La mattina dopo mi alzai ben prima dell’alba e mi affrettai a raggiungere le montagne. Avevo detto a Mumtaz che avrei raccolto dell’altra legna ma in realtà avevo bisogno di mandare un rapporto al comandante Sabir, pur avendo il terrore di farlo visto che non ero ancora riuscito a mettermi in contatto con Atal. Salii rapido per il sentiero. Arrivato nella foresta, in quota, cercai di individuare in mezzo ai tronchi il grosso masso dietro cui mi ero nascosto l’altra volta. Dopo quasi un’ora di ricerche, all’improvviso la roccia grigia comparve in lontananza, inconfondibile.
Lasciai il sentiero e mi misi a correre sugli aghi di pino che si spezzavano e rimbalzavano sotto i miei piedi. Alla base del masso, tirai fuori il cellulare. La sua luce verde lampeggiava nel buio: un messaggio. Sotto di me il sole nascente spazzava via le ombre notturne dal fondovalle. Lessi il messaggio. Lo schermo del telefono era luminosissimo, temevo di essere visto. Il mio istinto mi diceva di metterlo via, ma avevo bisogno di mandare un aggiornamento al comandante Sabir.
Mi aveva inviato un’unica parola: SITUAZIONE?
Tutte le risposte che avevo immaginato mi sembravano inadeguate. Cosa avevo fatto? Ero stato seduto con Mumtaz ad aspettare. La mia situazione? Aspettavo, ma non potevo rispondere così. Perché Atal non era venuto a cercarmi? Avevo dato per scontato che Fareeda gli avrebbe detto che ero al villaggio. Forse avevo fatto male i miei conti.
Incuneato tra il masso e il fianco della montagna, mi sentivo a disagio, quasi schiacciato dalla natura. Assetato di aria aperta, mi arrampicai sulla parete granitica del masso. Mi sdraiai sulla pancia con la testa di profilo. Guardavo la valle e il villaggio sottostanti. Ormai il sole stava sorgendo e i suoi raggi sfuggivano alle nuvole depositando a terra pezzetti di luce, quasi che dal suolo filtrassero le tessere di un puzzle. A Gomal i comignoli di latta foravano la fibra dei tetti di paglia e il fumo si innalzava come se il fondovalle fosse la brace disseminata di un unico fuoco.
Dal comignolo di Mumtaz fuoriusciva un’alta colonna di fumo; pensai al vecchio che usava gli avanzi della nostra legna per scacciare il gelo mattutino dalla sua stanza di fango. Provai affetto per lui e ammirazione perché, rifiutando di schierarsi, sfidava la rete di inganni che gli girava intorno. Il comandante Sabir, Gazan, Atal, me: ci sfidava tutti, seduto in casa sua a tenere lontano il freddo con qualche legnetto e un cane randagio dalle orecchie mozzate.
Ma una delle case della valle mi richiamava all’azione. Era parzialmente demolita e davanti c’era una Hilux bianca. Atal era spudorato a parcheggiarla lì. Dopo il raid alla madrasa, la paura e la vergogna m’impedivano di farmi vedere alla base, invece lui guidava ancora lo stesso pick-up.
Mi alzai e rimasi in piedi sul masso. Da quel punto elevato torreggiavo sopra la casa di Atal e mi sembrava di poter saltare giù e calpestarla. Non sarebbe venuto a cercarmi, come speravo. Non potevo aspettare oltre. Avrei dovuto essere io ad agire. Tirai fuori il telefono. SITUAZIONE? La domanda era un affronto e inviai al comandante Sabir la mia risposta: CONTATTO STABILITO.
Mi arrampicai giù dal masso e scesi di corsa dalla montagna, deciso a mettermi in contatto con Atal nell’unico modo che mi veniva in mente: bussandogli alla porta. Mumtaz avrebbe dovuto aspettare.
Ero accanto alla Hilux di Atal. A parte la morte di Haji Jan, i danni del bombardamento del mese prima erano lievi. Erano stati abbattuti due lati del muro perimetrale e anche il capanno che ospitava il generatore, ma la casa era ancora in piedi. Dalla breccia nel muro, si vedeva il generatore. Giaceva inerte come un obeso abbattuto da un attacco cardiaco: tutto intero, ma senza vita. Anche il cancello rosso a cui ci eravamo presentati io e Mortaza era intatto. Bussai e aspettai, anche se sarei potuto entrare scavalcando i mattoni del muro crollato. Quando Atal uscì in cortile, lo scorsi attraverso la breccia, ma finsi di non vederlo, pensando che si vergognasse di com’era ridotta la sua casa.
