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Morto il 12 giugno

«Siedi lì che ce lo beviamo assieme» disse l’ispettore al suo agente. E mentre Ferlin, dopo avergli servito la tazzina, sedeva e si apprestava a zuccherare la sua, Gherardini si girò per guardare il cartello che, appeso alla parete alle sue spalle, vietava il fumo nei locali pubblici.

Accese ancora una sigaretta. Un’altra la offrì al giovane. «Visto che anche i magistrati non ottemperano al divieto…» si giustificò.

«Piuttosto arrabbiata, la Frassinori» commentò Ferlin. «Cosa le hai fatto?»

«Io niente. Ha fatto tutto lei.»

In silenzio finirono di bere e fumare e quando l’agente stava per chiudere la porta portandosi via le tazzine vuote e il vassoio, «Lascia aperto» disse Marco.

Non gli erano mai piaciuti gli spazi chiusi.

La visita e il tono della dottoressa Frassinori non lo avevano turbato. I suoi problemi erano altri. Primo fra tutti: che ne sarebbe stato di lui, ispettore Gherardini Marco, detto Poiana, fra sei mesi. Da quando, cioè, la forestale sarebbe stata accorpata ai carabinieri.

Non lo sapeva ancora. Sapeva però che, se le indagini sul misterioso giovane trovato morto in fondo al grotto, nei boschi di Casedisopra, si fossero trascinate, se ne sarebbe occupato qualcun altro. E la Frassinori avrebbe dovuto prendersela con il maresciallo Barnaba. Sempre che il corso di aggiornamento si fosse concluso. Con quali risultati, Marco non riusciva a immaginarlo.

«Per fare un buon forestale ci vogliono anni» borbottò.

Aprì la voluminosa busta, la rivoltò sulla scrivania e subito uscirono le foto. Formato A4 e molto più chiare di quelle che aveva scattato lui. Ovviamente il viso era di un cadavere. Era stato pulito accuratamente e vi si leggeva la giovane età.

Si dedicò al referto dell’autopsia.

Scorse poche righe e chiamò: «Farinon!».

Il nominato si presentò e si trovò davanti alcune foto del cadavere. «Molto più giovane di quanto immaginavo» disse.

«Siedi e ascolta.»

Lesse a voce alta e alla fine delle cinque pagine chiese al sovrintendente: «Che ne dici?».

«Dico che le cose non cambiano di molto: sempre di incidente potrebbe trattarsi.»

«Sono d’accordo. Mettiamo che l’elfo se ne stesse andando a caccia con il fucile fra le mani. Scivola, rotola giù nel grotto, partono i due colpi in canna, lui si spezza l’osso del collo. Amen.»

«Se i fatti sono andati come la metti tu, noi troviamo il fucile e amen» confermò Farinon. «E se lo troviamo, la sua misera fine non cambierà, anche se, una settimana prima di crepare, avesse fatto a botte con qualcuno.»

«Sì, dovremmo però trovare almeno con chi ha fatto a botte. Se no, che racconto alla Frassinori?»

Farinon si alzò. «Per adesso andiamo a vedere se troviamo l’arma.»

«È tardi. Domattina presto. Con il sole radente ci si vede meglio. E vorrei che partecipasse anche l’Arma dei carabinieri.»

Il sovrintendente stava per andarsene. Si fermò. «Motivo? I carabba sono più bravi di noi?»

«Tu cosa dici?»

«Dico di no.»

«Sono del tuo parere.»

«Allora, a che ti servono i carabinieri?»

«Lo sai, lo diventeremo tutti. Metti che le indagini si trascinino a lungo… Cominciamo a prendere confidenza con l’Arma.»

«Non è il mio massimo.»

«Neppure il mio. Avverti tu il Gaggioli per domattina presto?»

Farinon non disse né sì né no. Salutò con un cenno e lasciò l’ufficio dell’ispettore.

Prima di smontare Gherardini controllò la data della morte dell’elfo, che il medico legale aveva stabilito essere avvenuta il 12 giugno. Per il giorno non aveva avuto dubbi. L’ora del decesso era rimasta vaga: fra le dodici e le diciotto. Sarebbe stato più preciso se avesse potuto controllare la situazione ambientale.

