Quando ebbi terminato il mio lavoro sul sentiero, mi diressi a casa di Mumtaz barcollando sotto il peso della legna; sarebbe bastata per alcuni giorni. Raffiche di vento spazzavano le stradine strette di Gomal e alzavano mulinelli di polvere che si dissolvevano in una foschia farinosa. Guardando sopra la fascina, vidi uno dei droghieri del bazar sul cancello di Mumtaz. Aveva un sacco di riso appoggiato alla caviglia. La sua figura esile era china in avanti e puntava un’unghia macchiata dal tabacco in faccia a Mumtaz.
«Se te lo do per settecento, non ci guadagno niente», disse il droghiere.
«Due settimane fa me l’hai dato per settecento», disse Mumtaz.
«Appunto, sono passate due settimane», ribatté il droghiere. «Finché le strade restano chiuse, i prezzi salgono. Adesso costa settecentocinquanta. Tra due settimane, probabile che costi ottocento, poi chi lo sa?»
Mumtaz scosse la testa. Sembrava sia stupito dell’aumento dei prezzi sia indignato perché Gazan, Atal e il comandante Sabir potevano tenere in pugno l’economia di un intero villaggio.
«Ah, Mumtaz, ecco il tuo giovane amico, l’ex soldato», disse il droghiere mentre mi avvicinavo. «Forse lui ci saprà dire quando un sacco di riso non ci costerà la paga di un mese.»
Appoggiai la catasta di legna accanto a Mumtaz. «Ne raccoglierò altra quando l’avremo finita», dissi, e accennai un inchino, mostrandogli tutto il mio rispetto, dal momento che mi ospitava in casa sua. Al droghiere non rivolsi la parola, ma infilai la mano in tasca pescando tre banconote dal rotolo con cui mi ero congedato dallo Special Lashkar. Gliele ficcai in mano.
«Ti bastano?»
Il droghiere fece un sorrisone subdolo e intascò i soldi senza contarli. Poi si infilò un dito in bocca e tirò fuori un pezzo di tabacco masticato che aveva sotto il labbro inferiore. Lo tenne sulla punta, gocciolante, verde e peloso come un bruco. Lo scagliò ai miei piedi, dove si sbriciolò nella terra.
«Per essere un viaggiatore in cerca di lavoro, ne hai parecchi di soldi», disse.
«Ce l’ho, un lavoro. Lavoro per Atal e lui lavora per questo villaggio.» Afferrai il sacco di riso appoggiato alla caviglia del droghiere e lo gettai nel cortile di Mumtaz. Poi raccolsi la fascina di legna ed entrai.
Mumtaz tornò nella stanza che condividevamo mentre stavo accatastando la legna nell’angolo. «Allora hai trovato lavoro?» mi chiese, a bassa voce.
Annuii.
«Quindi stai dalla parte di Atal.»
«Ho solo scelto la sopravvivenza.»
Mumtaz prese una manciata di legnetti dalla mia catasta. Ci riempì la stufa, accese un fiammifero e avvicinò la fiamma alle estremità dei rami. La legna asciutta crepitava sempre più rumorosamente e il calore si diffondeva. Lui lasciò aperto lo sportello in modo che l’aria alimentasse la fiamma.
«Con un trafficone come Atal, anche sopravvivere vuol dire schierarsi», disse.
Chiuse lo sportello della stufa. La stanza si scaldò. Aveva ragione. Mi ero schierato, per la seconda volta.
La sera dopo, io e Mumtaz mangiammo un bel piatto di riso a testa. Terminata la cena, invece di cominciare a raccontare le sue storie come al solito, Mumtaz prese i pochi avanzi e li portò nel pollaio a Iskander. Evidentemente il vecchio pensava che, qualsiasi lavoro facessi per Atal, doveva essere un lavoro notturno e forse non aveva voglia di sentire quali menzogne mi sarei inventato per uscire.
Dalla casa di Mumtaz camminai rapido lungo i vicoli del villaggio. Sboccavano sulle basse colline che più in alto si trasformavano nelle montagne boscose. Quando raggiunsi i primi pini, il sole era appena tramontato. Dietro di me, sul terreno aperto, il bagliore del giorno era ancora visibile. Davanti, invece, il sentiero si addentrava tra le file ombrose di pini dove la notte aveva già preso il sopravvento. Da qualche parte, in quella foresta buia e ripida, c’era Gazan.
La traccia di terra si dipanava verso l’alto come un nastro nero, seguendo i declivi della montagna. Di tanto in tanto, dove l’oscurità inondava completamente la foresta, perdevo la strada e la ritrovavo solo tastando con i piedi il terriccio smosso del sentiero. Trascorsero ore e i miei passi rapidi si trasformarono in una marcia esausta, man mano che salivo verso l’aria più rarefatta. La paura mi strinse nella sua morsa. E se mi fossi accidentalmente spinto troppo avanti e avessi attraversato il confine? O se mi fossi fermato troppo presto mancando l’incontro? Affondai i pugni nelle tasche, convogliando la paura nel telefono che stringevo con la mano destra e nel rotolo di banconote che stringevo con la sinistra. Più in alto la notte si fece gelida e il sudore che mi imperlava la schiena mi si raffreddò addosso. All’improvviso uscii dalla foresta buia, in uno spiazzo nudo lungo la cresta più elevata. Chiazze di neve riflettevano la luce della luna. Mi fermai lì, esposto e impaurito. Avevo camminato fin dove osavo, senza incontrare nessuno.
Aspettai tra i nevai abbastanza a lungo da sentire il mio corpo raffreddarsi e costringermi a scendere dalla cima. Percorso al contrario, il sentiero serpeggiava davanti a me come se fosse del tutto nuovo. Procedevo più rapido e, giunto nel punto in cui la cresta spoglia si amalgamava con le ombre sottostanti della foresta, provai una rinnovata determinazione a trovare Gazan nella natura selvaggia.
Mi addentrai fra le file di pini camminando piano, tutto il corpo in tensione mentre guardavo in mezzo ai tronchi, ansioso di individuarlo, prima che lui individuasse me. Poi una mano calda mi afferrò la spalla. Un sussurro: «È me che hai cercato lungo tutto il sentiero?»
Sebbene fosse un uomo fatto, il suo corpo era striminzito come quello di un ragazzino. Sembrava uno di quei vecchi alberi del bosco che, per mancanza di luce e pioggia, non riescono mai a diventare più alti di un arbusto. I capelli erano tutt’uno con la barba fitta, che scendeva a punta e aveva preso la piega da una parte, come le vecchie scope consumate. Anche la barba era scura, al punto che si sarebbe confusa con il sentiero nel bosco. Sorrideva mostrando tutti i denti, che riflettevano la luce della luna come la neve in cima alla cresta. Dalla spalla gli penzolava pigramente un Lee-Enfield e lo stesso facevano i vestiti dal corpo. Fui sopraffatto da una grande incertezza. Non riuscivo a parlare.
Come se volesse spronarmi, l’uomo alzò il pugno due volte sopra la testa. Da ogni direzione, una decina di figure uscirono silenziose dal folto degli alberi. Formavano una foresta nella foresta e io ero in mezzo a loro.
«Dovevo incontrare una persona, ma non sei tu», disse l’uomo, in un tono tanto amichevole quanto sinistro. Mi venne più vicino per studiare il mio viso.
«Lavoro per Atal», gli dissi.
L’uomo annuì, guardando le figure fredde e immobili che ci circondavano. «Era lui che dovevo incontrare, ma tu non sei lui.»
«Mi ha mandato a cercarti.»
«E che cosa avresti dovuto fare, dopo avermi trovato?»
Tirai fuori di tasca il telefono. L’uomo fece un balzo indietro e abbassò la spalla per recuperare il suo vetusto fucile.
«Mi ha detto di chiamarlo!» risposi d’un fiato.
L’uomo puntò il fucile a terra, invece che contro di me. Si afferrò una manciata di barba e ne avvolse l’estremità sull’indice. «Fai la telefonata, ma voglio parlargli io.»
Aprii il telefono con lentezza e lo schermo si illuminò abbagliandoci nel buio della notte. Digitai il numero di Atal e sentii un messaggio registrato della Roshan, la compagnia telefonica, in una lingua che sembrava urdu. Ci riprovai, ma il risultato non cambiò. Forse non avevo più credito. Mentre armeggiavo con il telefono, mi sembrava che gli uomini e la foresta si stringessero attorno a me. Avevo dimenticato il numero? Sentivo ancora la mia voce che lo recitava ad Atal.
