Quando Atal se ne fu andato ormai era ora di cena, ma io non avevo appetito. Ritornai alla nostra baracca, dove Puskie canticchiava nell’angolo. Mortaza era sdraiato sul materasso di lattice, con in mano un lungo frustino che si piegava sotto il proprio peso. Quando Puskie taceva, lui faceva schioccare il frustino contro la gabbia e l’uccello ricominciava a cantare. Percorsi il corridoio centrale, vuoto, della baracca. Mortaza aveva indosso l’uniforme e un paio di scarpe da basket slacciate, bianche con una striscia dorata sul fianco. Gli davano un’aria svagata. Quando mi vide, si puntellò sui gomiti. «Perché non sei a mangiare?» mi chiese.
«E tu?» ribattei.
Il suo sguardo era fisso nel vuoto. «Avevo bisogno di starmene in pace, senza di loro.»
«Anch’io», dissi, e mi sdraiai sulla mia branda, che era accanto alla sua. Nessuno dei due parlò. Ascoltammo i gorgheggi di Puskie. La melodia cominciava bassa: «Ci-ci-ciarii», poi saliva un pochino: «Ci-Ci-Ciarii», quindi esplodeva, a pieni polmoni, quasi all’isteria: «Ci-Ci-Ciarii-Ci-Ci-Ciarii!» Puskie sbatteva le ali e si picchiava il petto, finché all’improvviso, con pari impeto, ricominciava in tono basso: «Ci-ci-ciarii, ci-ci-ciarii». Ogni volta che il ciclo si concludeva, io e Mortaza ci scambiavamo un’occhiata divertita per la futilità del canto della gazza. Finiva sempre nello stesso modo.
Ma ogni tanto Puskie si dimenticava di ricominciare e Mortaza doveva colpire forte la gabbia con il frustino per richiamarla ai suoi doveri.
Puskie tacque di nuovo. Guardai Mortaza; mi aspettavo che colpisse la gabbia, ma non lo fece. Invece si rigirò sul fianco e parlò: «Credo che Haji Jan abbia sofferto molto, alla fine».
«Chi può dirlo?» risposi. Non volevo pensare al dolore di quell’uomo.
«Alla shura si era comportato bene», disse Mortaza.
«Vero.»
«Che brutta cosa.»
«Vero.»
«Lo sai cosa mi ha portato a combattere qui?» mi chiese.
Mi alzai a sedere sul letto. «Non me l’hai mai raccontato e non me la sono mai sentita di chiedertelo», risposi.
Mortaza appoggiò il frustino accanto a sé. Parlò guardando nel vuoto, in direzione della gabbia: «È stato perché gli spingari del mio villaggio sono stati stupidi, come Haji Jan. La mia famiglia aveva un terreno. Non grande, ma sufficiente per coltivare. Mio padre piantava il grano e il papavero, avevamo anche un po’ di mandorle. Ce n’era sempre abbastanza. Prendevamo quello che ci apparteneva e davamo il resto agli spingari come tassa sulla terra. Era giusto così ed eravamo felici. Mio padre coltivava e mia madre mandava avanti la casa. Mia sorella, la piccola a cui mia madre era molto affezionata, la aiutava. Io davo una mano a mio padre nei campi. Sapevamo della guerra, ma era lontana. Quando alla fine è arrivata, al villaggio si sono presentati gruppi di miliziani. Offrivano protezione agli spingari in cambio di una tassa. Noi non ci parlavamo mai, solo gli spingari venivano interpellati. I miliziani a poco a poco hanno messo i diversi gruppi l’uno contro l’altro, facendo promesse che non avrebbero mai potuto mantenere. Era un gioco pericoloso. La mia famiglia ha cercato di ignorare la guerra. Eravamo soddisfatti del nostro pezzo di terra, avevamo una casa, cibo a sufficienza. Ci bastava. Ma non è durata. Alla fine il nostro villaggio ha imparato sulla sua pelle che tutti devono fare una scelta.
«Era quasi il momento del raccolto, quando è successo. Non ho mai saputo quale gruppo di miliziani sia stato; comunque, io e mio padre guardavamo dai campi i colpi di mortaio che cadevano, uno alla volta, prima in lontananza e poi, come i passi di un gigante invisibile, si sono avvicinati a casa nostra e l’hanno centrata, polverizzandola. Ci siamo tornati di corsa e abbiamo scavato tra le macerie. Abbiamo trovato subito mia madre. Era ancora viva. Mio padre gridava, chino sopra il suo corpo martoritato. Credo che il suo spirito sia morto prima di lei. L’abbiamo deposta a terra con gli abiti lacerati e ha vissuto abbastanza da chiedere di mia sorella, ma grazie a Dio non da vedermi mentre la tiravo giù dall’albero su cui era stata sbalzata. Appena l’ho vista, sono corso ad arrampicarmi su quei rami che conoscevo bene, perché ci salivo da bambino, ma ci ho messo un’ora a tirarla giù. A quel punto mio padre non poteva fare altro che gemere su mia madre. Mia sorella aveva solo otto anni, era piccola, tutta rotta fra le mie braccia. E le labbra... Blu, erano blu».
