La morte porta una grande quiete a chi le si trova vicino. Restai seduto in macchina con quei tre per qualche minuto. Poco prima non ero nemmeno sicuro di compiere la mia badal su Gazan. Ora che l’avevo fatto, sperai che la quiete mi rivelasse come agire dopo.

Rimasi in assoluto silenzio.

Tirai fuori il cellulare e inviai un messaggio al comandante Sabir: FATTO. RITORNO. Mi riferivo ad Atal. Al comandante Sabir gli altri due non interessavano. Gazan l’avevo ucciso per la mia badal. E riguardo a Mr Jack, senza dubbio un altro americano l’avrebbe sostituito e i piani del comandante Sabir non avrebbero subito intoppi. Nessuno avrebbe saputo che era stato ucciso dal fuoco amico.

Ma pensandoci meglio, non ero sicuro che lo fosse. In fondo non portavo più l’uniforme. Eppure avevo fatto parte dello Special Lashkar, una creazione degli americani. E ripensai che era il comandante Sabir a foraggiare Gazan e che erano gli americani a foraggiare il comandante Sabir. Se riflettevo su tutti i modi in cui si poteva restare uccisi in quella guerra e su tutti quelli che potevano uccidere, non mi veniva in mente un solo modo di morire che non fosse per fuoco amico. Era tutta opera degli americani.

Aprii la portiera del passeggero e la luce di cortesia si accese, incollando il suo bagliore sull’impasto di sudore, muco, lacrime e sangue della morte violenta. Raddrizzai Gazan sul sedile. Sul suo viso cereo brillavano piccole macchioline umide. I palmi erano ricaduti ai lati del corpo, piatti e girati verso l’alto. Solo una cosa mi sorprese: aveva gli occhi chiusi. In quel momento prima della morte, sembrava aver deciso lui che era finita, non io, e aveva chiuso gli occhi. Questo mi derubò dell’idea di avergli tolto la vita.

Mi allungai oltre il corpo di Gazan e tirai Atal sopra di lui per poter guidare. Mentre lo strattonavo, notai che la catena d’argento con l’opale si era spezzata. Avevo sempre ammirato quella pietra. Come per tutto il resto, Atal aveva esibito al mondo la collana con un atteggiamento di sfida, come se una pietra preziosa, o magari abiti costosi e una bella casa fossero talismani sufficienti a proteggere la sua esistenza dalla polvere e dal bisogno che lo circondavano. Presi la pietra e me la infilai nella tasca dello shalwar kameez. Un talismano mi avrebbe fatto comodo.

Mi vibrò il cellulare. La risposta del comandante Sabir: TORNA.

Il visore notturno di Mr Jack gli era caduto tra le gambe. Lo raccolsi e guidai nell’alone verde verso la sua Hilux nera. Parcheggiai la macchina di Atal vicino a quella di Mr Jack e rimisi il cadavere del vecchio sul sedile del conducente. Con la portiera aperta, la luce di cortesia mi concesse un’ultima occhiata alla scena e mi convinse che chiunque li avesse trovati avrebbe tratto una semplice conclusione: un incontro tra un comandante dei miliziani, un anziano corrotto del villaggio e un americano troppo sicuro di sé, mandato a monte dall’inganno. Quella mezza verità mi avrebbe lasciato soddisfatto, non fosse stato per un particolare: Fareeda.

Presto avrebbe saputo di suo zio e immaginato che ruolo avevo svolto. Avevo bisogno che conoscesse la verità come la conoscevo io. C’è tempo, pensai. Se mi fossi sbrigato, sarei riuscito ad andare da lei e poi a raggiungere Shkin prima dell’alba. Lasciai i corpi e salii sulla Hilux di Mr Jack. Mi misi a guidare. Intanto guardavo la valle, il buio che avvolgeva l’abitazione di Fareeda.

