Quando Mr Jack veniva alla nostra base, arrivava di notte. Parcheggiava la sua Hilux nera in mezzo alle nostre grigie e il meccanico sapeva di dovergliela lavare. Al mattino scintillava sulla ghiaia umida. Per tutto il giorno noi soldati ci passavamo davanti cercando il nostro riflesso sulle portiere e sul cofano. Mr Jack trascorreva le giornate in un edificio speciale incuneato nell’angolo più lontano del perimetro, poco più che una capanna, a dire il vero. Intravedevamo le persone con cui si incontrava. Non sembrava gente importante: pastori che vagavano e che nei loro giri notavano molte cose, oppure anziani di remoti villaggi di confine. Un paio di volte mi capitò di vedere Mr Jack di giorno. Portava sempre un paio di occhiali scuri avvolgenti, con le lenti a specchio. Immaginavo che dietro ci fossero occhi azzurrissimi, come altri che avevo visto da lontano, benché non avessi mai avuto occasione di incrociare il suo sguardo. Concluse le sue faccende, prima di andarsene, Mr Jack passava sempre negli alloggi del comandante Sabir. Quelle visite si protraevano fino a tardi e attraverso i muri sentivamo le loro risate, il genere di risate per cui era necessario scolarsi una bottiglia. E così Mr Jack arrivava di notte e se ne andava di notte.

Qualche giorno dopo essere tornati da Gomal, mentre mi avviavo a fare colazione, notai la Hilux di Mr Jack. Non c’era nulla di strano, se non che proprio lì accanto fosse parcheggiata quella di Atal. Mi ricordai la sensazione della sua mano floscia e unta nella mia. L’idea che si immischiasse dei fatti nostri mi infastidiva. Mettendomi in fila per la colazione, sentivo contorcersi la mente e lo stomaco.

In mensa, Naseeb se ne stava rigido accanto alla porta. Teneva d’occhio il cibo. Era la sua punizione per aver perso le tracce del riso e dei fucili trovati nelle mani degli uomini di Gazan. In totale, passava quasi sei ore al giorno in piedi. Sul lato destro del mento sfoggiava un gonfiore bluastro, risultato di un colloquio in privato con il comandante Sabir.

Passandogli davanti, in fila, lo salutai con un cenno. Nonostante il disagio, mi regalò un sorrisone che mise a dura prova il suo mento dolorante e gli fece scendere un rivolo di bava dall’angolo destro della bocca. Ammiccò e si tamponò con un fazzolettino di carta. Mi sorrise di nuovo e di nuovo ammiccò. Non era uno che imparava in fretta, e ne pagava le conseguenze.

Mi presi il mio tempo per mangiare il naan con un quorma di porri e patate che avevo sul vassoio, quindi mi avviai al parcheggio. Tre giorni di pattuglia in mezzo alle montagne avevano lasciato il segno sui veicoli. Dal nostro ritorno, tutti gli uomini dello Special Lashkar avevano passato lunghe ore a sostituire pneumatici, pastiglie dei freni e perfino un paio di cambi rotti.

Quando arrivai, Mortaza, Tawas e Yar stavano già togliendo il cerchione ammaccato da una ruota che per il resto era ancora buona. Con un grugnito, Mortaza infilò il cric nello spazio tra la gomma e il metallo. Poi si alzò. «Aziz, sei molto gentile a farci compagnia», disse.

«Ti ho riservato un compito speciale», aggiunse Yar. «Apri lo scarico e sostituisci l’olio.»

Era un compito ingrato e probabilmente, stappando il serbatoio sotto la Hilux, mi sarei fatto una doccia di olio caldo. Mi sdraiai sulla schiena e infilai le spalle sotto il telaio. Sopra di me le chiacchiere continuarono.

«Di chi è la macchina parcheggiata vicino a quella dell’americano?» chiese Tawas.

«È di Atal», rispose Mortaza. «Quello che aveva la casa grande, a Gomal.»

Sotto la Hilux, mentre svitavo lentamente il tappo caldo, gridai ai miei amici: «Mi chiedo se questi incontri tra Atal e l’americano porteranno qualcosa di buono».

«Non porteranno niente», ribatté Mortaza. «Secondo Issaq gli americani lo pagano bene per le sue informazioni. Pensate che sia vero?»

