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Florissa e Fiorellino
Aveva pensato di portarsi l’agente Ferlin, ma decise di andare solo. Non gli andava un viaggio accompagnato da chiacchiere, per lo più inutili.
Prima di salire sul fuoristrada, Marco diede un’occhiata al cielo. Verso ponente salivano lente le nuvole. Non sembravano portare pioggia.
«Meglio così» si disse.
Non era comodo viaggiare sulle strade disastrate della montagna assieme alla pioggia.
Per tranquillità rientrò e indossò una giubba di tipo militare, lunga fino al ginocchio, con molte tasche e un cappuccio nascosto sulla schiena che, all’occorrenza, gli sarebbe stato utile.
Una carrareccia sassosa, buona solo per scassare le sospensioni, portava a Purgatorio, ma il fuoristrada non aveva paura di niente. O così sperava Gherardini. Andava su ch’era un piacere.
Già di lontano l’ispettore vide segnali che Florissa abitava ancora a Purgatorio.
Intanto per l’orto. Ben tenuto con un riquadro di radicchio, i tutori per le piante di pomodoro e di fagiolini, le ramificazioni delle piante di zucchine.
La porta di casa era spalancata e alcune galline vi razzolavano davanti.
Poco discosto, un paio di caprette mangiavano erba in uno spazio recintato alla meglio con nastro di plastica bianco e rosso, usato per le segnalazioni stradali, che chissà dove e come Florissa avesse trovato.
La ragazza non aveva sempre abitato a Purgatorio. Al suo arrivo, cinque anni prima, aveva vissuto con gli elfi di Pastorale. Era rimasta incinta e, dopo partorito, aveva lasciato il gruppo. Non aveva mai spiegato il motivo. Neppure a Poiana, che considerava un amico e che le aveva dato più d’una mano.
Assieme alla piccola si era sistemata a Purgatorio, un casolare abbandonato sul Monte Paradiso, molto più giù da dove iniziava la scalinata che portava alla cima, e viveva di quello che riusciva a produrre o le offriva la natura: mirtilli, fragoline, lamponi, funghi…
Oltre all’orto e a qualche gallina, aveva un paio di capre che le davano latte per formaggi e ricotta da rivendere in paese nei giorni di mercato, assieme ai prodotti del sottobosco. Insomma, se la cavava.
Appena il fuoristrada si fermò nell’aia, il pollame schiamazzò via sbattendo le ali e alla porta si affacciò Florissa.
Come sempre era vestita alla meglio, piedi scalzi e capelli che uscivano di sotto un fazzoletto annodato sulla nuca e scendevano lunghi e incolti sulle spalle.
Teneva per mano la piccola Fiorellino, nome da maschietto, ma a lei andava bene così.
Riconobbe il veicolo della forestale, si preoccupò e, lenta, andò incontro a Marco sceso dal fuoristrada.
«Che ci fai qui, Poiana?» chiese preoccupata.
Marco non rispose. Guardò Fiorellino e le sorrise. «La piccola cresce bene. Quanti anni ha già?»
«Quattro, ma perché sei qui? Qualche problema per me?»
«Nessun problema, Florissa. Avevo voglia di vederti, sapere come state tu e la piccola…»
Florissa si rilassò, si chinò a baciare la figlia e s’avviò per rientrare. «Andiamo dentro. Oggi è caldo anche qui, vuoi bere?»
L’ispettore la seguì senza rispondere.
In casa non c’era molto. Alcuni vecchi mobili lasciati dall’ultimo abitante che se n’era andato chissà quando; sul pavimento accanto al camino, una gorgola di giunchi intrecciati, servita un tempo per il trasporto del fieno e che ora serviva per la legna; un vecchissimo lavello di sasso lucido per l’uso che scaricava la lavatura dei piatti subito fuori dal muro, a cielo aperto; sul piano del lavello, un tegame di terracotta coperto con un foglio di carta gialla e probabilmente pieno di latte bollito e con uno spesso strato di panna gialla; in un angolo, alcune ceste contenenti bacchetti e carbonella per il fornello di ghisa posato sul davanzale della finestra e con il quale Florissa cuoceva da mangiare e riscaldava il latte per la piccola; sul tavolo, un piatto con dentro lamponi; sopra il lavello pendeva un mestolo di rame…
Insomma, una situazione della quale Poiana aveva un vago e lontano ricordo, sepolto nella sua infanzia e proveniente forse dalla casa del nonno. Ricordo che tornava ed era lì, di nuovo reale e quasi lo commuoveva.
