Passavo la maggior parte del tempo con Mumtaz, lasciando casa sua solo per raccogliere la legna o, qualche volta, andare al bazar nella speranza che qualcuno riferisse ad Atal che ero passato. Sorseggiavamo tè, coccolavamo Iskander, che alla fine mi aveva concesso di grattarlo dietro le orecchie mozzate, e ci raccontavamo storie.
L’entusiasmo di Mumtaz per quest’ultima attività non aveva eguali. Ogni mattina, non appena avevo caricato la stufa di rami secchi e avviato una bella fiamma, mi mettevo comodo, appoggiato al materasso, e lui cominciava. Mi raccontava della sua famiglia, storie che sapevano di antico, racconti di prima della guerra. Parlava di suo padre, che guidava un camion; di quando, da bambino, l’aveva accompagnato fino a Isfahan a ovest, Lahore a est e Tashkent a nord. Gli affari di suo padre andavano bene e Mumtaz, quando era più giovane, sognava di ampliarli dando lavoro a più persone. Mi raccontava anche di suo fratello, con cui rubava le uova dai pollai come quello in cui dormiva Iskander per barattarle con le sigarette al bazar.
Finito di raccontare, Mumtaz mi rivolgeva un appello: «Aziz, tu sei ancora giovane. Devi conoscere queste storie per poter ricordare che le cose una volta erano diverse. Il futuro è nella memoria».
Annuivo, paziente. A ogni esortazione del genere, il mio affetto per il vecchio cresceva.
Mumtaz aveva anche storie di guerra. Le raccontava con profonda solennità e solo dopo cena, in quello spazio tranquillo prima del sonno, in cui le grandi verità ci cadono di bocca come frutti maturi dai rami scossi dal vento. Parlava dei primi tempi della guerra a Gomal, quando uomini istruiti e idealisti combattevano i russi.
«Allora avevamo tutti un futuro», diceva. «Capivamo cosa significava sacrificare quel piccolo futuro per uno più grande: significava essere un mujahidin, ed è il motivo per cui ormai tutti i mujahidin sono morti, anche quelli vivi come me sono morti. Adesso si fa la guerra per il guadagno, per il profitto, non per un futuro.»
Ma quando non si faceva prendere dall’amarezza e mi raccontava degli uomini che considerava mujahidin, sembrava che le sue parole volessero destarli dal sonno e riportarli alla loro giovinezza. Una sera si rannicchiò dietro la stufa, come se fosse in agguato dietro un pino. Balzò in avanti, parlando ininterrottamente, senza fiato: «Dal fitto della foresta, io e mio fratello sparavamo con i lanciarazzi RPG. Poi siamo andati all’attacco dei russi. I carri armati bruciavano e in pochi attimi la loro colonna blindata si era ridotta a una fila di metallo carbonizzato con una calca di ragazzini pallidi che scongiuravano pietà, le guance chiazzate dal loro stesso sangue e dalla peluria color pesca. Non li abbiamo graziati, per il semplice fatto che loro non avrebbero graziato noi».
Mumtaz descrisse, esagerando, i bombardieri che si erano messi sulle tracce della sua piccola banda dopo l’imboscata. «Due», disse, eccitato. «O erano tre? No, non potevano essere tre perché volavano sempre a coppie, quindi dovevano essere quattro. Quei cretini non sono riusciti a trovarci. Io e mio fratello siamo rimasti nascosti per il resto della giornata vicino al confine, dietro un grosso masso che spesso usavamo come deposito segreto per le armi.»
Mi chiesi se fosse lo stesso masso dove mi ero nascosto per comunicare con il comandante Sabir. Probabile. Nei villaggi, e nelle guerre come quella, non cambiava mai nulla, o quasi. I nascondigli e gli appostamenti migliori venivano tramandati come un’eredità.