«Per forza», dissi. «Altrimenti come si spiega che abbia una casa tanto lussuosa e che il mattino della shura avesse cose più importanti da fare?»

Yar mi diede un calcio sui piedi, che spuntavano da sotto l’auto. «Si può sapere cosa ve ne importa?» domandò. «Non avete lo stomaco pieno? Non avete un posto caldo dove dormire? E, Aziz, tuo fratello non è all’ospedale? Finché ci assicurano tutto questo, cosa fanno l’americano o Atal non sono affari nostri, e nemmeno del comandante Sabir.»

La conversazione ebbe termine; continuammo a lavorare.

Un proverbio che avevo imparato alla madrasa diceva: Quando l’uomo senza amici passa oltre il luogo profondo, cos’avrà da temere? Yar era passato oltre da molto tempo. Aveva lasciato nel luogo profondo le sue domande e i suoi dubbi e non avrebbe tollerato i nostri.

Avvitammo bulloni finché il sole del tardo pomeriggio allungò le ombre. «Basta così», gridò Yar, e cominciammo a riporre gli attrezzi. Mi bloccò. «Tu no, Aziz. Sei arrivato tardi, pulisci. Ci vediamo a cena.»

Mortaza e Tawas scoppiarono a ridere lasciando cadere ai miei piedi le chiavi inglesi, le spazzole di ferro e gli asciugamani di carta. Raccolsi gli attrezzi e me li strinsi al petto. In quella, vidi Atal. Stava attraversando il parcheggio a testa alta, in segno di amichevole disprezzo per tutto e tutti quelli che lo circondavano. Mentre camminava, accarezzava il lembo sciolto del turbante immacolato. Trasudava fiducia in se stesso. Qualche passo più indietro, lo seguivano la ragazza, Fareeda, e lo spingari Haji Jan. L’hijab di Fareeda era teso sulle guance. I capelli neri non si vedevano e il viso era stretto nella morsa del dolore. Teneva sotto braccio Haji Jan, le cui gambe erano arcuate come la forcella del pollame. Barcollava punzecchiando il terreno davanti a sé con un bastone che sembrava una semplice radice strappata di un pino. Non avrei saputo dire quale dei due aiutasse l’altro.

Rimasi davanti alla loro Hilux, impietrito, con gli attrezzi in mano. Vedere quei tre mi sembrò un’indecenza, ma non sapevo perché. Li osservai avvicinarsi, mentre il profumo di Atal trafiggeva l’aria.

«Ah, as-salam alaykum. Sei Aziz, vero?» disse Atal.

Annuii.

«Fareeda, ti ricordi del nostro amico?» disse alla ragazza.

Lei mi lanciò un’occhiata e il suo viso, appena alzò lo sguardo, si contrasse in una smorfia.

«Povera bambina», disse Atal. «Sono venuto a prendere la medicina per la sua malattia. Spesso ha dolori fortissimi.»

«Presto si allevieranno», disse lei, e in quel momento vidi la boccetta di pillole che aveva in mano.

Haji Jan si rivolse ad Atal, ma a voce abbastanza alta perché sentissi anch’io: «Sarà meglio che la ragazza torni al vecchio rimedio, pur di stare alla larga da questo posto».

Sputò uno spruzzo ramato di succo di tabacco attraverso l’apertura lasciata da due denti caduti.

Atal mi mise una mano sulla spalla. «Come vanno le cose?» mi chiese. «Ho sentito che la shura di Sabir non è andata bene. Mi dispiace.»

Senza darmi il tempo di rispondere, Haji Jan piantò il bastone in mezzo ai miei piedi. Mi agitò un dito davanti al naso e disse: «Quel cane di Sabir e i grand’uomini come lui causano tutte le sofferenze di questo mondo, con le loro idee».

«Io sono solo un soldato», ribattei.

Mi voltai e riposi alcuni attrezzi in un cassone. Atal schioccò le labbra rivolto a Haji Jan, che fece un passo indietro. «Insomma, non è questo il modo di parlare», disse a entrambi. «Un soldato desidera la pace più di tutti gli altri. Ma devi sapere, Aziz, che le cose sono molto peggiorate. Non posso nemmeno lasciare sola Fareeda, è rischioso.»

«Nessuno è più al sicuro al villaggio», disse Haji Jan. «Né io né Atal, ma soprattutto la ragazza.»