 

 

In casa c’era una luce. Occhieggiava attraverso la breccia nel muro. Era una lucina, ma nella notte nessun’altra le faceva compagnia. Parcheggiai la Hilux nera vicino al cancello rosso. Lasciai il motore acceso. Una volta sceso, mi misi a tracolla il kalashnikov. Puntato a terra. Mentre camminavo, le mie gambe sfregavano sulla canna tiepida. Scavalcai il muro crollato e mi diressi alla casa.

La porta era aperta. La brezza faceva cigolare i cardini. Dentro ardeva la fiamma nuda di una lampada a olio. Rimasi nel buio, sulla soglia, e vidi Fareeda. Era seduta sul divano del salotto, ad aspettare, o almeno così sembrava. Pensai a quello che mi aveva raccontato Atal: quando l’aveva trovata proprio in quella stanza, da bambina. Era la seconda volta che veniva abbandonata lì. Ma sapevo che era anche peggio. Se quella notte stava aspettando Atal, voleva dire che lo aspettava sempre. E ogni volta che lui se ne andava, lei veniva abbandonata.

Varcai la soglia, in modo che potesse vedermi. I suoi occhi trovarono i miei ma li lasciarono subito, per andare a posarsi sul fucile che avevo in spalla. Solo quando lo appoggiai vicino alla porta tornò a guardarmi. Tuttavia non disse nulla. Si alzò, prese la lampada e si diresse sul retro della casa. Mi sedetti. Al buio, la aspettai. Tornò quasi subito. Con la mano sinistra reggeva, alto sopra la testa, un vassoio. C’erano una teiera con un unico bicchiere e la lampada a olio. Appoggiò il vassoio sul tavolo e mi servì, riempiendo quell’unico bicchiere. La lampada era in mezzo a noi. Mentre bevevo, essendo vicini alla luce, lei notò le poche macchioline di sangue sulle mie mani e sui miei vestiti. Ecco cosa ero venuto a dirle. Non aveva senso nasconderglielo, ma prima che potessi parlare, lo fece lei.

«Adesso resterai qui?»

Scossi la testa. «No.»

«Allora hai ucciso anche me con lui», disse, guardando la porta. Là, alla luce lontana della lampada, ombre scure e calde guizzavano sul fucile. «Usalo per fare a me quello che hai già fatto a lui», disse.

«Vorrei fare un’altra cosa», le risposi. Spostai lo sguardo sulla fiamma della lampada. «Potrei essere per te quello che era lui, se mi permetti di trovare il modo.»

«È il modo che mi ha strappato mio zio e, prima ancora, mio padre», rispose.

«Ti procurerò la medicina che ti serve.»

Dopo che ebbi pronunciato quelle parole, i suoi occhi si soffermarono su di me, carichi di odio. Ma non era per Atal o per tutto ciò che il suo villaggio aveva perduto. L’odio dipendeva dal bisogno. Fareeda era prigioniera del suo bisogno e io ne ero diventato il signore e padrone. La amavo e avrei trovato il modo di provvedere a lei, ma questo voleva dire farmi odiare. E guardando Fareeda e tutte le parti, belle e spaventose, del suo corpo, mi resi conto che aveva odiato anche Atal.

«Allora tornerai?» mi chiese.

Allungai una mano verso di lei. D’istinto, si ritrasse, ma poi si controllò e mi lasciò fare. Aveva uno scialle sulle spalle. I miei polpastrelli ne percorsero l’orlo, trovando il punto in cui infilarsi sotto. Toccai la pelle liscia del suo braccio buono. Intrecciai le dita alle sue. Poi, con l’altra mano, tirai indietro lo scialle. Giunsi i nostri palmi. Le sollevai la mano liscia e la baciai come avevo visto fare ad Atal. Alzai la testa, cercando i suoi occhi, ma lei guardava da un’altra parte. Il suo sguardo freddo era posato sulla lampada che ci separava. Mi allungai verso il tavolino e abbassai la fiamma. Al buio, lei si allontanò di nuovo da me. Aveva paura di quello che avrei potuto fare e magari avrei fatto. Lasciai la mano buona. Con il braccio, l’attirai a me. I nostri corpi erano premuti l’uno contro l’altro. Poi il suo si afflosciò, come se ne fosse uscita, sacrificandosi a tutta la meschinità che immaginava esserci in me. Le passai attorno l’altro braccio e afferrai la carne nodosa dell’arto deforme. Lo sollevai, come per baciare anche quello, ma non ci riuscii.

