che badal sarebbe?»
«Faremo scorrere il sangue di Gazan e dei suoi uomini. Ecco la tua badal.»
L’uomo pronunciò parole rapide e cariche di odio: «Se il sangue che sarà versato sarà il suo o il vostro, per me non fa differenza».
Ci scansò per raggiungere il punto del sentiero in cui Tawas e Mortaza avevano issato la sua motocicletta. Recuperò da terra un pezzo di corda, che rigirò fra il gomito e il pollice per poi legare nuovamente la bara.
«Ti abbiamo aiutato», gli dissi. «Sei ingiusto a dire che non ti dispiacerebbe vedere scorrere il nostro sangue.»
L’uomo lasciò cadere la corda e guardò per terra. Poi guardò noi. Lo sguardo pareva duro, ma gli occhi erano lucidi. «Ingiusto? Mi avete fatto cadere su un sentiero che sono costretto a percorrere perché la vostra faida con Gazan blocca la strada del Nord. Mio nipote è morto perché avete ridotto il mio villaggio alla fame. Adesso vado a seppellirlo lontano dai vostri combattimenti. La badal è la sola cosa che mi rimane e la mia badal è negarmi a voi, a Gazan e a chiunque altro parli di sangue.»
Si rimise a legare la cassa. Poi salì a cavalcioni della motocicletta, la accese con il pedalino di avviamento e ripartì scoppiettando sul sentiero.
Guardammo il motociclista e la sua bara scomparire verso il punto in cui le montagne formavano una specie di treccia, a nord. Tawas mi diede il cambio sul sentiero e tornai con gli altri oltre la cresta, a nascondermi dove i massi scavavano ombre nel sole. Non era facile trovare una posizione comoda per sedersi sul ghiaione e di tanto in tanto, quando smuovevamo i sassi, una piccola frana scivolava lungo il fianco della montagna. Ogni volta Yar ci guardava incattivito. La giornata trascorse fra valanghe di sassi e turni di guardia sul sentiero.
Non vedevamo l’ora che calasse la sera per tornare alla base. Poi, nel tardo pomeriggio, in lontananza vedemmo salire un’altra nuvola di polvere. Yar guardò me e Mortaza con una freddezza che ci imponeva di rimanere immobili. La nuvola si insinuò tra le dita della montagna, avvicinandosi sempre di più. Sul sentiero, Tawas, istupidito e inerte, masticava il suo chewing-gum con l’espressione assente di una mucca che rumina.
Comparve una coppia di moto. Su ciascuna viaggiavano due uomini. Il primo conducente vide subito Tawas e frenò di colpo, rischiando di ribaltarsi. Il secondo oscillava avanti e indietro, cercando di vedere il sentiero più oltre e maledicendo i compagni per essersi fermati. Continuò quanto bastava a darmi il tempo di mettermi in punta di piedi per avere una visuale migliore. Vidi uno dei due uomini della seconda moto correre verso la prima, poi il terreno mi cedette sotto i piedi: lo scisto del versante si era sbriciolato. I quattro se ne accorsero, abbandonarono le moto e, nel panico, corsero in quattro direzioni diverse. Yar sparò in aria alcuni colpi. Gli uomini si immobilizzarono.
«A terra!» gridò Yar e la sua voce riecheggiò oltre la cresta come se fosse quella di Dio; gli uomini reagirono di conseguenza, buttandosi a terra e muovendo la testa per capire da dove provenisse la voce.
«Vogliamo interrogare i prigionieri?» ci domandò Yar con un sorriso.
Scendemmo di corsa lungo il fianco della montagna, verso i quattro uomini. Uno per volta, Yar li prese per la camicia e li mise in fila lungo il sentiero. Li costrinse ad accovacciarsi malamente spingendoli giù, con forza. Mortaza lo aiutò. Strinsero delle manette di nylon attorno ai loro polsi facendole penetrare nella pelle. I prigionieri allungavano il collo, si contorcevano come uccelli aggrappati allo stesso ramo, cercando di vedere chi fossimo.
Tawas stava correndo sul sentiero. Yar lo indicò e gli gridò: «Tu e Aziz controllate le loro cose».
Le moto giacevano sulla strada come una coppia di cani al sole. Rovistammo con i fucili nei fagotti legati dietro. Viaggiavano leggeri: qualche coperta di lana pesante, tre bottiglie grandi di Fanta e un paio di sacchetti di plastica pieni di naan stantii e albicocche secche. Tawas si appiccicò la gomma da masticare dietro l’orecchio e bevve da una delle bottiglie di Fanta. Me ne offrì un sorso, ma rifiutai. Non volevo rubare a quegli uomini.