«I dolori non significano che io sia indifesa», disse Fareeda. Lo sforzo di parlare le levava il fiato.

Haji Jan scosse la testa in segno di disprezzo per tutti noi. Atal prese la mano buona di Fareeda e la baciò. «Sei sempre stata una ragazza coraggiosa», disse. Lei mi guardò: gli occhi erano inghiottiti dalle pupille; ripensai alle sue dita che rigiravano la pallina di oppio e sentii che il contrasto tra il bianco dell’occhio e il nero delle pupille ora mi turbava come quando avevo visto i suoi abiti sollevati e il contrasto tra la morbida pelle nuda e la dura carne della sua deformità. La desiderai di nuovo con un’intensità selvaggia. Credo che l’avesse capito, perché allacciò il braccio buono a quello di suo zio. Però non aveva paura. Si stringeva a lui come se avesse cominciato a dirgli addio.

Atal fece una risatina. «Vieni, tesoro, adesso basta», disse. «Dobbiamo metterci in viaggio.» Poi si rivolse a me: «Spero che finiate quelle riparazioni, così potrete tornare a farci visita». Mi porse la mano in segno di amicizia. Rigirai i palmi unti di grasso al cielo, come in un gesto di preghiera, e fui contento di avere una scusa per evitare di stringere quelle dita ben curate. «Ma certo. Tante buone cose, Aziz», mi disse.

Si mise al volante della Hilux, mentre Fareeda salì dall’altra parte. Feci il giro per andare a chiuderle la portiera. Così le sfiorai il braccio morto e ne sentii i duroni sotto lo scialle. Lei non ci fece caso, era insensibile in quel punto. Fu un contatto rubato.

Uscirono dalla base a tutta velocità, in gara con il sole del tardo pomeriggio. Trovarsi sulla strada del Nord di notte era diventato pericoloso.

 

 

Finii di riporre gli attrezzi nei cassoni di compensato e attraversai la base, diretto alla baracca. Quando ci arrivai, la trovai vuota. Tutti erano a mangiare. Quella sera non avevamo in previsione di lavorare, quindi mi presi il mio tempo per ripulirmi. Nella doccia, mi sfregai le mani finché le unghie non cominciarono a sfaldarsi sotto l’acqua calda. Ma per quanto sfregassi, il grasso mi macchiava ancora i palmi lessati di un nero sbiadito. Infilai un’uniforme pulita e andai in mensa. Camminare da solo sotto il mantello della notte era un piacere che superava quello di un buon pasto.

Feci il giro lungo sperando di imbattermi nel comandante Sabir. Ero ansioso di sapere quando sarebbe venuto Taqbir, magari portandomi notizie di Ali. Speravo che nei mesi trascorsi dall’inverno mio fratello si fosse rimesso in forze, che i miei sacrifici fossero serviti ad alleviare le sue sofferenze in ospedale. In più ero ansioso di sapere quando saremmo tornati a Gomal, perché volevo rivedere Fareeda. Nonostante le mie giornate fossero riempite dai doveri di soldato, i miei pensieri non si allontanavano mai da mio fratello e da lei. Quando pensavo a loro, pensavo alle loro sofferenze e provavo un disperato bisogno di salvarli. Alla lunga tutto ciò era stancante, e amarli in quel modo era complicato; del resto, mi domandavo se fosse possibile amare qualcuno che non si stava cercando di salvare.

Attraversai l’area di atterraggio degli elicotteri e passai accanto alla baracca HESCO in cui alloggiavamo da reclute. Non sarebbe arrivato nessun altro fino all’inverno. Nella stagione dei combattimenti non c’era tempo per addestrare nuovi soldati. Naseeb usava la vecchia baracca come magazzino. Mentre eravamo in missione, era arrivato un volo di approvvigionamento e bancali di riso, munizioni e carburante erano rimasti all’aperto. Il carico aspettava ancora di essere stoccato. Naseeb, oberato di lavoro e vessato com’era, non l’aveva nemmeno sfiorato. Con una gestione dei rifornimenti così lacunosa non c’era da meravigliarsi che le nostre scorte finissero nelle mani di Gazan. Non ci sarebbe voluto niente a nascondere un paio di sacchi di riso o una cassetta di munizioni in uno dei binjo o dei pick-up che uscivano ogni giorno dal nostro cancello per i motivi più svariati.