Quando mi svegliai, la mattina dopo quella storia, Mumtaz si era già alzato. Era seduto, appoggiato al muro, con Iskander lungo disteso sulle gambe. Si lisciava i baffi e, in alternanza, accarezzava il pelo annodato sulla pancia del cane. Fissava la stufa fredda al centro della stanza con uno sguardo inespressivo.
Misi nella stufa i rami per il fuoco del mattino.
«Stiamo finendo la legna», dissi. «Oggi vado a prenderne un po’.»
Ma in realtà avevo bisogno di controllare il telefono. Era passata quasi una settimana da quando avevo notificato il mio arrivo.
«Non ce n’è bisogno», rispose Mumtaz, sempre guardando nel vuoto. «Oggi fa troppo freddo fuori. Secondo me domani farà più caldo. Vai domani.»
«Va bene, domani.»
Accesi il fuoco e mi sedetti accanto a lui in silenzio. La stanza tratteneva il calore. Il viso di Mumtaz si scongelò. «Non ripensavo a mio fratello da molto tempo. La sua fine non è stata bella. Né per lui né per me, quindi ricordare è sempre difficile.»
«Però hai tanti bei ricordi di lui», gli risposi, pensando ad Ali, la cui fine non era ancora un ricordo.
«È vero. Ma negli anni l’ho perso, in quella fine.»
Restammo in silenzio per un po’. Il nostro fuoco, scoppiettando, si ridusse in brace e andai a riempire di nuovo la stufa. I miei movimenti smossero qualcosa in Mumtaz, che parlò, non a me ma allo spazio vuoto, la voce vacillante che cercava un punto a cui aggrapparsi.
«Quando mio fratello è morto, non è stato nella guerra che pensavamo di combattere, ma in un altro tipo di guerra. Eravamo mujahidin e al villaggio ci trattavano da eroi; tutti conoscevano le nostre imprese sul campo di battaglia, erano motivo di onore, e noi eravamo diventati avidi di onore. Così organizzavamo attacchi più in grande, più temerari. D’inverno, quando i combattimenti ristagnavano, eravamo impazienti di tornare in azione. I russi rimanevano nelle loro basi ed era difficile colpirli. Però un nostro informatore di Orgun, un uomo che come nostro padre aveva una ditta di trasporti, ci aveva detto che qualche notte dopo un convoglio russo sarebbe passato dal villaggio lungo la strada del Nord. Io e mio fratello eravamo così smaniosi che abbiamo fatto poche domande. Sarebbe stata un’operazione semplice. Dopo il coprifuoco avremmo sotterrato una mina sulla strada e al mattino, se i russi non si fossero fatti vivi, l’avremmo tolta.
«Qualche giorno dopo, al buio, abbiamo scavato un fosso nel terreno gelato e ci abbiamo infilato la mina. Abbiamo risistemato le zolle e siamo tornati a casa, senza stare a pensarci troppo, come quando si pianta un albero e ci si chiede di sfuggita se attecchirà. Abbiamo dormito sodo e la mattina dopo, prima dell’alba, siamo tornati per esaminare le nostre prede o, eventualmente, recuperare la mina. Mentre camminavamo nella limpida aria fredda, la neve sulle colline lontane rifletteva il bagliore di un fuoco: la mina aveva colpito. Ci avvicinavamo alla strada sospinti da folate di entusiasmo. Tuttavia, eravamo in una situazione di incertezza. E se i russi avessero mandato qualcuno in aiuto del loro convoglio? E se ci fossimo imbattuti in qualche sopravvissuto pronto a tutto? Erano incertezze a cui ci sentivamo preparati. Invece eravamo impreparati a ciò che abbiamo trovato. Mentre superavamo l’ultima cresta, abbiamo adocchiato la preda, scoprendo in un attimo il nostro terribile errore.