Avevano riempito la piazza, occupandola con le loro cianfrusaglie, i colori degli abiti e i canti e i suoni di strani strumenti. Molte lampade a GPL illuminavano tappeti stesi sul selciato e coperti di barattoli e vasetti e mazzolini di fiori secchi e chissà che altro.

Le lampade a fiamme libere illuminavano i muri scrostati e vi stampavano ombre e movimenti. Solo Palazzo Guidotti, dimora della famiglia omonima, non era sfiorato da quel riverbero. Se ne stava di poco a monte della piazzetta, quasi risentito per l’inusuale e plebeo clamore, e la massiccia mole incombeva sul paese proiettando attorno l’impressione di un timore che i tanti stemmi d’arenaria, applicati sulla facciata principale, contribuivano ad alimentare. Se pure corrosi dal tempo, illeggibili e testimoni inutili di una antica nobiltà.

A Casedisopra, come negli altri paesi, i villeggianti arrivano ormai solo il sabato e la domenica. Scarsi gli affari. Per tutti. La serie negativa proseguiva da un po’ troppi anni e l’umore di Benito ne risentiva. Sempre col muso scuro.

A gambe larghe sulla soglia della “Trattoria-bar”, com’era scritto sull’antica insegna inchiodata sulla porta, guardava come avevano ridotto la piazza davanti al suo locale. Non lo rassicurava l’animazione, anzi.

Vide Poiana avvicinarsi e gli andò incontro.

«Cosa pensate di fare, voi forestali?» lo assalì subito.

«In merito a cosa?»

Benito allargò le braccia a indicare l’intera piazza. «In merito a questi… a questi…»

«Elfi, si chiamano elfi. Non sei contento? Finalmente un po’ di gente, di giovani, di vita, di mercato…»

«Secondo me questi straccioni non spenderanno un centesimo» mugugnò. «Sono sporchi, puzzano e porteranno in paese pulci e malattie. Ci mancavano solo loro.»

«Tranquillo, arriverà altra gente che ti riempirà il bar. Se ne parla già sui giornali e siamo appena a due mesi dalla Festa dell’Arcobaleno.»

«Caro il mio Poiana, ci crederò quando vedrò con i miei occhi.»

«E con quali occhi vorresti vedere?» ed entrò nel locale.

Benito restò sulla porta e guardò ancora il giocoliere elfo che lanciava in alto e riprendeva al volo sei palline da tennis.

Dentro c’erano solo i paesani. Giocavano a carte e bevevano un bicchiere. I quattro, cinque villeggianti erano seduti ai tavolini fuori e osservavano con un misto di scetticismo e fastidio quanto andavano inventando gli elfi.

Adùmas, seduto dietro il dottor Antinori, medico del paese, guardava giocare a carte. In rigoroso silenzio. Gli altri al tavolino erano Peppe di casa Tornelli e Nedo della Valeria. Facevano coppia fissa. Compagno del medico era il Professore. Altra coppia fissa.

Il Professore, pensionato dopo una vita di insegnamento, aveva scelto di passare a Casedisopra il tempo che gli restava da vivere. Non aveva mai spiegato il motivo della scelta. Forse non c’era.

Amdi, immigrato, probabilmente clandestino, da chissà quale Paese, stava dietro il banco, assonnato.

C’era anche l’Adele. Spuntava di tanto in tanto, dalla porta della cucina, dava un’occhiata e tornava dentro.

Poiana toccò la spalla di Adùmas, che si voltò. Gli fece segno di raggiungerlo e andò a un tavolino, un poco distante dai giocatori. Per non disturbarli con le chiacchiere che voleva scambiare con Adùmas.

«Cosa bevi?»

Adùmas si rivolse direttamente ad Amdi: «Il solito».

«Lo stesso per me» aggiunse Poiana. Al compagno di bevuta disse: «Giorni fa ci sono stati due spari dalle parti dei Campetti…».

«Li ho sentiti, Poiana, ero da quelle parti.»

«Ne sai qualcosa?»

Amdi portò due bicchieri di vino. Solo dopo il primo sorso, Adùmas rispose con un’altra domanda: «In che senso?».