Mr Jack aveva spostato la macchina, portandola vicino alla capanna in fondo alla base, dove teneva le sue riunioni. La luna si rifletteva sulla Hilux nera, mentre l’ombra di Mr Jack, che camminava avanti e indietro nella capanna, attraversava la porta illuminata. L’idea dell’americano biondo che tesseva le sue trame, dopo l’incontro con Atal, non mi dava pace.

Entrai dalla doppia porta della mensa e strizzai gli occhi per via della luce troppo forte. Naseeb era ancora all’ingresso. Mi misi in coda accanto a lui. La maggior parte dei soldati aveva finito di mangiare. Sedevano, storditi e con la pancia piena, su file di panche. I cuochi mi servirono la mia porzione di riso unto e manzo filamentoso e mi diedero una Fanta. Avrei preferito sedermi per conto mio, ma Yar mi fece segno di raggiungerlo al tavolo dove stava mangiando il resto del plotone.

Mi sedetti con loro, buttandomi sul cibo per evitare di chiacchierare; volevo continuare a godermi la mia solitudine e il riposo. Anche se non faceva parte dei Tomahawk, Qiam era con noi. Tawas gli aveva messo un braccio sulla spalla. Si scambiavano pettegolezzi sulle operazioni a venire.

«Batoor ha detto ai Comanche che per un po’ staremo alla larga da Gomal», sussurrò Qiam. «Sostiene che gli lasceremo il tempo di godersi la protezione di Gazan.»

«Cosa faremo, se non possiamo costruire l’avamposto?» chiese Mortaza.

«Batoor dice che metteremo dei posti di blocco sulla strada del Nord e faremo morire di fame gli abitanti finché non cambieranno idea», spiegò Qiam. «Allora avremo il nostro avamposto.»

Yar schioccò le labbra prima di parlare. «Ci saranno dei posti di blocco. L’ho sentito anch’io. Ma non ridurremo degli innocenti alla fame. Serviranno solo a scoprire chi ha trafugato le nostre scorte e le ha fatte avere a Gazan.»

Tutti annuirono a quell’idea.

«Forse oggi Atal è venuto per parlare dei posti di blocco», dissi.

Yar mi squadrò.

«Atal non ci riguarda», rispose. «Certe cose non si devono sapere e chi cerca di scoprirle si rende ridicolo.» Tutti annuirono, non necessariamente perché concordavano, ma in riconoscimento dell’autorità di Yar. Lui aggiunse: «Atal è un cane e Mr Jack è il suo addestratore. Basta strattonare il guinzaglio per farlo guardare dalla parte giusta».

Yar sfregò le tre dita della mano monca, a scimmiottare la smania di denaro di Atal. Se erano i soldi che voleva, era ovvio che vendesse informazioni a Mr Jack. Lui i soldi li aveva. Finanziava anche lo Special Lashkar e in base allo stesso criterio anche noi in qualche modo gli appartenevamo. Quando mangiavamo il cibo procurato dagli americani, nessuno di noi sembrava poi così diverso da Atal. Il sospetto che nutrivamo nei suoi confronti, la lealtà che ci legava o l’odio che provavamo per Gazan, tutto sembrava contare ben poco in confronto al pasto che avevamo nel piatto e a quello dell’indomani.

Il gruppo sarebbe rimasto seduto in mensa a chiacchierare del più e del meno finché il sonno non avesse avuto la meglio. A quel punto tutti sarebbero tornati barcollanti alla baracca. Io mi scusai e portai il mio vassoio con i piatti alla finestra della cucina, dove Naseeb si era messo al lavoro, con un grembiule macchiato di unto, al lavello. Gli passai i resti del mio pasto e lo ringraziai.

«Figurati, di niente», rispose.

«Ti tocca pulire tutto? È una punizione severa.»

«Non sta a me contestare.»

«Gli uomini di Gazan hanno fatto una mossa pericolosa, usando le nostre vettovaglie e le nostre armi contro di noi», dissi.

«È così che funziona. Noi rubiamo a loro e loro rubano a noi.»

«Tu però non ci hai guadagnato.»

«Certo, ma se non fossi qui, sarei messo peggio», ribatté. «Come te, del resto.»

«Sì», concordai, sottovoce.