«Riverso sul fianco come la carcassa di un bestione di ferro, c’era un camion, ma non era russo. Era civile e portava un carico di legname che ardeva in una pira, scintillando sulla neve. Ci siamo mantenuti a distanza, ma eravamo abbastanza vicini da sentirne sul viso il calore. Vedevamo l’abitacolo dipinto di vernice bianca, che si arricciava, e il metallo sotto la vernice, che bruciando si tingeva di rosso. Dietro il parabrezza in frantumi, le fiamme lambivano una figura eretta che si consumava con la dignità di uno che ha trovato la morte sul colpo, senza dolore né traumi, e forse grazie a quell’assenza sembrava stranamente vivo. Non saprei dire per quanto tempo siamo rimasti a guardare il rogo, ce ne siamo andati che il sole non era ancora sorto, ma la figura si era consumata del tutto. Durante il tragitto verso casa non abbiamo parlato e abbiamo cercato di trovare un nascondiglio nel nostro silenzio.
«La notizia dell’attentato è circolata tra le famiglie di Gomal. Il camion apparteneva alla ditta del nostro informatore e l’autista morto era un suo dipendente. Diversi giorni dopo, mio padre e gli spingari del nostro villaggio sono stati chiamati a Orgun, per una jirga che avrebbe sistemato la faccenda. Il procedimento è stato rapido, è durato appena due giorni, e mio padre ne è uscito rovinato. Gli spingari di entrambe le parti hanno decretato che nostro padre era responsabile delle nostre azioni e che avrebbe dovuto rimpiazzare il camion distrutto e comprarne un altro per risarcire il carico perduto. Il nostro informatore ne usciva benissimo, perché il primo camion ci ha costretto a vendere la casa e il secondo ha ripulito i conti di mio padre, eliminando un concorrente. È stato allora che ci siamo trasferiti qui.»
Mumtaz agitò la mano a indicarmi la stanza e sputò sul pavimento di casa sua. Mi puntò il dito in faccia. «Ma non era ancora il peggio. Alla jirga c’era la famiglia del morto. Invece di accettare un risarcimento in denaro, denaro che mio padre non aveva più, hanno scelto la badal contro mio fratello, il figlio maggiore, una vita per una vita. Mio padre era distrutto. Per onorare il pashtunwali, la famiglia ha ingaggiato un qatal che gli desse la caccia. Da allora in poi avrebbe dovuto vivere alla macchia.
«Il giorno dopo il ritorno di mio padre, ho salutato mio fratello nel buio freddo del mattino. Non aveva detto al vecchio che se ne andava. Sapeva che lui si sarebbe comportato onorevolmente e avrebbe cercato di proteggerlo, quindi si è comportato anche lui con onore e se n’è andato. Prima che uscisse dal cancello l’ho preso per il braccio e, con l’ostinazione di un fratello minore, gli ho detto: ’Quel farabutto di Orgun la pagherà. Avremo la nostra badal, si saprà la verità e tu tornerai’.
«Mio fratello mi ha messo una mano sulla nuca e mi ha attirato a sé. I quattordici mesi di differenza tra noi gli davano sempre un filo di perspicacia in più, rispetto a me, ma in quel momento il divario si è trasformato in un abisso. Mi ha guardato e mi è sembrato che mi parlasse dall’altra parte del baratro: ’La tua badal è non vendicarti. Spezza la catena. Abbandona la guerra. Prenditi cura di papà’.
«Ho protestato, ma lui si è voltato e se n’è andato da casa nostra e dal villaggio, verso sud, addentrandosi tra le montagne le cui creste l’hanno accolto come le dita di una mano aperta.