Delicatamente, glielo appoggiai sulle gambe. Lo coprii con l’orlo dello scialle. Dalla tasca dello shalwar kameez tirai fuori l’opale. Le passai le mani attorno al collo. Le legai sulla nuca i due estremi spezzati della catena. L’opale poggiò sul suo petto nell’oscurità. Andandomene, alzai la fiamma della lampada. E mentre varcavo la porta ripresi il fucile.

 

 

In quel che restava della notte, tornai in macchina a Shkin. Nell’abitacolo della Hilux di Mr Jack l’aria era satura di una dolcezza artificiale. Dallo specchietto retrovisore penzolava un grappolo di deodoranti di cartone, tutti a forma di pino. Per me non era quello il profumo dei pini ma forse per Mr Jack sì. La sua Hilux aveva anche le cinture di sicurezza, che mancavano in quella di Atal. Allacciai la mia. Sul momento mi sembrò una precauzione sciocca, ma agganciato al sedile, respirando il dolce odore chimico dell’aria deodorata, mi sentii protetto dal mondo esterno che conoscevo così bene. Era una sensazione di potere. Con una mano sul volante e l’altra che teneva il visore notturno, trovai la strada del Nord e cominciai a salire e scendere i suoi molti tornanti. Dall’abitacolo pulito sembrava che nulla avrebbe potuto farmi del male e, grazie a quella sensazione, l’intera catena montuosa divenne simile a un nodo ormai districato.

Passai sul margine consumato del cratere di Qiam. Si sbriciolò leggermente sotto di me. Proseguendo, in lontananza, nel verde del visore notturno, vidi la sagoma di uno dei mezzi dello Special Lashkar, un posto di blocco. Era fissato al fianco della montagna come un antico masso, la sua forza nell’immobilità. Il mitragliere era sdraiato sul cassone. Mentre mi avvicinavo, si mosse e raccolse il visore notturno per guardare nella mia direzione. Poi tornò a stravaccarsi. Non aveva intenzione di fermare la Hilux di Mr Jack.

Guidavo a tutta velocità, esausto per gli eventi della nottata. Una grande stanchezza mi si rimescolava sul retro delle gambe e mi correva su per la colonna vertebrale, ammantandomi le spalle. Ero chino sul volante, mi premevo il visore notturno sulla faccia e stringevo i denti per continuare a guidare. Procedevo in parallelo a un torrente che correva nella gola verso Shkin. L’acqua si dipanava davanti a me come un nastro nero ma presto cominciò a danzare con la luce del mattino. I colori dei pini a poco a poco si fecero sempre più nitidi. Poggiai sul sedile il visore notturno e indirizzai lo sguardo verso le montagne che ora reggevano sulle spalle il primo chiarore del giorno.

Quando la mia Hilux si arrampicò sull’ultima salita, la base si mostrò ai miei occhi: una distesa di edifici bassi, logori e marroni. Mentre percorrevo il pezzo di strada che mancava, a diverse centinaia di metri dal cancello vidi un uomo appoggiato con disinvoltura a un motorino. Era vestito con raffinatezza, si faceva notare. Lo shalwar kameez blu scuro gli arrivava alle ginocchia e gli abbondanti pantaloni erano in tinta. Sul suo capo il turbante grigio, quasi argentato, era avvolto in un lindo fagotto e la coda, pigramente drappeggiata sulla sua spalla, gli scendeva sul petto. Le sue dita giocherellavano con l’estremità.

L’uomo mi si parò davanti allargando le braccia, intimandomi di fermarmi. Frenai con decisione e, mentre il peso della Hilux si spostava in avanti, vidi che era il comandante Sabir. Si diresse alla mia portiera con l’eleganza posata di tutti i grandi predatori.

«La macchina dell’americano?» mi chiese, infilando la testa nel finestrino.