«Avanti di questo passo, facciamo mattina. Il tuo capo lo trovi qui», disse l’uomo.
Mi lanciò il suo telefono. Lo aprii, schiacciai il tasto verde e cercai nella lista delle chiamate recenti il numero di Atal, 09973284643. Era in cima. Me lo ricordavo bene. Mi sentii pervadere dal sollievo, finché non vidi un altro numero, più in basso nell’elenco: 09973285676. Di colpo il sollievo divenne un potente torpore, quasi mi avessero spezzato la colonna vertebrale. Era il numero del comandante Sabir, quello che si doveva memorizzare e mai salvare sul telefono, quello che doveva restare segreto. Perché Gazan ce l’aveva? Dal display del telefono il numero mi guardava, luminoso, un inganno che ancora non comprendevo, e la sua aureola luminosa proiettava raggi dalla mia mano: 09973285676.
Con i fucili ancora puntati addosso nel buio, chiamai il primo numero. Atal rispose subito: «Gazan, ho mandato un uomo a cercarti, ti ha trovato?» La seconda verità della nottata: Gazan. Mi ero convinto che l’uomo che avrei incontrato dovesse essere lui, ma Atal me l’aveva confermato. Era tutto reale. La badal mi stava di fronte. Sapevo di volerlo uccidere, ma non ne sentivo il desiderio. Non sentivo niente, niente a parte il torpore. Volevo costringermi a odiarlo. Pensai alla foto che mi aveva dato Taqbir e allo sguardo disperato di Ali, rivolto verso un luogo che non avevo mai visto e da cui non avrei potuto portarlo indietro. Quel numero era tutto: 09973285676. Cifre che erano state una preghiera di certezza; e ora, a causa loro, tutto ricadeva nella confusione.
«No, sono Aziz. Sono con lui», mi affrettai a rispondere.
Passai il telefono a Gazan, i cui occhi spalancati, biancastri e soddisfatti erano posati sopra zigomi che gli solcavano la faccia, affilati come rasoi. Il potere, durante quel primo incontro, era tutto nelle sue mani, e se lo godeva. Lui e Atal parlarono sommessamente e io distolsi lo sguardo, neanche potessi ascoltare con gli occhi.
«Prima mi insulti mandandomi il tuo schiavetto e adesso mi chiedi di venire a casa tua da solo e senza garanzie», disse Gazan.
Mi sforzai di sentire la risposta di Atal, ma non ci riuscii.
«Per me lui non è nessuno. Eravamo d’accordo di incontrarci sul sentiero», continuò Gazan.
Atal disse qualcos’altro che non sentii.
«Sarà anche vero, ma non hai rispettato i patti. E adesso pretendi da me una fiducia ancora maggiore? Pretendi che metta la mia vita nelle tue mani?»
Sogghignò e mi guardò con occhi fessurati mentre ascoltava Atal. Poi si rilassò e cominciò ad annuire.
«Sì, se la tua offerta è questa, mi sembra una garanzia sufficiente. Allora vengo.»
Gazan si infilò in tasca il telefono.
«Tu resti qui», mi disse.
Fece un gesto a due uomini che fino a quel momento si erano aggirati dietro di me. Uno di loro mi si affiancò. Il viso ampio e segnato era coperto da una barba grigio scuro che gli scendeva fino al petto. Si toccò il pakol della tribù waziri, forse un tentativo di scusarsi perché facevo la sua conoscenza come prigioniero.
«Trattenetelo finché non torno», disse Gazan. «Se all’alba non mi vedete arrivare, uccidetelo.»
Si avviò con comodo sul sentiero, diretto a casa di Atal. Io restai lì, ostaggio in una negoziazione che non capivo.
Non appena Gazan fu sparito alla vista, l’uomo più anziano con il pakol fece un cenno in direzione della foresta. «Andiamo», disse.
L’altro uomo si fece avanti. Sulle spalle esili e ossute si era caricato un mortaio e uno zaino di tela verde che gli penzolava pesantemente sulla schiena. Il gilè rosso con un elaborato decoro di lustrini donava ai suoi lineamenti delicati e non serviva affatto a farlo sembrare più minaccioso. Era il ragazzo che avevo visto attraversare il bosco prima del bombardamento di qualche tempo prima. Quel particolare, sebbene sinistro, mi calmò. Avevamo più o meno la stessa età, perché anch’io ero diventato un uomo solo di recente.
I due mi scortarono, uno davanti e l’altro dietro, fuori dal sentiero, sul tappeto di soffici aghi, addentrandosi sotto una coperta di pini distesa sul crinale. La foresta si faceva sempre più fredda man mano che ci inoltravamo nelle sue profondità. Come sul fondo di un lago, il freddo intrappolato dagli alberi ci ricordava che il sole non sempre riesce a raggiungere ogni parte della terra con la stessa intensità. Mentre camminavamo avvertivo quel tipico prurito alla spina dorsale generato dalla possibilità di prendersi una pallottola nella schiena. Gli altri miliziani di Gazan procedevano in un cerchio invisibile distribuito attorno a noi. Nessuno parlava. A ogni passo che mi allontanava dal sentiero, mi domandavo se Gazan sarebbe riuscito a ritrovarci e se, in caso contrario, all’alba avrei ricevuto un cortese proiettile dal mio amico, l’uomo con il pakol.
Alla fine il ragazzo con il gilè rosso si fermò e si sedette. Non avevo idea di dove fossimo, ma almeno non ci stavamo più muovendo. Mi sedetti anch’io; la foresta era silenziosa. Mi sforzavo di vedere, nella notte, ma non riuscivo a distinguere i miliziani dai pini che li circondavano. In quota, il mio corpo si raffreddò. Accanto a me sentii un rumore di metallo che grattava altro metallo. Il ragazzo lavorava alla base del suo mortaio. Alzò la testa e mi guardò. «Vieni qui!» gridò in un sussurro.
Scivolai di fianco verso di lui, con circospezione, quasi fossimo sul tetto di una grande casa. «Tienilo su», mi ordinò. Piano piano mi inginocchiai e lo aiutai a tenere in equilibrio il mortaio. Esaminò il fondo del tubo come se stesse soffiando su un fuoco morente. Lo girò e lo strattonò alla base e di nuovo sentii il metallo che grattava il metallo. Qualunque cosa stesse facendo, la faceva tramite il tatto, senza insudiciare l’oscurità con una luce, e quell’atteggiamento meticoloso e disciplinato mi sembrò in forte contrasto con il suo gilè dai lustrini rossi.
L’uomo più anziano era in piedi sopra di noi. «Ce l’hai fatta?» chiese.
Il ragazzo si raddrizzò. Si pulì le mani nello shalwar kameez nero. «È a posto, ma se rompiamo un altro percussore, questo mortaio sarà inservibile.»
«Gazan lo sa che quello era l’ultimo?» chiese l’uomo più anziano.
«Lo sa. Il problema è se lo sanno i suoi amici e se ce ne daranno altri.» Nella sua voce colsi il cinismo e la stanchezza.
L’uomo più anziano si accovacciò accanto a me. «Come sei finito al servizio di un uomo come Atal?» mi chiese.
«Ero un soldato dello Special Lashkar», dissi.
L’uomo si lisciò la barba ingrigita. «Però, così?»
«Così, cosa?»
«Sei passato dallo strangolare Gomal e darci la caccia sulle montagne al lavorare per un uomo come Atal così?»
«Un uomo come Atal? Che tipo di uomo sarebbe?»
Fu il più giovane a parlare: «Atal è il tipo di imbecille che cercherebbe di insegnare a un cane a leccare la panna e a un gatto a masticare un osso».
«Vuoi sapere perché lavoro per Atal? Mi guadagno da vivere», dissi. «Prima a darmi lavoro era il comandante Sabir, adesso è Atal.»
Il più anziano parlò di nuovo: «Sì, tutti lavoriamo nello stesso modo. Atal pagherà Gazan per l’incontro di stanotte e il comandante Sabir ci darà dei soldi per continuare a bombardare Gomal con i mortai. Ma mi ricordo quando c’erano altri modi per guadagnarsi da vivere. Altre cose. Come facessimo, non te lo so dire, è passato tanto di quel tempo. Mi ricordo solo che lo facevamo».