«Mi domandavo quanto tempo saresti rimasto ad aspettare da quel vecchio», disse, aprendo il chiavistello d’acciaio del cancello. Senza darmi modo di rispondere, si voltò e si incamminò verso l’abitazione. Lo seguii a ruota. Emanava una stantia pesantezza. Mancava il suo profumo.
Andammo nel salotto dove mi aveva ricevuto l’altra volta, quando ero ancora un soldato. Ci sedemmo uno di fronte all’altro sugli sfarzosi divani di pelle che in tempi migliori avrebbero accolto anche quindici persone. Al centro della stanza c’era un tavolino di cristallo, vuoto.
«Fareeda, abbiamo un ospite!» gridò Atal, verso il retro.
La ragazza fluttuò tra le stanze con passi piccoli e rapidi, preparando tutto quello che serviva a onorare i doveri di ospitalità.
Atal non aprì bocca. Non sarebbe stato lui il primo a parlare. Mi fissava, anzi, con uno sguardo sgradevole che pretendeva di sapere come mai fossi andato da lui.
«Cerco lavoro», gli dissi.
Indossava lo stesso shalwar kameez verde smeraldo e lo stesso turbante arancione della prima volta che ci eravamo incontrati, ma l’orlo di entrambi era sudicio. Il lembo del turbante gli ricadeva sulla spalla e scendeva sul petto. Mentre grattava una macchia sull’orlo con l’unghia del pollice, parlò senza alzare gli occhi: «Hai ucciso un uomo, allora?»
Annuii.
«L’ho sentito. L’hai ucciso alla madrasa, pensando di uccidere me.» Atal scosse la testa e parlò sottovoce. «Sabir ti ha licenziato per questo?»
«L’uomo che ho ucciso aveva un fratello nello Special Lashkar. È per la sua badal che non potevo restare.»
«Capisco. E quindi cosa vuoi?»
«Ti danno la caccia», gli dissi. «Non so perché, non lo capisco, però è così. Hai bisogno di aiuto.»
Atal fece spallucce. Appeso al collo portava l’opale con la catena d’argento. Lo rigirava tra pollice e indice e osservava la stanza lussuosa ma ormai sottotono. Da quando il generatore non funzionava più, aveva comprato una stufa a legna. Non aveva più la corrente elettrica in casa e un triste pallore gli impolverava i divani, il tavolo e l’Hitachi, con il suo schermo piatto ma spento.
«E chi mi dice che non sia tu il cacciatore?» mi chiese.
«Vogliono il mio sangue», gli spiegai. «Per lo Special Lashkar sono un uomo morto. Devo guadagnarmi da vivere in un altro modo, per questo sono qui. E tu hai bisogno di aiuto.»
Fareeda entrò reggendo un semplice vassoio d’argento tra il braccio buono e il corpo. Sopra c’era una teiera e mezzo piatto di pinoli. Lo posò sul tavolo di vetro.
Il telefono di Atal squillò. Lo prese dalla tasca dello shalwar kameez e, quando vide il numero, sembrò sollevato. «Scusami», disse e corse fuori, in cortile.
Io e Fareeda restammo soli. Stava disponendo dei piattini d’argento sul tavolo. Pur tenendo gli occhi bassi, lavorava con risolutezza. Poi, senza alzare lo sguardo, parlò: «Ti ho visto in sogno».
«In sogno?» feci io.
«Sì. Ti ho visto. In sogno», ripeté lei.
«E ci sei anche tu in questo sogno?»
«Qualche volta. Il sogno è sempre lo stesso, l’unica cosa che cambia è se io ci sono o no.»
«E cosa succede?» le chiesi.
«Nel sogno ti guardo dall’alto e stai camminando sulle montagne, tra i pini. Prima non vedo dove stai andando, solo che sali, sempre dritto. Parti dal piano e ti arrampichi con fatica sui sassi e sulla terra. Arrivi in fretta in alta quota, dove c’è la neve, e quando la calpesti scricchiola forte sotto i tuoi piedi e io mi preoccupo che tu faccia troppo rumore. Più in alto vai, più forte diventa il rumore. Poi ti aggrappi ai rami e la neve ti cade in testa e non stai più camminando dritto, ma continui a girare, in circolo.»
«E dopo cosa succede?»
«Dipende», rispose, e mi osservò con grande attenzione. «A volte continui ad avanzare sulle montagne e sparisci, io non riesco più a vederti, nonostante mi sforzi, e gli alberi e la neve ti inghiottono.»
«Altrimenti?»