«Ho fatto come mi ha chiesto mio fratello. Mi sono preso cura di mio padre. Ho reso confortevole questa stanza e abbiamo cercato di continuare con la nostra vita. Senza gli affari, siamo scivolati nella miseria, ma mio fratello era vivo e immaginare di poterci ritrovare insieme ci salvava dalla vera miseria: la disperazione. Un paio di mesi dopo, però, un uomo è venuto a recapitarcela, la disperazione. È arrivato al nostro cancello così presto, al mattino, che doveva aver viaggiato tutta la notte. Era alto e ossuto, ma aveva un paio di mani potenti. A un polso portava un orologio al quarzo. Era d’oro e gli stava largo come un braccialetto. Sul quadrante ho visto l’ora. Era avanti di otto ore, come se avesse ricalibrato le giornate in modo che il nostro mattino presto fosse il suo pomeriggio. Sopra i vestiti portava un gilè azzurro ricamato di trecce d’oro e il lembo del turbante scendeva sul davanti. Il turbante era giallo, quasi uguale alle trecce dorate del gilè. Gli stava in bilico sulla testa, come legato alla rinfusa. Quell’uomo in piedi nella nostra modesta casa era di un’eleganza quasi oscena.
«L’abbiamo invitato a entrare, a sedersi e a prendere il tè con noi, ma lui ha rifiutato alzando il palmo. ’Non chiedo ospitalità, solo che ascoltiate il mio messaggio, sollevandomi dai miei doveri’, ha detto. Mio padre ha annuito e l’uomo ha proseguito: ’Una settimana fa tuo figlio è stato ucciso. La badal è stata sancita dalla jirga di Orgun due mesi fa. Tuo figlio è sepolto nelle fosse comuni fuori dalla Moschea Azzurra di Spin Boldak. Se ci vai e chiedi del becchino, ti aiuterà a organizzare il trasporto del corpo. Queste sono le indicazioni per arrivare alla tomba’.
«L’uomo ha porto a mio padre, che non sapeva leggere, un foglietto delle dimensioni di una banconota. Lui l’ha preso con la mano che gli tremava.
«’E come fai ad avere queste informazioni su mio figlio?’ gli ha chiesto.
«’Per me la badal è un dovere’, ha detto l’uomo. ’È giusto che tu sia informato della fine di tuo figlio.’
«Mio padre ha fatto scivolare lo sguardo su di lui e sui suoi abiti eleganti, sapendo di avere di fronte l’assassino di suo figlio. ’Gli uomini d’onore sembrano essere ben ricompensati per il compimento dei propri doveri’, gli ha detto.
«Il qatal ha sorriso, le sue labbra si sono ritratte a rivelare gengive punteggiate di bianco, forse il segno di una malattia imminente. Poi si è voltato e se n’è andato. Mio padre è tornato in casa stringendo al petto il foglio e si è sdraiato sul materasso con la coperta tirata sulle spalle esili. Non avevamo i soldi per andare a Spin Boldak e non li avremmo mai avuti. Mio fratello è ancora sepolto là.»
Mumtaz guardò il soffitto. Gli si inumidirono gli occhi ma riprese comunque a parlare: «Mio padre è morto qualche settimana dopo. Da allora sono rimasto solo. È stato tanto tempo fa. Quindi ora capisci cosa intendevo, dicendo che mio fratello è rimasto ucciso in un altro tipo di guerra, diversa da quella contro i russi. Si tratta della guerra che da sempre è in mezzo a noi e che mantiene tanta gente con i suoi profitti. L’ultimo desiderio di mio fratello è stato che io sfuggissi a quella guerra e l’ho fatto. Forse nella mia vita non c’è molto da ammirare: sono povero e non ho famiglia, ma almeno la guerra non ha potere su di me».
Gli diedi una pacca sulla spalla. «Non sei poi così povero. Hai me, che ti raccolgo la legna, e ti pagherò una settimana di vitto e alloggio.»
Mumtaz premette la mano sulla mia. Si appoggiò al muro e osservò il mio viso con occhi vitrei che lasciavano intuire sia il suo dolore sia la sua età. Arricciò le punte dei baffi e annuì. «Domani raccoglierai dell’altra legna per noi due, ma tieni i tuoi soldi. Hai ragione. Non sono povero come altri.»