Mentre si lasciava andare ai ricordi, Mortaza faceva schioccare il frustino sul palmo della mano. Si guardò le scarpe da basket e continuò: «Sono andato dagli spingari del mio villaggio. Gli ho chiesto di schierarsi contro i responsabili, ma si sono rifiutati. Sostenevano che prendendo le parti di qualcuno avremmo sofferto di più. Erano vigliacchi, e gliel’ho detto. Me ne sono andato e sono venuto qui, e il comandante Sabir mi ha promesso quello che gli spingari non hanno voluto concedermi. Ormai nei nostri campi cresce poco e niente. La stagione scorsa, quando io e mio padre avremmo dovuto prepararci per la semina, lui ha seminato sale nei solchi, uccidendo la terra, negandola agli spingari e a chiunque altro rivendicasse quello che invece era suo. È rimasto nel rudere che era la nostra casa, circondato dai muri crollati e senza un tetto a proteggerlo, e non lavora. Dice che non ne vale la pena. Gli mando la mia paga, gli basta per sopravvivere, ma per il suo spirito morto non c’è niente da fare. E il mio, di spirito? Non so con certezza chi abbia attaccato il mio villaggio. Gazan che combatte per i talebani? Altri che combattono per Hezb-e Islami? Gli Haqqani? Chi lo sa. Quello che so è che mi sono schierato. Credo che sia sufficiente».
Mi voltai verso Mortaza e feci per parlare, poi però non dissi niente. Con le mie parole avrei solo potuto sminuire le sue. Tawas, Qiam, Yar, perfino il comandante Sabir: il fardello del passato ci aveva condotto lì e, per quanto ci accomunasse, lo portavamo da soli.
Nel mio silenzio, Mortaza parlò di nuovo: «Ma adesso c’è una cosa che ti devo chiedere. Secondo te, oggi abbiamo ucciso Haji Jan?»
«Cosa intendi?» gli domandai. Avrei preferito evitare certi discorsi.
«La nostra vendetta, il nostro desiderio di badal a ogni costo, la volontà del comandante Sabir di costruire l’avamposto... Credi che sia stato questo a uccidere Haji Jan?»
«Haji Jan non si è schierato», risposi. «È stato questo a ucciderlo, non noi.»
«Certo, non noi», ripeté lui. «Noi abbiamo fatto una scelta.»
Tornò a sdraiarsi, prese il lungo frustino e sferzò la gabbia di Puskie. L’uccello cantò: «Ci-ci-ciarii, Ci-Ci-Ciarii, Ci-Ci-Ciarii!»
Io mi appoggiai sul cuscino fissando le assi di legno del soffitto e lottai per lasciar andare tutto, finché non riuscii a lasciar andare abbastanza da addormentarmi.
Qualche ora dopo mi svegliai nel silenzio più assoluto. Ero senza fiato per un sogno che non ricordavo e mi sembrava di non aver dormito per niente. Accanto a me, nel misto notturno di luce e ombra, Mortaza era sdraiato sulla schiena, scomposto, addormentato, ancora con le scarpe ai piedi, e con il lungo frustino stretto in mano. Mi andai a sedere. Le brande non erano più vuote, ma si sollevavano e si abbassavano, con un soldato che riposava su ciascuna. Dovevo andare in bagno e uscii dalla baracca, invidiando chi dormiva sereno, ma l’invidia si mescolò con il dubbio. Non c’era motivo per cui loro dovessero dormire più profondamente e più tranquillamente di me.
Fuori, la luce della luna mi irritò gli occhi stanchi. Mi sembrava di essere uscito in una giornata luminosissima. Con le nuvole che aleggiavano ampie e pigre in cielo, le ombre si spostavano fra i sassi confondendosi con la luce. Attraversai la base guardandomi la punta degli scarponi, stando attento a non inciampare sul fondo irregolare. Ma con quell’eccesso di cautela mi sfuggì l’ostacolo principale: il comandante Sabir. Fece un fischio acuto. Alzai gli occhi. «Tu! Vieni qui», sibilò.
Era seduto sulla soglia del suo casotto di compensato e strizzava gli occhi nel buio. Dall’interno usciva la luce e io lo vedevo meglio di quanto lui vedesse me. Si era tirato le ginocchia al petto. Al posto della giacca dell’uniforme aveva una maglietta bianca, forse due taglie troppo grande, con il simbolo argentato della Nike e il familiare JUST DO IT stampato in nero.