Naseeb tornò a chinarsi su una pila di piatti e a sfregare. Ogni passata sembrava arrossargli gli occhi e togliergli colore dal viso paffuto. Gli altri cuochi erano appoggiati ai lavabi e ai fornelli, a spettegolare.

 

 

Uscii e mi sedetti su un tavolo di legno accanto al muro posteriore della mensa. La notte era fredda, ma non ci facevo caso. Volevo stare da solo, in silenzio. Appoggiai i piedi sulla panca davanti al tavolo e mi chinai sulle gambe per riscaldarmi. Con i piedi sollevati da terra, il freddo non riusciva a penetrare negli stivali. Affondai le mani nelle tasche e restai a fissare una striscia lattea che attraversava il cielo notturno. Pensavo a mio fratello, lontano, all’ospedale, sdraiato sulla schiena in balia di Taqbir e del direttore con il pancione e la pelata sudata. L’idea era snervante ma, come Atal, il direttore era motivato dal denaro: una motivazione semplice, diretta e, nella sua semplicità, affidabile.

Se uomini come Atal erano corrotti, lo ero anch’io. Combattevo per denaro. Finché avessi fatto il soldato e la mia paga fosse andata all’ospedale, mio fratello sarebbe stato curato. La mia guerra era semplice e onesta. L’unica causa per cui combattevo era quella della sopravvivenza. Avevo ucciso per denaro? Forse. Forse era stato uno dei proiettili della mia mitragliatrice a uccidere l’uomo sul crinale della montagna, qualche giorno prima. Non avevo niente contro di lui. Se l’avevo ucciso, era stato per soldi. Atal vendeva informazioni a Mr Jack e i soldi gli servivano per prendersi cura di Fareeda. Era corruzione, quella? Certo, quei soldi gli avevano procurato anche una grande casa, un generatore e la Hilux. Eppure chi è davvero corrotto fino al midollo ha motivazioni inaffidabili, mentre i soldi sono una delle più affidabili.

I miei occhi si adattarono alla notte. A poco a poco davanti a me si delinearono il parco macchine, le baracche e gli alloggi del comandante Sabir. I soldati uscivano alla spicciolata dalla mensa. Nessuno di loro si accorgeva di me, seduto sul tavolo. I loro occhi non si erano adattati al buio, per cui incespicavano verso i letti.

La porta del comandante Sabir si spalancò. Nella notte fredda si levò un tiepido fumo di tabacco. Uscirono i capi dei plotoni, Issaq e Batoor, talmente rossi in viso da sembrare gonfi. Le loro parole rimbombavano ebbre. Fra i due comparve il comandante Sabir, che sbadigliò rivolto al cielo, con una sorta di silenzioso ruggito. Prese dal taschino della manica un pacchetto di Marlboro rosse e ne accese una.

Parlò Issaq, con voce piatta: «Dacci una settimana prima dei posti di blocco».

Nonostante la cagnara, era in corso una negoziazione.

«Due giorni», disse il comandante Sabir.

«Ma... i mezzi!» insistette Issaq, arrabbiandosi.

Batoor gli mise una mano sulla spalla. «Abbiamo abbastanza tempo», disse.

«Due giorni», ribadì il comandante Sabir.

Issaq si passò le dita fra i capelli tinti con l’henné. Annuì. «Sì, è abbastanza.»

Mr Jack stava attraversando la base. Nel buio della notte il comandante Sabir e i capi dei plotoni non lo notarono. Siccome non portava gli occhiali, mi sforzai di scorgere i suoi occhi, senza riuscirci. Volevo vedere l’azzurro che avevo immaginato. Aveva il passo pesante e il suo viso pieno suggeriva che non avesse mai dovuto preoccuparsi della fame. In una mano teneva, per il collo, una grossa bottiglia scura, nell’altra un sacchetto di carta marrone.

Si avvicinava lento. Quando fu sulla soglia, il comandante Sabir lo vide. Batoor e Issaq lasciarono cadere la conversazione a metà e tornarono barcollanti alle baracche. Io rimasi seduto sul tavolo, immobile, tutto rannicchiato, pregando che non si accorgessero di me. Mr Jack allungò la bottiglia. «Maakhaam pa kheyr, comandante Sabir», disse.

«Buonasera a te», rispose lui. «Alla fine ti sei deciso a venirmi a trovare.»