Il ragazzo si tolse lo zaino verde. Al buio trafficò con le cinghie che lo chiudevano e le slacciò. Infilò una mano nella tasca più grande, con cautela, come se stesse togliendo una teglia dal forno. Tirò fuori una mina anticarro in un involucro di plastica verde delle dimensioni di un coprimozzo di ruota. La appoggiò a faccia in giù sullo zaino. Poi girò un interruttore di plastica sul lato inferiore, finché non si sentì un rumore simile a quello di una matita spezzata. Gli angoli della sua bocca si incurvarono in un sorriso. Ripose la mina nello zaino. «Per i tuoi vecchi amici, sulla strada del Nord, la mattinata comincerà presto e non sarà piacevole», disse.
La sua eccitazione mi inquietò.
«Devi proprio godertela così tanto?» borbottò l’uomo più anziano.
«E perché no?» chiese il più giovane.
«Non c’è nessun motivo.»
Restammo seduti in silenzio, noi tre. Gli aghi di pino sotto di me si inzupparono di rugiada. Poi, lungo una cresta in lontananza, comparve la prima striscia di azzurro, accompagnata dai passi di Gazan che si trascinavano stanchi verso di noi. Il ragazzo si alzò, il gilè rosso era un segnale per guidare il suo comandante. Gli occhi di Gazan erano fissi su di noi. Si fermò e indicò in direzione del sentiero agitando il braccio. Il resto dei suoi combattenti lo seguì. I due uomini che mi scortavano raccolsero le armi e mi lasciarono seduto sugli aghi di pino, solo e senza sorveglianza. Non c’era bisogno di dire nulla. Gazan era tornato e io ero libero di andarmene. Se fosse tornato dai suoi un’ora più tardi o se non fosse tornato proprio, avrebbero saputo cosa fare di me. E, anche in quel caso, non ci sarebbe stato bisogno di parlare.
I miliziani si ritirarono come nebbia che svanisce all’improvviso; cercai di distinguerne i movimenti mentre scivolavano in mezzo agli alberi. «Veloci!» gridò loro Gazan. «Ho garantito che la strada del Nord sarà pronta.»
La prima luce intagliava margini netti nelle ombre proiettate dai pini. Cercai di seguire Gazan e i suoi, con lo sguardo fisso sulla foresta, ma non vedevo né sentivo nulla. Il silenzio era inquietante. Scattai in piedi e corsi giù dalla montagna, verso la casa di Atal, schivando alberi a ogni balzo.
Il comandante Sabir appoggiava gli attacchi di Gazan?
Perché Atal si incontrava con Gazan?
Perché mi era stato ordinato di entrare in contatto con Atal e poi riferire ogni dettaglio?
Come potevo fare a impedire che i miei amici cadessero nella trappola sulla strada del Nord?
L’ultima domanda mi fermò. Tirai fuori il telefono e scrissi un messaggio al comandante Sabir: MINA PIAZZATA, STRADA DEL NORD. Mi sembrò inutile come un segnale di fumo, ma non potevo fare nient’altro. I conti non tornavano, qualcosa mi sfuggiva. Non ero sicuro degli effetti che avrebbe avuto il mio messaggio, sempre che arrivasse. Premetti invio, assolvendo al mio compito di avvisarli.
Continuai a correre, prendendo velocità man mano che il sole si alzava. Quando uscii dal bosco e mi trovai al limitare del villaggio, il mio corpo sudato emanava vapore che si alzava nell’aria frizzante. Anche dal camino di Atal si alzava il fumo. Probabilmente il fuoco della cucina era rimasto acceso tutta la notte. Mi incamminai verso casa sua e verso le risposte che speravo di trovare.
La porta davanti era socchiusa, o in attesa del mio arrivo o dopo l’uscita di un ospite frettoloso. Me la chiusi alle spalle. All’interno, Atal era seduto sul bordo del lussuoso divano di pelle. Fissava il muro, come se stesse risolvendo a mente un problema di matematica. Davanti a lui, sul tavolino di vetro, c’erano un pezzo di naan smangiucchiato e una tazza di tè vuota. Mi sedetti sul divano di fronte, interrompendo i suoi pensieri ma senza aprir bocca. Aspettai che fosse lui a parlare.
«Bisogna essere prudenti nel nostro lavoro.»
«Stanotte mi è sembrato tutto il contrario», risposi.
«Sì, ma devi capire che non potevo prendermi il rischio di andarci di persona. Tu sei affidabile. Quegli uomini, no.»
«È questo il lavoro che farò? L’ostaggio per i tuoi incontri?»
«Stanotte è stato necessario, ti chiedo perdono. Ma andando avanti, avrò comunque bisogno di un uomo che sappia tutelare la mia sicurezza.»
«Andando avanti con cosa?»
Atal tenne gli occhi puntati nei miei, confermando una decisione che aveva già preso su di me. «Sto aiutando Gazan a negoziare la pace con gli americani», disse.
«Vuole la pace?» ribattei, con la voce impastata dal dubbio.
«Lo giura.»
«Perché? E se avere a che fare con lui ti preoccupa, perché non ti fai proteggere dagli americani?»
Senza darmi il tempo di aggiungere altro, Atal alzò la mano aperta.
«Stai fraintendendo. La minaccia alla mia sicurezza non è Gazan. Lui è gestibile. È Sabir. Sabir rifornisce i miliziani di Gazan. Li paga per bombardare Gomal, per piegare gli spingari alla sua volontà. E sempre Sabir fa in modo che un flusso costante di giovani come te si unisca alle sue truppe sperando nella badal contro uomini che hanno fatto loro del male in una guerra alimentata da lui. La vera minaccia è Sabir.»
La mia mente correva. Il numero del comandante Sabir era nel cellulare di Gazan, a sostegno delle rivelazioni di Atal. Confermava le mie paure peggiori. È più difficile disimparare che imparare, ma Atal mi sfidava a comprendere la vera natura di quella guerra: non c’erano fazioni opposte. Erano tutte uguali.
«Gli uomini di Gazan sono pieni di odio come chiunque di noi. Perché lui vorrebbe la pace?» chiesi.
«Alcuni lo sono. La maggior parte, però, è stanca. Combattono solo per guadagnarsi da vivere. Gazan è stanco. Gli unici a essere abbastanza potenti da strapparlo ai suoi accordi con Sabir sono gli americani.»
Mi sporsi verso Atal e per la prima volta gli parlai da suo pari: «E tu perdoneresti Gazan, così? Ti ha bombardato la casa. Ha ucciso Haji Jan. Ha cercato di uccidere te e per poco non ci è riuscito. Saresti capace di lasciar correre?»
Atal serrò i denti. Si accarezzò il lembo sciolto del turbante, partendo dalla spalla. I tendini, che prima erano tesi come cavi d’acciaio sotto la pelle olivastra, si rilassarono non appena la mano raggiunse l’orlo. «Non ho lasciato correre, per niente», disse sottovoce. «Gazan e Sabir mi hanno tolto ben più di questo.»
Si alzò. Sul tavolino davanti a noi c’era una teiera di metallo ammaccato piena di tè ormai freddo. Andò a metterla sulla stufa tozza, molto simile a quella che aveva in casa Mumtaz, ma più nuova. La aprì e le riempì la pancia di rami secchi, abbastanza sottili da spezzarli in due. Rompeva la legna con le mani e mi guardava.
«Rimani», mi disse. «Preparo la colazione.»
Accese un fiammifero e lo avvicinò con delicatezza all’estremità di un ramo con le foglie. La fiamma attecchì con difficoltà. Poi, di colpo, divampò, quando le foglie secche si incendiarono. Buttò il ramo nella stufa. Non avevo notato che faceva freddo finché la stanza non si riempì di un subitaneo tepore.
Atal si sedette sui talloni di fronte alla stufa. «La badal dovrebbe servire a rimediare a un’ingiustizia, non a protrarla. Ma noi agiamo diversamente. Si commette un’ingiustizia contro un uomo perché lui la commetta a sua volta contro altri. Il comandante Sabir sta facendo così. L’ha imparato dopo quello che è successo a suo fratello Jazeem.»
«Lo conoscevi, Jazeem?» gli chiesi.