«Era presente all’incontro», dissi. «Un imprevisto.»

Il comandante Sabir annuì, si leccò le gengive inferiori, scoperte, recependo il significato della notizia. «Ed è tutto fatto?» mi chiese.

«Sì. Atal, Gazan e Mr Jack», risposi.

«Mr Jack.» Pronunciò il nome per distaccarsi da una cosa che gli era stata familiare. «E sei sicuro di Atal?»

Non volendo ripetere il suo nome, annuii.

«Bene. Adesso la situazione cambierà, Aziz.»

«Non ci sarà la pace», risposi.

«La guerra è una madre per gli uomini come noi», ribatté lui. «È una madre la cui generosità ha dato a te la badal e darà a me l’avamposto. Gli uomini che dimenticano la sua generosità finiscono come quei tre.»

«A me cosa resta?» gli chiesi.

«Molto, sta a te scegliere. Ma non puoi più venire a Shkin. Ormai sei fuori. E, proprio per questo, sei prezioso. Gazan non c’è più, ma qualcuno deve guidare i suoi combattenti. Tu.»

«Io non sono Gazan», risposi sprezzante.

«No, non lo sei. Non sei un cretino come lui. Tanto meglio.» Mi fissò, occhi negli occhi, e il suo ragionamento arrivò, goccia a goccia, a una conclusione indiscutibile che gelò lo spazio tra noi.

«E mio fratello?»

«Ce ne prenderemo cura, come abbiamo sempre fatto», disse il comandante Sabir.

«No», gli dissi. «Voglio vederlo.»

«Molto bene, vacci», mi concesse con un gesto moscio della mano, come se mi stesse dando una cosa da nulla. «Vai a Orgun. Organizzo le cose.»

«E poi?»

«Torna a casa di Atal e aspetta. I combattenti di Gazan non ci metteranno molto a trovarti. Ci penso io.»

Avevo capito, ma volevo sentirglielo dire, così gli chiesi: «Che cosa devo fare con loro?»

«Sarai il loro comandante e loro ti ubbidiranno», rispose. «Ubbidirebbero a chiunque gli dia vestiti, cibo e armi. Tu glieli darai per mio tramite.»

«E noi? Io e te?»

«Serviremo la guerra. Nella prosperità», rispose.

«Dammi tempo per riflettere. Prima voglio andare a Orgun e vedere mio fratello e, se accetto, ti manderò un messaggio da casa di Atal.»

«Va bene. Solo se accetti», disse il comandante Sabir.

 

 

Mi misi in viaggio verso Orgun sulla strada del Nord, che correva piatta e dritta attraverso l’altopiano desertico. Partii senza aver dormito, sconfinando come un intruso nel nuovo giorno.

Guidai per ore. L’unico cambiamento era dovuto al sole, che scendeva all’orizzonte. Al tramonto, la strada si fece trafficata. I camionisti, finita la giornata lavorativa, si accampavano man mano sul ciglio a preparare la cena. Pensai al giovane Mumtaz che, con suo padre, aveva fatto la stessa cosa. Mi domandai se quella sera mi avrebbe preparato da mangiare, casomai avessi deciso di tornare da lui. Sapevo che si chiedeva quali scelte avessi fatto dopo essermene andato. A un certo punto l’avrebbe saputo. E quel pensiero mi spinse a desiderare di non rivederlo mai più.

Sull’orizzonte apparve una spruzzata di luci. Orgun. Presto la polvere della piana lasciò il posto ai campi dei contadini, ai loro solchi induriti che aspettavano le colture. Tra i campi c’erano gruppi di capanne di fango, la periferia della città. Continuai a guidare e a un certo punto Orgun sorse a inghiottirmi. Le strade erano fiancheggiate dalle vetrine verdi, rosse e blu dei negozi, illuminati all’interno dai piccoli fuochi di cucina. Fuori i commercianti sedevano in circolo, a parlare sotto le insegne dipinte con scritte arzigogolate che pubblicizzavano i prodotti in vendita. Ma non faceva più per me. Ormai ero di passaggio tra i rituali della sera e i loro modi cortesi.