Non c’erano armi, ma non significava necessariamente che non militassero con Gazan. Erano tutti dell’età giusta e spesso i combattenti si spostavano disarmati, in previsione di posti di blocco come il nostro.
Mi avvicinai a Yar, che era di spalle e torreggiava sopra di loro. «Non hanno niente, solo da dormire e un po’ di viveri», gli sussurrai all’orecchio. Lui scrollò le spalle, senza dare peso al mio rapporto.
«Che cosa sapete di Gazan?» La domanda cozzò contro il silenzio e gli sguardi rivolti a terra di quegli uomini. Yar diede un colpetto nelle reni a uno di loro, che, già in equilibrio precario, non riuscì a non cadere lentamente a terra, a faccia in giù. Yar si chinò, portandosi all’altezza dei suoi occhi. «Vuoi farmi credere che nessuno di voi sa chi è Gazan?» ruggì.
L’uomo giaceva con la guancia a terra e le mani legate dietro la schiena. I suoi respiri si tramutarono in grugniti quando, a fatica, riuscì a tirarsi su. «Ovvio che ho sentito parlare di Gazan, ma non lo conosco.»
Yar rispose sbuffando. Sputò per terra e con un calcio scagliò la poltiglia sul viso dell’uomo. Rabbrividii. Quegli uomini non avevano armi e, per quello che ne sapevamo noi, non avevano fatto nulla di male. La loro presenza sul sentiero era difficile da spiegare, ma noi stavamo esagerando.
I prigionieri erano seduti sui talloni, paralizzati dalla paura, paura di Yar e – rendermene conto mi mise a disagio – anche di me. Erano costretti a piegare braccia e gambe ad angoli strettissimi, ma la carne che avevano addosso era talmente poca che nemmeno faticavano a mantenere quella posizione. Mentre camminava in mezzo ai quattro fagotti di articolazioni, carne e vestiti sporchi, Yar sputò un’altra domanda: «Da dove siete partiti?»
Nessuno rispose. Yar si prendeva tutto il tempo per scegliere la vittima, godendo del terrore che quell’attesa scatenava. Si accovacciò disinvolto accanto a uno dei prigionieri, che aveva un viso molto liscio. Si sentì lo schiocco della carne sulla carne, quando lo schiaffeggiò con i tre artigli callosi della mano monca. Risputò la domanda in un sussurro caldo: «Ho chiesto da dove siete partiti».
L’uomo piagnucolò, ma riuscì a non perdere l’equilibrio. Gli occhi sporgenti erano sgranati e il bianco era percorso da una ragnatela di vene. Un cardo violetto appuntato sul bavero del suo gilè sembrava sfidare Yar. L’uomo tirò su con il naso per contrastare il dolore. «Siamo musicisti itineranti in cerca di lavoro», disse.
Yar inclinò la testa di lato, confuso.
Dietro di lui, Tawas scoppiò a ridere e la Fanta gli gorgogliò nel naso. Si pulì il mento e l’uomo dal viso liscio gli sorrise. Yar guardò dietro di sé e inclinò la testa dall’altra parte. Sorrise anche lui, poi con il pugno chiuso della mano buona colpì l’uomo dal viso liscio. I piedi dell’uomo non lo ressero e rimase sospeso a mezz’aria per un istante, prima di atterrare sul fianco. Gli altri tre fecero un respiro profondo. E anche Tawas.
Io mi allontanai da Yar, che sollevò un altro prigioniero per i polsi legati. Era brutto, aveva il naso piatto, le orecchie grandi e l’ampio viso dai tratti mongoli degli hazara. Gli occhi erano all’altezza di quelli di Yar e il petto pure, ma tremava e sembrava piccolo piccolo. Yar godeva di quel tremito e sbuffò di nuovo, le narici frementi. «Se sei un musicista, chungayz dalla faccia piatta, dove sono i tuoi strumenti?» Senza dargli il tempo di rispondere, lo spintonò. L’uomo brutto perse l’equilibrio e ricadde sul fianco accanto a quello dal viso liscio. Poi entrambi si rimisero lentamente in piedi. Il cardo si era schiacciato e penzolava avvizzito dal bavero. I due si piazzarono davanti a Yar, gli abiti sudici e i capelli opachi di polvere. Yar scoppiò a ridere. Pensai che fosse per come erano conciati, ma mi resi conto subito che a farlo ridere era il potere che aveva su di loro.