«No, ma a pochi altri sono stato così vicino per le sorti che ci hanno legato. L’uomo che ha guidato l’imboscata in cui è rimasto ucciso Jazeem, Hafez, era mio cugino, non di sangue ma per amicizia. Hafez non aveva famiglia. Da bambini giocavamo negli stessi vicoli sporchi e a tratti abbiamo abitato sotto lo stesso tetto, perché d’inverno lui dormiva per terra in casa della mia famiglia. Quando sono diventato un uomo, ho ereditato la casa e un terreno, non grande, ma abbastanza per vivere. Hafez non aveva nulla del genere. Ben presto andò sulle montagne a guadagnarsi da vivere con la guerra. Ogni tanto lo vedevo, quando scendeva a valle. Solo quando Sabir l’ha eliminato ho compreso i miei obblighi familiari nei suoi confronti. Una mattina, quando mi sono svegliato, il corpo di Hafez era stato buttato davanti a casa mia, me l’avevano consegnato perché ero il suo unico parente. Era lì, a terra, con le gambe distese in avanti, la testa piegata all’indietro, gli occhi rigirati all’insù, il bianco si intravedeva nella fessura delle palpebre. Mi sembra ancora di vederlo.
«L’abbiamo seppellito. Tutto il villaggio si aspettava da me la badal. Persone che a malapena conoscevano Hafez mi parlavano del pashtunwali, di cosa è giusto e cosa è sbagliato. ’Ha guidato l’imboscata contro Jazeem, ma non è stato lui a ucciderlo!’ dicevano. Altri mi dicevano: ’Se Sabir voleva la vita di Hafez, avrebbe dovuto ucciderlo in battaglia. Sarebbe stato corretto, l’assassinio non lo è!’ Venivano da me carichi di motivazioni che portavano sempre alla stessa conclusione: ’Ci vuole la badal!’
«Hafez era andato a combattere quando era ancora giovane e arrabbiato con il mondo. Alla fine, però, aveva dimenticato la sua rabbia. Nei mesi che avevano preceduto la sua morte, veniva a casa mia a intervalli di qualche settimana per consegnarmi dei soldi. Mi chiedeva di darli a una donna che viveva a Orgun, senza porre domande. Per amicizia, lo facevo. Ma ciò che aveva costruito con quella donna non è servito a niente. Anche se lui aveva dimenticato la rabbia che l’aveva spinto sulle montagne, la rabbia non aveva mai dimenticato lui. E se l’è preso.»
La teiera sulla stufa ormai bolliva. Atal avvolse uno strofinaccio attorno al manico e la portò al tavolino. Versò due tazze fumanti e continuò: «Per settimane, dopo la sua morte, non sono riuscito a vedere la strada giusta. Progettare l’uccisione di Sabir sembrava l’unica possibilità di ritrovare il nang, ma avrebbe prolungato il ciclo che era stato la rovina di mio cugino. Una notte la risposta è arrivata mentre dormivo. Sono stato svegliato da un rumore che proveniva da questa stanza. Ho imbracciato il fucile. Immaginavo che Sabir o uno dei suoi uomini fosse venuto a uccidermi. In quel momento ho avuto la certezza di non aver agito abbastanza in fretta. Le mie sciocche remore stavano per segnare la mia fine. Ero pervaso da un desiderio di estrema violenza, deciso a distruggere qualsiasi cosa avessi trovato nella stanza. Ma quando sono sgusciato dentro, su quel divano dove sei seduto tu c’era una bambina: Fareeda. Aveva gli occhi umidi e spalancati per la paura. Appena mi ha visto, si è messa a singhiozzare. Ho appoggiato il fucile e mi sono seduto vicino a lei, lasciandola piangere sulla mia spalla e accarezzandole i lunghi capelli neri. Allora era in salute. Non come adesso».
Atal si guardò il braccio, ma sorrise al pensiero di lei a quei tempi.
«Fareeda è la figlia di Hafez?» chiesi.
«E chi lo sa?» rispose Atal. «All’inizio era chiusa nel silenzio e nelle lacrime, ma mi aveva detto che sua madre aveva pagato un uomo per portarla a casa mia da Orgun. Qualche giorno dopo, sono tornato con lei alla casa dove consegnavo i soldi di Hafez. Quando ho bussato, è venuto ad aprire la porta un uomo che non avevo mai visto. Aveva il viso butterato dal vaiolo e rosso come carne di maiale. Era il tipo di persona da cui sai che è meglio distogliere lo sguardo. Vedendolo comparire, Fareeda si è stretta alla mia gamba. È stata la prima volta che mi ha abbracciato. L’uomo ha detto che la donna che viveva lì era poverissima e che le aveva permesso di restare senza pagare l’affitto per qualche mese. Mi ha assicurato di averla trattata con i dovuti modi e perciò di essere rimasto sorpreso quando poi se n’era andata all’improvviso. Ma i suoi abiti sudici e l’aspetto malsano non sembravano un segno di generosità. Il mondo non era stato generoso con lui, quindi cosa ci si poteva aspettare? Comunque ha guardato la bambina e mi ha assicurato di non aver fatto nulla di male, né a lei né alla madre.
«Quando siamo tornati da Orgun, ormai avevo giurato di tenere con me Fareeda fino al ritorno di quella donna. Ma poi sono passate settimane e a un certo punto ho capito che non sarebbe venuto nessuno. Era stata abbandonata e, poco tempo dopo, la malattia ha preso forma nel suo braccio. Allora ho deciso che avevo una nipote e che il ricordo di Hafez sarebbe diventato un ricordo di famiglia. Ho dedicato la mia vita a Fareeda per rispetto alla sua memoria.
«Ogni tanto Sabir veniva al nostro villaggio. Passava sempre a trovarmi o mi punzecchiava nella shura. Diceva agli spingari: ’Atal conosce meglio degli altri i problemi di questo villaggio’. Oppure: ’Tu capisci meglio di tutti perché una famiglia non dovrebbe osteggiare lo Special Lashkar’. Sperava che mi decidessi a compiere la mia badal e gli dessi così una motivazione per mettersi contro di me.»
Atal sorseggiò il tè e si accarezzò la barba ingrigita.
«E Gazan?» gli chiesi.
«Gazan era inevitabile», disse Atal. «I motivi per cui combatte non li conosco. Immagino che la sua storia non sia diversa dalle altre. Ci saranno sempre uomini arrabbiati pronti a uccidersi fra loro. Ma adesso giura di volere la pace e, se posso aiutarlo a trovarla tramite gli americani, lo farò. La pace con Gazan potrebbe spezzare il cerchio dei combattimenti e danneggiare gravemente gli interessi di Sabir. Domani andrò a incontrare il mio contatto americano a Shkin. Ho bisogno del tuo aiuto per arrivarci e ritornare sano e salvo.»
Bevevo il tè trasformando la mia espressione dall’incertezza alla determinazione. Ero scosso, ma gli dissi: «Certo, ti aiuterò».
«Bene. Quando Gazan se n’è andato, mi ha raccomandato di non prendere la strada del Nord, almeno per oggi», soggiunse Atal.
«I suoi uomini ci hanno piazzato una mina. Per colpire lo Special Lashkar, a quanto pare.»
«Sì, l’avevo pensato anch’io», disse. «È strano che Sabir permetta al suo cane di morderlo. Allora ci andremo domani notte.»
Annuii e mandai giù il fondo del tè.
In quel momento udimmo un boato improvviso in lontananza. Ci alzammo e uscimmo nel cortile. Gli abitanti del villaggio erano saliti sui tetti e osservavano attoniti l’orizzonte. Verso nord una colonna di denso fumo nero si innalzava a spirale nel cielo azzurro. La mina. Dopo poco il fumo si diradò in una grigia nebbiolina che andò a ricoprire le montagne circostanti. Nascondeva l’origine dell’esplosione e anche i combattenti di Gazan, che senz’altro osservavano la scena da qualche ripiegamento della roccia o nascosti dietro i pini.
Restammo in silenzio finché gli abitanti del villaggio non scesero dai tetti per tornare al loro lavoro. Atal si voltò verso di me. Alla luce del giorno, vidi le ombre che aveva sotto gli occhi.
«Abbiamo fatto talmente tardi che è mattina. Ci rivediamo quando farà buio di nuovo.»