Accanto al piede sinistro aveva una bottiglia di Jim Beam e accanto al destro un bicchiere di carta con il coperchio di plastica. Il braccio sinistro penzolava inerte lungo il fianco. Nel palmo stringeva il barattolo del mangime per i pesci. Mi avvicinai con circospezione, non abbastanza in fretta. «Bacha bazi, vieni qua!» strillò, puntandomi contro il braccio teso. Poi si guardò la mano, confuso: aveva dimenticato che stringeva il mangime. La scoperta lo divertì e si mise a ridere, portando la bocca contro la spalla.
Posò il barattolo del mangime accanto al whisky e si alzò. Mi misi sull’attenti, le braccia incollate ai fianchi e le caviglie che si sfioravano. Lui fece lo stesso e restammo rigidi come soldatini di piombo davanti alla sua porta. La bevuta notturna gli aveva arrossato le guance come carne di manzo. Anche i bordi degli occhi erano rossi, e il naso arricciato in una smorfia stizzita. «Dove vai, così tardi?» mi chiese.
Risposi con fermezza, ritmando le parole, come se stessi battendo le mani a ogni sillaba: «Comandante Sabir, devo andare a pisciare».
Mi guardò. Nei suoi occhi c’era una pesantezza vuota, come quella del serpente che sta per catturare il suo pasto. Respirava dalla bocca. Un sudore ebbro gli imperlava la fronte. Poi, con una mossa rapidissima, il suo pugno scattò verso il mio viso, ma non mi colpì. Si fermò a pochi centimetri dal mio naso. Il comandante Sabir inclinò la testa e spostò lo sguardo da me al pugno tra noi due. Mentre lo osservava, lentamente premette la punta del pollice tra indice e medio, facendo spuntare il polpastrello. Lo agitò, inclinò la testa dall’altra parte, guardò me, oltre il polpastrello del suo pollice, e si sciolse in una risata, come un bambino. «Allora vai a pisciare, imbecille!» disse, e la dolcezza alcolica e tiepida del suo alito mi investì, mentre una goccia di saliva gli colava dal labbro maciullato, scivolando sulla maglietta come miele. Mi avviai rapido verso le latrine, ma il comandante Sabir mi gridò dietro, indicando il muro a lato dei suoi alloggi: «No! Vai di là. Quando hai finito, vieni a bere con me».
Entrò a prendere un altro bicchiere di carta e io cercai di scaricare la vescica contro il suo casotto. «Chi potrebbe dire che non tengo ai miei soldati, se divido il mio whisky con loro?» mi gridò, attraverso la porta.
Non ci riuscivo. La voce del comandante Sabir e il rumore che faceva cercando il bicchiere mi mettevano ansia.
Tornò fuori e si sedette pesantemente sul gradino. «Non hai ancora finito?» mi chiese, ridendo. «Dai, metti via il pisellino, Aziz.»
«Solo un momento, comandante», risposi.
Fischiettava una melodia cupa e irregolare. Inspirai a fondo, ruotai indietro le spalle, cercai di rilassarmi, ma niente. Lui smise di fischiettare e gridò: «Ti ho preparato il bicchiere ma, se non ti muovi, me lo bevo io!»
Rinunciai. La vescica mi faceva male, ma mi abbottonai i pantaloni e andai a bere. Ero in piedi davanti a lui, e non sapevo dove sedermi. Picchiò con il palmo sul gradino e mi sistemai accanto a lui, da suo pari. Prima che ci mettessimo a bere, si alzò, entrò e spense la luce. Tornò con la boccia di Omar. La appoggiò sul gradino in mezzo a noi, con il pesce nero che girava all’infinito.
«Quando è buio, preferisco che Omar mi tenga compagnia», confessò.
Mi allungò un bicchiere di carta come il suo. La notte chiara era piena di ombre che cadevano sulla boccia di Omar, disegnando strane pieghe. Il pesce sembrava evitarle e zigzagava nell’acqua, nuotando basso vicino alla ghiaia colorata. Guardandolo, sorseggiai il mio whisky. Era forte e mi bruciò la gola. Quel tepore dolce mi fece trasalire e guardai dentro il bicchiere. Non avevo mai bevuto alcolici.
«Cosa c’è?» chiese il comandante Sabir. «Non ti piace?»
«No, è buono.»
«Non mi sembra che ti piaccia», insistette.
Buttai giù un sorso e dissi: «Sono stanco, niente di più. Oggi è stata una giornata dura».
«Bah!» rise lui, bevendo un altro sorso del suo whisky. Si strofinò la nuca con il palmo calloso, guardando in aria, in cerca della luna. La sua luce sgorgava da dietro un’unica nuvola. Parlò tanto alla luna quanto a me: «Oggi è stata una giornata dura, ma più che altro inutile, si poteva evitarlo. Se quello sciocco di Haji Jan avesse accettato la mia offerta, sarebbe ancora vivo. Mi credi, se te lo dico?»