Mi fermai vicino allo squallido ospedale a due piani. Fuori, in strada, era parcheggiata un’ambulanza. Lasciai la Hilux nera lì accanto. Esausto e indolenzito, mi diressi alle porte azzurrine dell’ingresso, dove dall’inverno precedente, quando me n’ero andato, era stata aggiunta una mezzaluna rossa. Presto sarebbe arrivato l’autunno. La vernice fresca era penetrata nelle crepe degli strati sottostanti e la superficie della mezzaluna risultava irregolare. Prima di entrare mi fermai un attimo a raccogliere le forze per quell’ultima parte del mio viaggio. Non sapevo cosa avrei provato incontrando mio fratello, ma la giornata mi aveva lasciato intorpidito e non ero sicuro che avrei provato qualcosa.

Entrai in ospedale. Il largo corridoio a linoleum era vuoto. Ripensai ai medici che correvano dopo l’attentato, alla mia disperazione e a mio fratello che mi guardava, che mi sfuggiva. A metà del corridoio c’era la sala operatoria dove Ali era stato portato appena giunto in ospedale. Spalancai la doppia porta domandandomi se mi avrebbe accolto una scena simile. Dentro c’erano dieci letti in due file di cinque, tutti con le lenzuola immacolate, e accanto gli strumenti chirurgici appoggiati su tavolini con le ruote, puliti, pronti a tagliare. Un uomo rasato di fresco in divisa blu, forse un dottore, armeggiava sopra un letto.

«Stai cercando qualcuno?» mi chiese senza alzare lo sguardo.

«No, sto solo aspettando», risposi.

«Non puoi aspettare qui dentro», ribatté. «Vai ad aspettare fuori.»

Era quello che avevo fatto anche allora, aspettare fuori. Mi mancavano le energie per cercare mio fratello a quell’ora, decisi di aspettare il mattino. Uscii in corridoio e mi sedetti sul pavimento appena lucidato, appoggiato contro il muro. Strinsi le ginocchia al petto, mentre l’odore pungente di candeggina e altri detergenti chimici mi saliva al naso. La liscia durezza del pavimento era scomoda ma la pulizia era un lusso. Misi la testa tra le braccia e mi addormentai.

 

 

Sentii un colpetto sul piede. Alzai gli occhi; sul soffitto correvano binari di cocenti lampade bianche. Una sagoma snella e dura interrompeva la luce.

«Alzati, Aziz.»

Era Taqbir, che percorreva ancora i corridoi in cerca di prede con la sua uniforme ben stirata, come quando l’avevo conosciuto. Mi porse la mano. La afferrai, era spessa e forte in confronto alla mia. Mi tirò su.

«Ti trovo bene», gli dissi.

«Ti trovo stanco», rispose lui. «Lo eri anche quando ci siamo conosciuti, ricordi? Il comandante Sabir mi ha detto che saresti arrivato presto. Mi ha detto di trovarmi pronto ad accoglierti. Sembra che tu sia diventato una persona molto importante.»

Il suo sorriso conteneva calore e disprezzo in parti uguali.

«Mio fratello?» gli chiesi.

«Sta bene. Vieni», rispose.

Mi scortò lungo il corridoio fino a una stanza d’angolo, in fondo.

«Ali è lì dentro e ha tutte le comodità», mi disse con un certo orgoglio.

«Non è più nella tenda con gli altri?»

«Certo che no», rispose Taqbir. «Ci teniamo, ai nostri.»

Aprì la porta.

«Prenditi tutto il tempo», disse. «Io sono qui fuori.»

La stanza sembrava davvero troppo grande per Ali. Era nell’angolo in fondo, in un letto vicino alla finestra, voltato a guardare fuori, il viso scarno coperto da un’ombra di barba. Appoggiata sulle spalle, aveva una camicia da notte da ospedale azzurrina, pulita. Le lenzuola erano fresche ma sotto, sul lato sinistro, vidi che erano appiattite fin quasi all’anca. Nessuno mi aveva detto che gli avevano asportato un’altra parte della gamba e pensai ad Ali che veniva operato senza che io gli fossi accanto. Il moncone rimasto usciva dalle lenzuola, nero e marcio come un ciocco di legno lasciato sotto la neve. Su un tavolo vicino all’ingresso, in due brocche di cristallo, c’erano mazzi di fiori.