Ci stringemmo la mano e appoggiammo il palmo sul cuore, come d’abitudine tra amici. Mi incamminai verso casa di Mumtaz. Lungo la strada incrociai numerosi abitanti del villaggio, ma nessuno fece caso a me. Avevano accettato che il mondo esterno si intromettesse nella loro vita. Mentre passavo accanto a quegli uomini sentii una certa comunanza con la loro rassegnazione. Era lo stesso stato d’animo che provavo nei confronti del comandante Sabir. Non aveva fatto nulla per impedire l’attentato di cui l’avevo avvisato. E io di sicuro conoscevo gli uomini che erano appena stati uccisi, ma sentivo solo un torpore, il torpore di una situazione che non si poteva cambiare, a meno di agire in maniera sconsiderata. E Atal era sconsiderato.
Crollai accanto alla stufa. Era mattino. Dormii per tutto il giorno. Mumtaz andava e veniva. Dietro le palpebre chiuse, avvertivo i suoi movimenti. Trafficava lì attorno, vicino alla legna da ardere, vicino al suo letto. Cucinò il pranzo e se ne andò. Poi cucinò la cena e se ne andò. Ma c’era. La sua presenza mi dava sicurezza, però non volevo affrontarlo. Non mi avrebbe chiesto che cosa avevo fatto la notte prima né dove ero stato. Era troppo educato. Portava scritta la sua esperienza di quella guerra nelle linee che gli solcavano il viso, quasi fossero state tracciate con l’inchiostro, e sarebbe stato difficile guardarlo negli occhi mentre uscivo per andare a farmi la mia, di esperienza.
Mi svegliai dopo il tramonto. Appoggiato accanto a me c’era un piatto con sopra un mucchietto untuoso di chalow preparato da Mumtaz. Il riso era scivoloso e ancora caldo tra le mie dita. Me lo infilai in bocca con un senso di colpa. Il vecchio non aveva cucinato per sé. Lo aveva fatto per me. Avrei ripagato la generosità di uno che aveva giurato di non prendersi la badal per vivere in una pace solitaria uccidendo Gazan, che sosteneva di volere la stessa cosa? Ma non era il modo giusto di pensare. Il fratello di Mumtaz era morto. Il mio era vivo. È facile precipitare nella solitudine quando il mondo ti è già crollato sotto i piedi.
Mi pulii le dita unte sull’orlo dello shalwar kameez e lasciai metà del riso per Mumtaz. Non me lo doveva tutto e io non volevo avere altri debiti con lui.
Uscii. Un vento tiepido arrotolava spire di polvere nel cortile. Mumtaz era seduto al buio, appoggiato al pollaio, lo sguardo puntato in lontananza. Aveva la testa di Iskander sulle gambe. Mi fermai sulla soglia di casa. Quando lo guardai, si voltò dall’altra parte. Sapeva benissimo che nessun atto di gentilezza mi avrebbe convinto a restare, quindi non disse nulla, e nemmeno io. Me ne andai.
Il rumore della Hilux di Atal, ferma in cortile con il motore acceso, riecheggiava nella notte. Mi infilai nella breccia nel muro esterno. Da lì vidi Fareeda. Era sdraiata sul retro della casa, la sagoma del suo corpo stagliata contro la luce della lampada che usava per l’oppio. I capelli neri erano scoperti. Sparsi delicatamente sui cuscini. Il suo sguardo era posato nel buio. Non sono sicuro che mi avesse notato. Soffiò una densa nuvola di fumo. Mentre il fumo si avviluppava nella luce della lampada, vidi il punto in cui la carne nodosa del braccio risaliva sul collo e si allungava appena dietro l’orecchio.
Prima che potessi avvicinarmi, Atal si diresse verso di me. Aveva un kalashnikov per mano. Me ne premette uno sul petto. Trasalii facendo un passo indietro. Avevo ancora le dita unte di olio del chalow e il metallo mi sembrò scivoloso. Il fucile mi costrinse a una decisione che non ero pronto a prendere. Non sapevo più a chi avrei dovuto sparare.
«Prenderemo la strada del Nord per Shkin», disse Atal. «Tu guidi. Io sto di guardia. Sai guidare a luci spente, vero?»
«Sì, con il visore notturno», risposi.
Atal indicò i tre quarti di luna. «Ecco il tuo visore notturno», disse.
Salii con lui sulla Hilux e percorremmo lentamente i vicoli polverosi di Gomal. Atal mi sussurrava indicazioni con una piatta monotonia che si intonava alla notte senza colori del nostro viaggio. Al buio non era facile evitare i muri di fango delle altre case. Presto arrivammo all’ultima svolta che usciva dal villaggio e ci trovammo di fronte la distesa delle montagne. Rallentai e cercai, in lontananza, il punto in cui ci saremmo immessi sulla strada del Nord.
Atal mi afferrò una spalla e indicò. «Là», disse.
Dai picchi lontani si dipanava un nastro piatto e pulito di terra, come un filo che penzola, inopportuno, da un orlo. Era la strada del Nord, che collegava Gomal con l’ostile mondo esterno.
Cominciammo ad avanzare sul terreno irregolare. La polvere si appiccicava al parabrezza oscurando ancora di più la mia visuale. Atal si sporgeva fuori dal finestrino del passeggero dalla vita in su. Individuava gli ostacoli davanti a noi e mi gridava come correggere la direzione: «Gira a destra! A destra!» E io sterzavo di colpo, evitando l’impatto con un masso. Oppure: «Ferma! Fermaaa!» E frenavamo giusto in tempo per non finire dentro uno wadi. Per cercare di vederci meglio, spruzzavo in continuazione il liquido per pulire il vetro con i tergicristalli; schizzava sul viso di Atal, che ancora si sporgeva dal finestrino e imprecava, ma non mi diceva di smettere: sapeva che avevo bisogno di pulirlo. In quel momento cominciai a provare per lui un certo affetto, io cieco e lui con la barba e la camicia punteggiate di detergente azzurro.
Dopo quasi mezz’ora così, piantammo le ruote sulla ghiaia compatta della strada del Nord. Il pick-up, che fino a quel momento aveva arrancato, accelerò. I tornanti ci portavano oltre le creste. Ogni tanto la pendenza era così elevata da sembrare che il mondo fosse crollato sotto di noi e stessimo guidando su una strada fatta di niente nel cielo. Poi scollinammo e da lì, per un po’, fu solo discesa, tutta in prima, verso una terra ostinata che sembrava decisa a sotterrarci. In certi punti i tornanti diventavano così stretti che la roccia della montagna ci artigliava le portiere e dovevamo chiudere gli specchietti, altrimenti rischiavano di saltar via. Guidammo così per ore, vedendo passare davanti al finestrino soltanto le pareti rocciose e gli strapiombi delle valli; e tra noi due c’era solo il silenzio.
A notte fonda ci arrampicammo su per altri tornanti e scavalcammo l’ennesima cresta. Appena il cofano del nostro pick-up smise di puntare alle stelle e ripiegò verso il fondovalle, il corpo di Atal si raddrizzò all’improvviso come un gambo. Mi afferrò. «Aziz!» gridò. Piantai tutti e due i piedi sul pedale del freno. Slittammo. La parte anteriore del veicolo cadde pesantemente in avanti. Trovai a tastoni il freno a mano e lo tirai con forza con entrambe le braccia. Ci inclinammo e ci fermammo. Atal si sporse con cautela dal finestrino. Io pure.
Davanti a noi, sulla strada, il terreno era stato asportato e la voragine minacciava di inghiottire il nostro pick-up. Le due ruote davanti si trovavano oltre il bordo del cratere. Misi la retromarcia, diedi gas, le ruote girarono, l’abitacolo tremò, ma non successe niente. Riprovai, niente. Il mezzo era in equilibrio come una bilancia. Atal mi toccò il braccio, socchiuse la portiera e riuscì a sgusciare fuori. Io spensi il motore e lo imitai. La mia portiera si apriva su uno strapiombo verticale. Mi aggrappai al fianco del pick-up avanzando con cautela, un piede dietro l’altro. Allora lo vidi. In fondo al dirupo c’era un altro veicolo. Era stato sbalzato giù da ciò che aveva scavato il cratere: la mina. Si era ribaltato e il telaio guardava in alto, paralizzato e inutile, una maschera funebre meccanica.
I tre quarti di luna proiettavano ombre irregolari mentre ci spostavamo davanti al nostro pick-up e iniziavamo a scendere nella voragine. Atal accostò il palmo a terra.
«Ancora caldo», disse.