«Sì, comandante, certo», mi affrettai a rispondere.
Studiò il mio viso come un attimo prima aveva studiato la luna. Bevve ancora e aggiunse: «E quello stupido di Atal è peggio di Haji Jan. Sostiene di avere a cuore il suo villaggio, ma non ha idea di cosa significhi. Io sono responsabile per voi soldati. Mi prendo cura delle vostre famiglie distrutte. Vi do cibo e riparo. E un’opportunità di avere la vostra badal».
La luna spuntò dalla nuvola e alla sua luce il comandante Sabir cercò a tastoni il barattolo del mangime di Omar, appoggiato per terra.
«E la nostra badal, allora?» gli chiesi.
«Cosa?» rispose lui, sempre cercando ai propri piedi.
«Siamo stanchi dei posti di blocco», dissi, provando una sensazione nuova: il coraggioso entusiasmo dell’ebbrezza. «Vogliamo attaccare Gazan. È per questo che sono venuto qui. Che siamo venuti qui, tutti. Per la badal.»
Pensavo che si sarebbe arrabbiato, invece non ribatté. Trovò il barattolo e aprì il coperchio. L’odore pungente si diffuse nell’aria. Scrollò le scaglie sulla superficie dell’acqua. Scendevano lentamente. Scosse più forte il barattolo, senza smettere di parlare: «Facciamo di tutto per la badal, perché non fare niente sarebbe vergognoso e la vergogna è la cosa di cui abbiamo più paura. Quando ho ucciso Hafez e ho vendicato mio fratello, ho avuto molta paura».
La sua voce scemò. Alzò lo sguardo dall’acqua e mi guardò dritto negli occhi.
«Cosa farai dopo che avremo ucciso Gazan?» mi chiese.
«Tornerò a Orgun, mi prenderò cura di mio fratello e cercherò un lavoro.»
Le mie parole restarono sospese, senza peso nonostante tutto quello che presupponevano. Il comandante Sabir ascoltò e svitò il tappo del barattolo, soffiando sui buchi per sturarli. Le scaglie volarono in giro e ricaddero, depositandosi sui miei capelli e sul mio viso. Riavvitò il tappo. Omar boccheggiava in superficie, il suo unico occhio viscido ammiccava mentre aspettava la cena.
«Nello Special Lashkar sono in molti a essersi vendicati. Chiedi a Issaq o a Yar se serve a cancellare il dolore. Chiedigli perché sono ancora qui a combattere. La guerra è il nostro sostentamento. Può diventare un modo di vivere.»
Il comandante Sabir scrollò altre scaglie di mangime che caddero nella boccia, poche alla volta. Omar le mangiò una per una. Spazientito, il comandante colpì il fondo del barattolo con il palmo. Il coperchio saltò via e tutto il contenuto finì nell’acqua. Omar inghiottiva, mangiando con frenesia. Avrebbe mangiato fino a farsi scoppiare lo stomaco. «Bowli!» imprecò. Cercò di ripescare il mangime ma, nella fretta, rovesciò la boccia. L’acqua si sparse nella polvere ai nostri piedi e Omar si dibatté nel fango. Il comandante Sabir corse dentro. Io agguantai il pesce e lo raccolsi da terra. Il suo corpo si contorceva nelle mie mani a coppa. Sentivo sui polpastrelli le sue labbra, che ora cercavano di ingoiare aria, non cibo. Il comandante Sabir tornò con una bottiglia d’acqua. La versò nella boccia e io ci buttai Omar. Lui alzò la boccia alla luce della luna per controllare il suo animale da compagnia. Omar, imperturbabile, si rimise a mangiare, succhiando le scaglie di cibo sepolte nel pavimento di ghiaino colorato.
«Vai a riposarti, c’è tanto da fare. Avrai la tua opportunità di badal. Forse la coglierai, ma non conterà nulla finché non ti sarai fatto una vita in questa guerra.»
Si chinò indietro, vuotò il bicchiere di Jim Beam e si pulì la bocca con la manica. Prese sottobraccio la boccia del pesce, incespicò fino in camera e crollò sul letto. Gli chiusi la porta.
Mi diressi alle latrine con passo incerto. La luna si era ridotta a una falce e non capivo se continuavo a inciampare per il buio o perché avevo bevuto troppo. Quando ci arrivai, non accesi la luce. Rimasi a gambe larghe sopra il buco di ceramica per un bel po’, prima di riuscire finalmente a trovare sollievo. Poi tornai alla baracca. La luce del comandante Sabir si era riaccesa. Pensai a lui, ubriaco, seduto sotto la lampadina, che non riusciva a dormire se non c’era il suo pesce e aveva paura del buio.