«Come va?» chiese.
Florissa mormorò qualcosa all’orecchio della piccola che sgambettò via e uscì nell’aia.
«Com’è diventato grande il tuo Fiorellino.»
«È una femmina, Poiana, non te lo ricordi?»
«Lo so. Dovresti cominciare a farle vedere il mondo a questa tua piccola, non credi?»
La domanda preoccupò di nuovo Florissa. «Sei qui per questo? Per lei?»
«No, te l’ho detto. Stai tranquilla. Lo dico solo perché la piccola cresce e ha bisogno di stare con altri…»
«Ci ho pensato, ma non so dove andare. Qui ho la mia casa…»
«Ci sono altri elfi, lo sai, altre possibilità di case. Hanno dei bambini…»
«Ci stavo con loro, ma…» Non finì.
«Le cose sono cambiate e con loro vi trovereste bene, tu e lei.»
Tranquillizzata, la ragazza disse: «Ho del latte di capra appena munto, ne vuoi un bicchiere?».
«No, grazie, ho fretta. Hai visto qualcuno da queste parti?» Florissa negò col capo. «Te lo ricordi Adùmas?» Lei annuì. «Non si è visto?»
Sì, Adùmas si era visto. Due giorni fa. Era arrivato verso sera, aveva mangiato qualcosa che lei gli aveva offerto e più tardi era andato a dormire nel fienile.
«Oh, guarda che gli avevo offerto di dormire in casa, su un materasso che tengo per chi passa da queste parti. Non c’è stato verso. Quando mi sono alzata, Adùmas non c’era più. Non ha preso neanche un bicchiere di latte.»
Un altro viaggio inutile. Aveva capito come si muoveva Adùmas, ma era destino che arrivasse in ritardo.
Al ritorno, il cielo si era completamente coperto di nuvole chiare e s’era alzato un vento che le stava strapazzando qua e là.
«Bella giornata per andare in giro. Il vecchio matto si stancherà, prima o poi.»
Pensò di chiamare in caserma, nel caso ci fossero novità. Continuava a credere, o a sperare, che Adùmas si sarebbe fatto vivo.
Naturalmente niente campo. Normale, fra quei monti. Borbottò:
«Il cellulare: una bella comodità» e controllò l’ora. Le dieci. «Almeno serve per l’ora.»
L’appuntamento era agli Stabbi per le undici. Ce l’avrebbe fatta comodamente.
Comodamente per dire. La passeggiata sarebbe stata lunga e il sole cominciava a fare sul serio.
«Finirà ’sta storia.»
Sul fuoristrada arrivò fin dove riuscì.
Dal sedile posteriore prese la cartella con le nuove foto, quelle scattate nella sala delle autopsie, e imboccò il sentiero.
Pensò a quando non era un obbligo mettersi in un sentiero, a quando era un gioco avventuroso. Sognò di poterlo rifare. Forse presto, considerata la situazione della forestale.
«Spero di arrivare alla fine di ’sta storia prima che la forestale scompaia dalla faccia della terra. E da questi posti.»
Ma doveva far presto. Non gli lasciavano più tanto tempo.
Il sentiero era abbastanza sgombro. Grazie anche agli elfi.
Per mancanza di utilizzo, stavano scomparendo sentieri che erano stati l’unico collegamento fra borghi o case isolate e il paese. Per secoli. Molti, divorati dai rovi, esistevano ormai solo nelle vecchie mappe.
Arrivati gli elfi, gli antichi sentieri erano tornati utili e avevano ripreso a segnare i boschi e la montagna.
Una sensazione piacevole.
Si accorse che il pensiero per la ricerca di Adùmas si era rintanato in un angolo nascosto della sua attenzione.
Rintanato!
Il vocabolo gli ricordò qualcosa: «Andrò a controllare» si disse.