Anch’io avvicinai la mano al suolo per sentire il calore. Raccolsi del terriccio e sbriciolai la crosta bruciata con le dita. Era oleoso e appiccicoso, un misto di grasso del motore, benzina e sangue, quasi certamente sangue. Schiacciata sull’altro lato del cratere c’era una portiera, strappata al veicolo. Aveva due strisce verticali dipinte: Comanche. Sentii un retrogusto di sollievo, sensazione vergognosa, ma nessuno dei Tomahawk era rimasto ucciso, nessuno dei miei amici più cari: era bastata una sola stagione di combattimenti perché lo diventassero. Atal era in piedi oltre il bordo del cratere. Alzando lo sguardo, esaminò il telaio del nostro pick-up.
«Anche se riuscissimo a tirarlo fuori, come faremmo a girarci?» disse.
«E non penso che potremmo scendere in retromarcia fino a valle», aggiunsi.
«Sono d’accordo», rispose. «Gli uomini di Gazan hanno fatto bene il loro lavoro.»
Atal giocherellò con l’opale che aveva al collo, valutando le alternative, ma niente lasciava pensare che stesse considerando di mollare e tornare indietro.
«La strada del Nord resterà chiusa finché non la aggiusteranno», dissi.
Le mie parole aleggiarono tristemente tra noi. La strada del Nord non sarebbe mai stata aggiustata. Chi l’avrebbe fatto? Nessuno. Era una perdita irreparabile. Ci arrampicammo fuori dal cratere e restammo sul ciglio. Eravamo bloccati. La strada in teoria proseguiva verso Shkin, ma non saremmo mai riusciti a oltrepassare la voragine con il pick-up.
«Ho detto all’americano che ci sarei andato stanotte», disse Atal. Stava ribadendo quel proposito a se stesso, ma parlò a voce alta. Si lisciò la barba, appoggiò le mani sui fianchi e si diresse al pick-up.
«Dove vai?» gli chiesi.
Prese i fucili dall’abitacolo e me ne passò uno. «Andiamo a piedi», disse.
«Non ce la faremo mai, prima che sorga il sole, e percorrere queste strade armati è...» Mi si ingarbugliavano le parole.
«È pericoloso?» ribatté Atal. «Lo è di più essere disarmati.»
«Magari potremmo...»
Mi interruppe di nuovo: «Potremmo cosa? Non andare? Invece lo faremo. Come hai fatto ad arrivare a Gomal, Aziz?»
«Ho camminato, ma non per tutta la strada.»
«Appunto, ma intanto cominciamo a muoverci. Si spera che saremo più fortunati dei tuoi amici che erano su quella macchina. Se lo saremo, non dovremo camminare per tutta la strada.»
Scese nel cratere e risalì di corsa dall’altra parte. Si voltò a guardarmi. Tra noi si apriva la voragine. Attraversai anch’io e continuammo in silenzio sul ciglio della strada del Nord, che scendeva di nuovo a tornanti.
L’aria notturna era fresca e limpida. Scavalcammo diverse altre creste. Non parlavamo, il silenzio era una precauzione. Imbracciavamo le armi, per paura di chi si aggirava sui monti. Presto il terreno si appiattì e davanti ai nostri occhi si dispiegò una scura e fitta foresta di pini che arrivava fino al bordo della strada. Io e Atal allora ci inoltrammo nel folto, spostandoci di tronco in tronco, nascosti dagli alberi. I rami gettavano ombre lunari e dal limitare del bosco non era facile scorgere la strada. Ci fermavamo ogni dieci minuti circa, ci accovacciavamo accanto a un albero e tendevamo l’orecchio per captare eventuali rumori sospetti. Era un procedere cauto, lento, che ci avrebbe portato a Shkin non prima dell’alba.
Il rombo di un motore ruppe il silenzio.
Mi immobilizzai.
Atal si voltò e sgattaiolò di tronco in tronco, fino ad accovacciarsi accanto a me. Mi guardava fisso. Non disse nulla ma annuì, come se il gesto rendesse reale quello che entrambi sapevamo. Più avanti c’era qualcuno.
«Mi avvicino», disse, meno di un sussurro ma più di un respiro.
«Special Lashkar», mimai con le labbra, ponendo una domanda e dando contemporaneamente quella che ritenevo essere la risposta.
«O gli uomini di Gazan», disse lui.
«Lascia il fucile», sibilai.
Scosse la testa. «Non mi faccio sparare disarmato.»
Senza darmi il tempo di dire altro, si insinuò rapido tra i pini. Gli aghi caduti a terra cedevano sotto i suoi piedi e ne smorzavano i passi pesanti. Lo seguii quasi di corsa. Ma quando oltrepassò il confine tra la foresta e la strada, mi fermai e mi inginocchiai vicino all’ultimo albero. Il mio corpo emanava vapore nell’aria fresca. Mi domandai se mi avrebbero visto. Guardai la strada. Avrebbero visto Atal prima di riuscire a vedere me.
Atal si mise il fucile in spalla, per dimostrare che non aveva cattive intenzioni. In lontananza il veicolo si accostò al bordo della strada, dove un tornante svoltava per risalire una cresta. Atal continuava ad avanzare. I suoi passi erano lenti e fluidi. Tacco-punta, tacco-punta. La luce della luna si rifletteva sul parabrezza del veicolo. Presto la sagoma di Atal si confuse con il bagliore. Tacco-punta, tacco-punta. All’improvviso il cassone prese vita. Qualcuno si girò di scatto verso di lui.
«A terra!» gridò una voce. «Mettilo giù!»
A ritmo con i suoi passi, Atal si tolse il fucile dalla spalla. Lo appoggiò a terra e, con calma, gridò: «Lavoro con la vostra base. Sono Atal».
La vostra base.
Era un veicolo dello Special Lashkar. Tacco-punta, tacco-punta. Atal non si fermava. «Non fare un altro passo!» gridò la figura scura sul cassone. «Fermo!» Le grida dell’uomo erano diventate stridule. Armeggiò con la mitragliatrice, che ormai riuscivo a vedere. Le portiere si spalancarono come grandi ali vendicatrici. Scesero altre due figure. Gli avrebbero sparato.
Gettai il fucile e corsi fuori dalla foresta, sulla strada. «Non sparate! Siamo Tomahawk!» gridai. Il mitragliere puntò la sua arma contro di me. Feci una smorfia, abbassai il mento sul petto, ma continuai a correre. Uno degli uomini che erano scesi dalla macchina spinse la canna della mitraglia verso terra. Ra-ta-ta-ta-ta-ta, il rumore degli spari.
Respirai. Alzai lo sguardo. Ero vivo.
Atal era in piedi accanto al cassone, con i gomiti aggrappati alla sponda, quasi avesse raggiunto a nuoto il bordo di una piscina. Alzò gli occhi in direzione del mitragliere. «Lavoro con la vostra base. Sono Atal», ripeté.
L’uomo che era sceso dalla portiera aperta corse sul retro del pick-up. Superò Atal, scavalcò con un balzo la sponda e saltò sul cassone. Si allungò in punta di piedi, rimase sospeso per un attimo e poi sferrò un pugno sul mento del mitragliere. Ci fu un’altra raffica, più smorzata, e il mitragliere crollò. «Chi ti ha detto di sparare?» gli sibilò l’uomo.
Riconobbi la voce. Yar.
Mi misi a correre verso il veicolo. Al buio le sagome cominciavano a prendere forma. Yar era in piedi sul cassone e si massaggiava le tre nocche della mano monca. Atal alzò gli occhi verso di lui, stava per ripetere chi era. Un altro uomo, che si trovava sul lato opposto del veicolo, aggirò il cofano: Mortaza.
«Sono io, Aziz!» gridai ai miei vecchi commilitoni.
«Aziz? Che cosa ci fai qui?» gridò Yar.
Yar lanciò un’occhiata ad Atal, ancora appoggiato alla Hilux con un’aria compiaciuta. Era chiaro che ci facevo quello che ci faceva lui. «Devo discutere di una faccenda importante alla vostra base», disse Atal. «Vorremmo andare a Shkin stanotte.»
«Ma davvero?» fece Yar. «Anche noi vorremmo andarci. Peccato che dobbiamo presidiare il posto di blocco per i prossimi due giorni.»
«La strada alle nostre spalle è impraticabile», disse Atal. «Una mina ha aperto un cratere. Immagino che lo sappiate. Il nostro pick-up è bloccato là.»
«A quanto pare quello che hai fatto ti si ritorce contro», lo sfotté Yar.