«Altre volte io scendo dall’alto e vedo il tuo viso e le tue guance e le punte dei tuoi capelli spolverate di neve e rimango accanto a te in mezzo agli alberi. Ma quando tu mi vedi, non sono come adesso.»
Fareeda si guardò il braccio e continuò: «E vedendomi cambiata, tu ti calmi e camminiamo insieme in silenzio».
«È un bel sogno», dissi.
Lei si slacciò l’hijab e si lisciò i capelli.
«Qualche volta lo è. E adesso che hai trovato mio zio, cosa farai?»
«È in una posizione difficile. Posso aiutarlo.»
Lei tornò a guardarmi, turbata, come se la mia offerta di aiuto fosse una menzogna o come se invece sapesse fin troppo bene che suo zio navigava in cattive acque.
«Perché avrebbe bisogno di te?» mi chiese.
«Conosco e capisco quelli che gli vogliono male.» Poi aggiunsi, con maggiore fermezza: «Io posso aiutarlo».
«E perché dovresti farlo?»
«Anch’io ho bisogno di sopravvivere», dissi. «Tu ti prendi cura di tuo zio e lui si prende cura di te. Se lo aiuto, magari lui aiuterà me.»
«Chi si lega troppo agli altri si rovina con le proprie mani», disse lei.
«Forse stavolta sarà diverso», ribattei.
«Non è mai diverso.»
E mentre lo diceva, avvertii il grande dolore che si portava addosso. Allungai la mano, lentamente, per sollevare lo scialle che le copriva il braccio nodoso. Lei non si spostò e non mi guardò; toccandole il braccio, sentii la sua pelle soffice che copriva la carne dura e capii che quel male la consumava. I suoi occhi incrociarono i miei, ma non ci vidi amore. Contenevano solo quel misto di bellezza e indifferenza che c’è in tutte le cose della natura. Per lei il mio amore e il mio apprezzamento per la sua bellezza non significavano più di quanto significhino quelli di tutti gli uomini per i boschi e le montagne che ci dominano. Sentivo quell’indifferenza. Mi fece male, ma era anche ciò che la rendeva realmente bella.
Eppure lei continuò a stare lì, in piedi, vicino a me, seduto in quel nostro spazio condiviso. Poi Atal tornò e, prima che ci vedesse, la lasciai andare.
Il suo viso era segnato dai pensieri. Prese una manciata di pinoli dal vassoio e disse a Fareeda: «Grazie, Gul, fiorellino».
Lei annuì, mi guardò e scivolò nel retro della casa.
Atal la seguì con lo sguardo e parlò solo dopo che lei fu sparita: «Ho un compito per te, Aziz. Se lo porterai a termine, cominceremo da lì. Ci stai?»
«Di cosa si tratta?»
«Domani notte devo incontrarmi con un uomo. È una persona di cui sto ancora imparando a fidarmi, come te. Mi ha dato appuntamento sul sentiero che porta al confine. Lo conosci?»
«Certo.»
«Bene. Se vuoi proteggermi, vai tu all’incontro sul sentiero. Poi mi telefonerai e io ti darò le istruzioni successive. Fatto questo, vedremo se possiamo lavorare insieme.»
«E chi devo dirgli che sono?»
«Digli solo che sei mio amico», rispose Atal. «È una persona semplice e non dovrebbe crearti problemi.»
«Scrivimi il tuo numero», gli dissi.
«Preferirei che lo memorizzassi.»
Annuii.
«09973284643. Devo ripetertelo?»
Scossi la testa.
«Sei sicuro?» mi chiese.
«09973284643», gli risposi.
Lui annuì.
«I numeri sono facili», dissi.
Uscito da casa di Atal, tornai nella foresta in quota e finii di fare legna per Mumtaz. Raccolsi rami sul sentiero che avrei percorso la notte successiva; tagliava il bosco come una cicatrice che presto avrei condiviso con gli alberi e le montagne. Se quell’uomo era una persona semplice, perché Atal aveva paura di incontrarlo da solo? Lasciai il sentiero e raccolsi altri rami secchi all’ombra. Ritornai con la mente a mesi prima, quando avevo conosciuto Atal, e pensai che rispetto ad allora sembrava logorato dalla violenza e dalle responsabilità. Lo immaginai che correva fuori dalla porta sul retro della madrasa la notte in cui avevo ucciso Tawas e mentre ricordavo quella miserabile parte del mio passato, capii qualcosa del suo; ricordai il binjo parcheggiato accanto al suo pick-up e, se prima non sapevo, in quel momento seppi. L’uomo semplice che avrei incontrato era Gazan.