Mi chiusi la porta alle spalle. Il suo sguardo morto non si spostò dalla finestra. Mi avvicinai al letto. Non c’erano sedie per i visitatori, così mi inginocchiai e gli afferrai la mano. Con il pollice toccavo i tendini del dorso, delicati come le ossa degli uccelli. Riuscivo a sentire dove si fondevano nel polso. Il muscolo che copriva quei legamenti era deperito.

«Stai bene, Aziz?» mi sussurrò, stridulo.

«Sì. E tu?» Sembrava una domanda ridicola.

«Sto meglio, da quando mi hanno spostato», rispose.

Non volli chiedergli quando l’avevano spostato. Doveva essere successo quando ero diventato indispensabile al comandante Sabir. Restammo così, insieme, per un po’. Lui guardava fuori dalla finestra. Io appoggiai la testa sul suo letto e chiusi gli occhi. Lo sfinimento riebbe la meglio su di me, ma non mi addormentai. Rimasi con mio fratello, aggrappandomi al passato che conoscevo, il passato in cui era lui a prendersi cura di me. Poi, rompendo il silenzio, Ali mi passò il debole braccio sulla spalla. «Devi lavorare sodo per tenermi qui», disse. «Immagino che guadagnerai bene e ti sarai fatto una vita, vero? Hai messo su un’attività? È così? E la tua istruzione? Ti è servita, vero?»

«Certo.»

«Sì, qualunque cosa tu stia facendo, deve andare molto bene, visto che ricevo tutte queste cure», continuò lui.

«Infatti va bene», dissi, sottovoce.

Ali volse lo sguardo oltre le mie spalle. Taqbir aveva appena socchiuso la porta per vedere se era tutto a posto. La sua uniforme verde spiccava sull’uscio, incorniciata dal bianco delle pareti dell’ospedale. Ali chiuse gli occhi e si girò dall’altra parte.

«Raccontami come sei riuscito a fare fortuna», mi chiese mio fratello.

Non voleva sentir parlare della badal. Voleva sentir parlare di una vita che non avrei mai potuto avere. Sorrisi e imbastii per lui un ultimo inganno.

«Sono apprendista da un brav’uomo di Kabul. Ecco perché mi è difficile venirti a trovare.»

«Ah», rispose Ali, con voce gracchiante. «Non ti scusare. Invece dimmi: cosa fa quest’uomo?»

«È un grande commerciante. Ha una ditta di trasporti.»

«Trasporti», sussurrò, come se la parola fosse una preghiera. «È un ottimo settore, lavoro sicuro.»

«Sì», dissi. «E sono molto portato.»

«Bene. Hai sempre imparato in fretta, fratello.»

«Sì, e mi hanno dato una promozione», continuai.

«Dopo così poco tempo? Ma pensa!»

«Con la promozione il mio capo mi ha dato anche qualche giorno di ferie per venire a trovarti.»

«Pare proprio che tu sia diventato una persona importante», disse Ali.

«Forse», risposi.

«Il tuo capo dev’essere molto generoso», proseguì lui. «Ringrazialo da parte mia.»

Gli tenni la mano con entrambe le mie e parlai di nuovo: «Certo, Ali, lo farò».

«Bene», rispose. «Adesso voglio riposare. Non sono forte come una volta.»

Quell’ammissione mi fece venire un nodo alla gola. «Lo so, fratello.»

«Tornerai a trovarmi presto?»

«Certo», gli dissi, e di tutte le mie bugie quella fu la peggiore.

Ali mi guardò e mi regalò un sorriso delle sue labbra sottili. Poi lasciò la mia mano e si girò verso la finestra. Si mise a guardare fuori e il suo viso cambiò. Tornando vuoto.