«Quello che ho fatto!» sbottò Atal. «L’obiettivo delle mine sono i vostri posti di blocco, e non ce ne sarebbero se non fosse per voi.»
Mentre continuavano a litigare, Mortaza mi si piazzò accanto in silenzio. Afferrò la carne del mio braccio e diede una strizzata. Annuii e sorrisi. Il mitragliere si rialzò. Il viso liscio, le ciglia morbide e gli occhi rotondi, spalancati, minacciavano di rendere poco credibile l’aria da duro che cercava di darsi. Si sgranchì la mandibola e fece una smorfia per via di una nuova fitta di dolore.
Yar interruppe un attimo la discussione con Atal e insultò il mitragliere: «Cretino che sei. Per poco non ammazzi l’uomo che hai sostituito alla mitragliatrice. Lui è Aziz».
Il mitragliere mi fece un sorriso tirato, forse per non sentire di nuovo male alla mandibola, ma senza mostrarsi davvero amichevole. Era un nuovo arrivato e mi domandai dove si trovasse, nel suo petto, il piccolo nocciolo duro che l’aveva portato nello Special Lashkar.
«Perché avete bisogno di andare alla base?» mi chiese a bassa voce Mortaza.
Atal e Yar smisero di nuovo di discutere. Mi guardarono.
«Sto aiutando Atal ad arrivarci. Adesso lavoro per lui. Spostarsi di notte è più sicuro, soprattutto per me, dopo l’incidente.»
L’ultima parola rimase sospesa, imbarazzante.
Yar guardò nella direzione da cui venivamo, la direzione del cratere. «Hai ragione. Questa strada è pericolosa. Ma la base per te non lo è più come prima. È il pick-up di Qiam che è saltato in aria sulla mina.»
L’aria notturna ci avvolgeva. Il motore in folle della loro Hilux, il suo rombo sordo, era l’unico rumore. Avevo tutti gli occhi addosso, aspettavano la mia reazione a quella fortuna nera. La genealogia di Tawas e Qiam finiva con loro e così anche la badal contro di me, ma a farne le spese era qualcosa di più grande, qualcosa che potevo solo percepire e, come per il cratere che non sarebbe mai stato riempito, si trattava di una perdita irreparabile.
«Mi dispiace», dissi, più una preghiera che un’apologia.
Yar annuì. «Abbiamo l’ordine di presidiare il posto di blocco, ma sento la base per vedere se si può fare qualcosa.»
Salì sulla Hilux.
Il mitragliere si sedette sul cassone. Rovesciò indietro la testa, contro l’abitacolo. Il sibilo della statica andava e veniva sovrapponendosi al motore in folle. Atal si incamminò sulla strada in direzione del suo fucile, ancora abbandonato per terra. Mortaza si rivolse a me. «Per tutto questo tempo sei stato a Gomal.»
Annuii.
«Com’è la situazione?»
«Sono soffocati dai posti di blocco e dai bombardamenti dei mortai di Gazan.»
«Forse questa storia dei posti di blocco finirà presto», disse Mortaza. «Poi il comandante Sabir potrà costruire il suo avamposto e staneremo Gazan.»
«Forse.»
«Ma è necessario. Altrimenti... Altrimenti cosa si farà?»
La sua voce scemò.
«Che ne è stato di Puskie?» gli chiesi.
«Adesso me ne occupo io», rispose Mortaza. «Yar vuole ancora farla cucinare a Naseeb per cena, dice che non sopporta il suo chiacchiericcio, ma in realtà gli piace lamentarsi.»
«A Tawas avrebbe fatto piacere.»
«Che Puskie sia viva o che infastidisca Yar?»
«Tutt’e due le cose, secondo me.»
«Mi sdraio ancora a letto ad ascoltarla», disse Mortaza. «Sempre uguale, è quello che mi piace di più del suo canto.»
«Sì, sempre uguale. È sufficiente un bastoncino per far cantare Puskie», dissi.
Atal ritornò, un fucile per spalla. Aveva trovato anche il mio. «Abbiamo pochissimo tempo», dichiarò. «È molto importante che arriviamo a Shkin stanotte.»
Yar scese dalla macchina. «Ho parlato con il comandante Sabir. Vi portiamo noi», disse.
L’espressione di Atal era eloquente. Sembrava contrariato che fosse stato coinvolto il comandante Sabir. Comunque ci avvicinammo entrambi alle portiere aperte della Hilux. Yar ci fermò allungando il braccio. Prese i fucili dalle spalle di Atal. «Voi viaggiate dietro», disse. «Questi ce li teniamo noi davanti.»
Atal lanciò un’occhiata inacidita a Yar, che gli rispose indicandogli il cassone con il pollice. Ci arrampicammo sul parapetto posteriore e il giovane mitragliere ci liberò un piccolo spazio tra le casse di munizioni e le riserve d’acqua. Così io e Atal ci sedemmo nel cassone, disarmati, con le ginocchia premute contro il petto. Il freddo si insinuò dentro di noi. La Hilux partì con uno scossone e mi tirai le gambe più vicino, per riscaldarmi. Accelerammo sulla strada del Nord e quando la prima folata di aria fresca si trasformò in un flusso gelato, nessuno parlò.
La notte trascorreva e i tre quarti di luna scivolarono giù nel cielo, scomparendo dietro le montagne frastagliate. La strada del Nord si insinuava tra creste infinite e ciascuna era la prova che io e Atal eravamo degli stupidi, perché solo uno stupido avrebbe tentato di fare quel viaggio a piedi. Presto scorgemmo il profilo della base. Le file di HESCO rigonfie di terra formavano il familiare perimetro poggiato, come una corona, in cima alla collina che altrimenti sarebbe stata uguale a tutte le altre. Il pick-up scalò a una marcia più bassa per risalire gli ultimi tornanti. Dopo una curva il braccio rosso e bianco del cancello d’ingresso divenne visibile. Era già stato alzato, attendevano il nostro arrivo.
Entrammo nel perimetro di HESCO. Dietro di noi, la guardia abbassò il braccio del cancello tirando la cordicella logora che penzolava a una estremità. Sbatté forte, svegliando di colpo il giovane mitragliere. Parcheggiammo e lui si alzò in piedi nel cassone, stirandosi le membra infreddolite e rigide. Io e Atal facemmo lo stesso. Mentre ci alzavamo, vidi il comandante Sabir in fondo al cortile, piantato davanti ai suoi alloggi. La luce che sgorgava dalla porta gettava ombre sul suo viso. Stava domandandosi quale fosse la natura della nostra visita.
«Aziz!» mi gridò Yar dall’abitacolo. «Il comandante Sabir vuole parlarti.»
Scendendo dal pick-up, tenni lo sguardo fisso a terra, preoccupato che la doppiezza di cui ero partecipe potesse trasparire se il comandante Sabir o Atal avessero guardato troppo in profondità nei miei occhi titubanti. Attraversai il cortile e percepii il tacito ammonimento di Atal al silenzio, dato che ero a conoscenza del suo complotto con Gazan. Il comandante Sabir rientrò nei suoi alloggi e lasciò la porta aperta, un invito a seguirlo dentro. Nell’angolo della base un’altra luce catturò il mio sguardo. Veniva dalla capanna davanti a cui era parcheggiata una Hilux nera. Una figura passeggiava dietro la porta chiusa. Era Mr Jack. Aspettava Atal.
Il comandante Sabir si appoggiò con la schiena al letto. Chiusi la porta e mi sedetti a gambe incrociate sul pavimento davanti a lui. Sul comodino vicino alla testata c’era la boccia del pesce. Dentro c’erano solo i sassolini colorati che ancora coprivano il fondo.
«Dov’è Omar?» gli chiesi.
«Morto», rispose il comandante Sabir.
«Morto?»
Il suo sguardo non mi mollava ed ebbi l’impressione che trovare parole corrispondenti all’accaduto gli costasse fatica. Poi disse: «Mr Jack ha avuto da fare altrove e non è passato di qui, così ho finito il mangime. Omar non ha mangiato per giorni. Quando ha cominciato a deperire, gli ho dato del riso. L’ha fatto stare malissimo».
Immaginai il guercio Omar che banchettava con il riso, i chicchi che gli si espandevano nello stomaco e lo facevano esplodere. Gli occhi del comandante Sabir vagavano per la stanza senza incrociare i miei e in quell’elusione lessi una punta di vergogna per non essere stato in grado di prendersi cura del suo compagno. Mi dispiacque per lui, invece per Mr Jack provai un sentimento ostile.