La scena era vergognosa. Quegli uomini non sapevano cosa fosse il nang. Subivano le percosse di Yar senza reagire. E Yar sferrava i suoi colpi senza nessuna pietà. Quello all’estremità della fila, che era scampato a Yar, mormorò: «Troviamo gli strumenti dove ci fermiamo. Non abbiamo i soldi per comprarne di nostri».
La risposta piagnucolante fu troppo per Mortaza. «Se riprovate ad aprire bocca, vi spacchiamo la testa, cani.»
Yar approvò annuendo. «Non sopporto la vista di queste darwankee, queste femminucce», disse, e fece un cenno a me e a Mortaza di portarli via. Li facemmo alzare e li spingemmo su per il crinale. La nostra Hilux era parcheggiata nella gola sul versante opposto. Facemmo marciare il gruppetto silenzioso in fila indiana. Nessuno parlava. Vergogna di essere trattati come animali, di guardare un amico soffrire, di abusare di uomini indifesi. Il silenzio portava con sé la vergogna e la vergogna ci portava al silenzio.
Tawas rimase indietro con Yar; fecero rotolare alcune bombe a mano sotto le motociclette. Nella gola riecheggiarono due botti sordi, come lattine di bibite schiacciate. Pur capendo dal rumore che i loro mezzi venivano distrutti, i quattro uomini non osarono alzare lo sguardo.
Perché non avevano strumenti? Confortato da quel pensiero, immaginai Gazan e i suoi combattenti che cercavano i compagni dispersi e trovavano solo due moto distrutte. Altrimenti, cosa ci facevano quei quattro sul sentiero? Se cercavano di suscitare la nostra commiserazione, era per ingannarci. Se ci fossimo cascati, più avanti ci avrebbero trovato, noi o i nostri commilitoni, e saremmo stati vittime del loro vero ruolo. In un circolo vizioso, tornavo e ritornavo su quei pensieri, che si depositavano a formare la verità che desideravo. E forse era davvero la verità.
La Hilux aspettava nella gola, ammaccata e dipinta di grigio come la montagna. Io e Mortaza caricammo i prigionieri sul cassone. Nell’aria si sentiva già il fresco che annunciava la notte prima del tramonto. Per loro, il viaggio al freddo sarebbe stata una violenza aggiuntiva: non indossavano altro che la camicia. Nessuno di noi voleva restare con loro durante il lungo viaggio fino a Shkin.
«Aziz, sul cassone», mi disse Yar. «Mortaza, guida tu per un tratto.»
«So guidare anch’io», protestai.
«Sì, ma sei più bravo con la mitragliatrice», disse Yar, aprendo la portiera.
«E Tawas?» chiesi.
Yar lo guardò, la gomma da masticare appiccicata dietro l’orecchio, ancora a tracannare Fanta, che gli sgocciolava sul davanti della camicia. Scosse la testa. «Appunto, è meglio che la mitragliatrice la maneggi tu.»
Mortaza mi rivolse un sorriso crudele.
«Pa kona da keegeda, vaffanculo», gli dissi e sputai per terra.
Spostai acqua, munizioni e altre scorte per farmi un sedile comodo. Da ultimo piazzai un prigioniero in ogni angolo, un carico di cui avrei fatto volentieri a meno. Mi arrampicai sul mio trespolo, il motore della Hilux si accese e ci avviammo sui morbidi ciottoli della gola. Ero appoggiato contro l’abitacolo con il palmo della mano sul calcio della mitragliatrice, che oscillava pigramente da una parte all’altra. Una grossa scatola di munizioni era sistemata malamente nell’angolo dove era seduto l’uomo dal viso liscio. Aveva le braccia premute dietro la schiena e, ogni volta che prendevamo una buca, la scatola gli schiacciava le dita. Lui trasaliva ma non fiatava, per paura di essere picchiato un’altra volta. Sfilai il coltello dalla cintura e allungai la mano alle sue spalle. Vedendo la lama lui tremò, ma quando tagliai le manette di nylon e le sue mani furono libere, mi fece un sorrisone che brillò anche nella luce calante. Riappoggiai la mano sul calcio della mitragliatrice e lasciai che il pick-up mi cullasse avanti e indietro, come un neonato. L’uomo dal viso liscio fissava il cardo sul proprio bavero, tamburellando sul cassone di alluminio mentre l’altro, quello brutto, canticchiava sottovoce. La canzone viaggiò per i monti, fino alla nostra base.