«Rilassati, beviamoci un bicchiere», disse Mr Jack.

«Ogni volta che porti quel cretino di Atal nella mia base è come se mi insultassi», sbottò il comandante Sabir. «E adesso vorresti che ci bevessimo un bicchiere tra amici?»

«La tua base?» ribatté Mr Jack. «Sono io che copro i costi, Sabir, fin da quando James ha scacciato Hafez da qui. Com’è andata l’operazione a Gomal? In sa Allah, la stagione di combattimento sarà buona.»

«In sa Allah? Vaffanculo, tu e in sa Allah», disse il comandante Sabir. «I tuoi traffici con Atal non facilitano le mie operazioni.»

Mr Jack puntò il dito in faccia al comandante Sabir. «Io lavoro con chi voglio, quando voglio. Non te lo dimenticare», disse, poi continuò con tono cantilenante: «Khapal kaar saray kaar lara. Che la mente di ciascun uomo si volga ai propri affari».

Il comandante Sabir schioccò le labbra. «Izzat kawa izzat ba dey kegi. Chi rispetta viene rispettato», disse, scuotendo la testa. Spense la sigaretta sulla suola dello stivale e lanciò il mozzicone oltre la spalla di Mr Jack. «Con uno come Atal è meglio non avere niente a che fare. Quando voi americani venite ingannati, uccisi dal fuoco amico proprio dai soldati che avete addestrato, o magari nemmeno, la colpa è sempre di quegli afghani che di mestiere mettono tutti contro tutti. Atal è uno di loro», aggiunse.

«Mi sembra che il quadro ti sia fin troppo chiaro», ribatté Mr Jack. «Quindi i miei contatti con lui sono un problema?»

Fu allora che, alla luce della porta, intravidi gli occhi di Mr Jack. Erano sbiaditi come se la polvere, le montagne e la guerra gli avessero tolto l’azzurro. Quegli elementi davano colore ai nostri occhi, ma sembravano averlo tolto ai suoi. Il comandante Sabir guardò in quegli occhi per un lungo istante e poi disse: «No, nessun problema, capo».

«Okay», disse Mr Jack, annuendo. «E adesso beviamo.»

Gli porse la bottiglia di whisky, offrendogliela intera, ma il comandante Sabir la allontanò con la mano. Non voleva nulla da Mr Jack, almeno non in quel momento.

«Va bene, Sabir», disse Mr Jack. Infilò la mano nel sacchetto di carta marrone. Ne tirò fuori un barattolo di mangime per i pesci. «Però questo ti serve, per Omar», aggiunse.

Era stato Mr Jack a regalare al comandante Sabir il suo pesce rosso, Omar, qualche anno prima. Come tutti i suoi regali, aveva uno scopo ben preciso. Più avanti Naseeb mi avrebbe raccontato che secondo Mr Jack un po’ di compagnia avrebbe mitigato alcuni degli impulsi più oscuri del comandante Sabir, ma nessuno di noi avrebbe saputo dire se avesse funzionato. Omar aveva un’aria minacciosa. Gli mancava un occhio e al suo posto c’era un’orbita liscia e vuota. Quell’aria minacciosa aveva ricordato al comandante Sabir il mullah con un occhio solo, Mohammed Omar, il leader esiliato dei talebani. Gli americani gli davano la caccia da anni, invano, mentre l’Omar del comandante Sabir nuotava in circolo nella sua boccia di vetro.

Sabir strappò di mano a Mr Jack il barattolo di mangime e lo aprì. Ne saggiò l’odore, portandosi al naso le scaglie di larve, insetti e lombrichi liofilizzati. Annuì con apprezzamento non solo per il mangime, così pareva, ma anche perché era fresco. Preso il cibo di Omar, e nient’altro, tornò nei suoi alloggi e si chiuse la porta alle spalle.

Mr Jack rimase solo con la sua bottiglia, nella notte. Si voltò e la lanciò in aria, riagguantandola per il collo. Poi si diresse con passo incerto, al buio, alla sua capanna. Non appena fu scomparso alla vista, corsi alla baracca.

 

 

La mattina dopo attraversai la base per andare in bagno. Nell’aria fredda dell’alba saliva fumo di legna dalle stufe di ogni edificio, ma non dalla capanna di Mr Jack. La sua Hilux nera era sparita.