«Ma Omar non era un suo regalo?» domandai.
«Mr Jack si distrae facilmente», rispose.
«Non è il modo di fare.»
«Senti chi parla», ribatté lui. «Proprio tu, che mi piombi qui senza permesso e mi porti un ospite senza preavviso.»
«Non ho avuto il tempo di avvisarti», borbottai.
Da sotto il letto tirò fuori una bottiglia in cui era rimasto solo un goccio di Jim Beam. Si accigliò e rovesciò il fondo in due bicchieri di carta. «Però il tempo di avvisarmi della mina sulla strada del Nord ce l’hai avuto», disse.
«Non hai fatto niente per impedire l’attentato», risposi con la rabbia nella voce.
«E tu non mi hai ringraziato», ribatté, secco. La pelle del suo viso si tese. I denti scoperti protrudevano dal labbro maciullato, la sua espressione persa nella violenza di quel viso. Dentro di me si rimescolavano i dubbi. Il comandante Sabir mi offrì un bicchiere. «Secondo te è stato un caso che si trattasse del pick-up di Qiam? Pensa di me quello che vuoi, Aziz, ma so fare bene i miei conti.»
Le parole mi si annodarono in bocca mentre le pronunciavo: «Era una faida tra noi due, tu non c’entravi... Io e lui eravamo amici, prima».
Tutto quello che dicevo mi sbrodolava dalle labbra come un rivolo di imbarazzante ingenuità.
«E da amico, ti avrebbe ammazzato, ma qui sono io che comando», disse, allargando le braccia. «Tu per me vali più di lui. Puoi avvicinare Atal e credo che tu conosca già i suoi piani. E non dimenticarti un’ultima cosa, Aziz: finché prendi soldi da me, per tuo fratello, sei ancora un soldato.»
«Non c’è bisogno che me lo ricordi», dissi, mandando giù un sorso.
«Ottimo. Allora, soldato, fammi rapporto.»
Bevvi un altro sorso.
«Atal non appoggia Gazan contro di te», dissi.
«Allora in cosa consistono i loro traffici?»
«Atal sta negoziando la pace tra Gazan e gli americani.»
Detto questo, mi fermai aspettando un segnale che mi rivelasse cosa pensava di quella notizia. Non me lo diede. Continuai: «Gazan è stanco di combattere. Quando doveva incontrarsi con Atal alla madrasa, era per discutere della pace. È per questo che siamo venuti, oggi. Atal sta discutendo con Mr Jack di un accordo su Gazan».
Distolsi gli occhi dal comandante Sabir e guardai nel mio Jim Beam. L’alcol si era infiltrato nelle giunture del bicchiere reagendo con la colla e chiazzando di umido la carta. Mi domandai se il whisky chiazzasse nello stesso modo anche i miei visceri. Bevvi un altro sorso e mi bruciò la gola.
«Devi aver incontrato Gazan e i suoi combattenti», mi disse. «Come ti sembrano?»
«Sono uomini spietati. Li hai affamati e gli dai solo quanto basta per controllarli. Cibo, armi, un nemico. Lo so che sei tu a rifornirli.»
«E allora, Aziz?» scattò, la testa inclinata di fianco. «La guerra è uno scontro di volontà. Se rifornisco il mio avversario, ne controllo la volontà, e quindi controllo la guerra.»
«Ma in questo modo non finirà mai.»
«Stai combattendo questa guerra per finirla?» disse attraverso un sorrisetto ironico.
Scossi la testa, vergognandomi di non sapere più come rispondere.
«Combatti per la badal, per vendicare Ali e per mantenerlo in ospedale», proseguì il comandante Sabir. «Cosa succederebbe se la nostra guerra finisse?»
Bevve dal suo bicchiere e si sedette sul bordo del letto.
«Sono solo un soldato che ci è rimasto coinvolto», risposi.
«Tutti ci siamo rimasti coinvolti. La questione è decidere se esserne vittima o prosperare. Ci sarà giustizia per te, se Gazan, che ha menomato tuo fratello, prospera in pace con gli americani? Ci sarà giustizia se ne perderemo il controllo e non costruiremo mai il nostro avamposto? Certo, Gomal e Gazan vivranno in pace, ma noi? Noi? Gli americani non avranno più bisogno di noi. Allora come ce la caveremo?»
Il comandante Sabir infilò la mano sotto il letto e rovesciò il bicchiere vuoto. Rovistò per un attimo e tirò fuori una sottile pistola nera. Una Makarov. Me la mise davanti.
«Ma noi abbiamo un piano. Il nostro piano è prosperare. Compiere la nostra badal contro Gazan, per tuo fratello, e per me, che sono stato il primo a offrirti ospitalità in questa guerra.»
Presi la Makarov. Il suo peso mi affondò nel palmo, ne colsi la solidità metallica. La pistola serve allo stesso scopo del fucile, ma permette di conseguirlo con disinvoltura. Per sparare con il fucile si usa tutto il corpo. Si appoggia il calcio alla spalla, si incassa il rinculo rimanendo concentrati sul mirino. Chi spara mette in gioco ogni parte di sé. Invece con la pistola basta un leggero movimento del polso e uno schiocco dell’indice manda a segno un proiettile.
«E Atal?» gli chiesi.
«Conosci la risposta.»
Le sue parole gelarono l’aria, ricordandomi della notte in cui avevo incontrato Gazan e della paura provata nella foresta appena sotto le creste innevate.
«La mia badal è solo contro Gazan», dissi.
«E l’avrai. Sono stato io a dartene la possibilità e dovresti essermi riconoscente, ma ricordati che c’è un prezzo da pagare.»
«La badal è solo vendetta. Questo prezzo è ingiusto.»
Il comandante Sabir parlò puntandomi un dito in faccia: «Atal si metterebbe con qualsiasi cane pur di impedire che il suo villaggio si schieri. Se vuoi Gazan, il prezzo è Atal. Gazan per la tua badal, Atal per permettere allo Special Lashkar di prosperare. È un prezzo giusto. Non pensare neanche per un momento che Atal non ti ucciderebbe, se tu interferissi con i suoi piani. Ricordati che è il cugino di Hafez e fa parte della famiglia che ha ucciso mio fratello e ha menomato il tuo».
«E Haji Jan? Lui non faceva parte della famiglia», gli dissi.
«Ottimo. Adesso capisci come vanno le cose.» Il comandante Sabir quasi sorrideva. «No, Haji Jan era un vecchio ostinato. Se alla shura avesse fatto una scelta diversa, lui sarebbe ancora vivo, io avrei il mio avamposto e Gomal prospererebbe sotto la mia protezione.»
«Uccidendo lui, sei rimasto con Atal. Lui è più contrario all’avamposto di chiunque altro.»
«Sì, ma se Gazan quel giorno avesse fatto le cose come si deve, Atal sarebbe andato a raggiungere Haji Jan. Adesso sarai tu a finire quello che Gazan ha cominciato per me.»
L’alito dolce, alcolico del comandante Sabir aleggiava attorno al mio viso. Una lucida pellicola di ubriachezza gli ricopriva gli occhi ma poi, quando mi alzai e mi infilai la Makarov sotto lo shalwar kameez, nella cintura dei pantaloni, il suo sguardo guizzò limpido, come acqua smossa dal vento.
«Con il dovuto rispetto, devo andare. Atal si insospettirà se finisce con Mr Jack e mi trova ancora qui con te.»
«Ma certo», rispose il comandante Sabir. «Hai da fare. Ho dato ordine che un veicolo venga ad aiutarvi a trainare il pick-up fuori dal cratere. Vi aspetterà al cancello.»
Lo ringraziai e mi diressi alla porta. La Makarov mi sfregava sulla schiena al ritmo dei miei passi.
«Aziz», mi richiamò. «Per quando avrai portato a termine il tuo compito, credo che avrò notizie di tuo fratello.»
Mi fermai sulla porta e guardai indietro.
Il comandante Sabir si era messo a quattro zampe. Scrutava le bottiglie vuote sotto il letto, alla ricerca di un goccio residuo di Jim Beam. Lo lasciai alla sua ricerca e mi incamminai verso la capanna fiocamente illuminata in cui si trovavano Atal e Mr Jack.