«Per esempio, chi ha sparato, a cosa e perché.»

«Pagherei per saperlo. Ho fatto un giro da quelle parti. Niente. Ho incontrato Paolino e gliel’ho chiesto. Niente anche da lui.»

«Dove lo hai incontrato?»

«Poco sotto i Campetti. Stava cercando Cornetta, sai, la sua capra.»

«L’ha trovata. Assieme a un problema piuttosto grosso» e posò sul tavolino alcune delle foto del morto scattate da Ferlin. Preferiva non mostrare quelle consegnategli dalla Frassinori. «Il problema è questo.» Aspettò che le guardasse e chiese: «L’hai visto in giro, parlare con qualcuno…».

Adùmas continuò a guardarle senza rispondere. Le radunò e le girò con l’immagine sul tavolo.

«Si sa com’è andata?» chiese poi.

Dalla piazza arrivarono gli accordi di una chitarra poi seguiti dal canto di una voce femminile. Gherardini fece segno di ascoltare, annuì a se stesso e si avviò per uscire. Passando accanto al banco: «Metti sul mio conto» disse ad Amdi.

Adùmas lo seguì e sulla porta del locale lo fermò. «Allora, si sa qualcosa o niente di quel poveraccio?»

«È una storia lunga e complicata.» In quel momento gli interessava chi stava cantando.

Era dall’altro capo della piazza, nascosta dalle persone che le avevano fatto cerchio attorno e l’ascoltavano. Altri elfi come lei e gente del paese, soprattutto ragazzi.

Voce gradevole, musicale, leggermente di gola, dava alle parole in inglese un calore particolare.

Ascoltò e alla fine della canzone prese la via di casa.

Adùmas lo aveva seguito e lo affiancò. «Chi è?»

«Una» rispose Poiana.

«Ho visto. La conosci? Ha a che fare con il morto?»

«Te l’ho detto: è una storia lunga e complicata.»

«Mi pare che la fai lunga tu. Ci vuole poco: un sì o un no…»

Poiana si fermò per accendere una sigaretta.

Adùmas accettò l’offerta.

Erano ormai fuori dalla piazzetta.

In piazza, la ragazza aveva attaccato un’altra canzone. Il canto arrivava debole ma chiaro.

«Canta bene, non trovi?» disse Poiana.

«Per quello che ne capisco io…»

«Già, a te interessano i pettegolezzi. Per andare in giro domattina a raccontare che ne sai più degli altri su quel povero ragazzo caduto nel grotto. A proposito: quand’è che abbiamo sentito i due spari?»

«Che c’entrano quelli? Gli hanno sparato?»

Gherardini si avviò e per un poco, il tempo di quattro, cinque tiri di sigaretta, nessuno dei due parlò. Fino al bivio che avrebbe diviso i due: Poiana a sinistra, Adùmas a destra, fuori dal paese. Si fermò:

«I due spari non c’entrano. Vorrei solo sapere chi va in giro a sparare quando non è tempo».

Adùmas ci pensò su un poco: «È stato… è stato mercoledì scorso».

«Se non sbaglio, ne avevamo 12.»

«Può darsi» disse Adùmas. «Non tengo il conto. Per me era mercoledì.» Tirò un’ultima boccata, schiacciò la cicca sui ciottoli, fece un cenno di saluto accompagnato da un «Buona» e si allontanò.

Fece pochi passi. «Non so se dirtelo o no.»

«Dire cosa?»

Adùmas tornò da Gherardini. «T’ho detto del mio incontro con Paolino dei Campetti.» Marco annuì. «Cercava la sua capra…» e sospese.

«Questo lo sanno tutti, ormai.»

«Cercava la sua capra, aveva il fucile in spalla ed era piuttosto arrabbiato con i puzzoni» e riprese la via di casa.

«Chi sarebbero i puzzoni?»

Adùmas rispose continuando ad allontanarsi. «Perché, tu non li senti a naso, quelli?»

«E gli spari?» gli gridò dietro Poiana. «Gli spari?»

Adumas si girò. «Gli spari… cosa?»

«Attorno alle sei del pomeriggio o sbaglio?»

«Attorno alle sei, sì.»

Mentre infilava la chiave nella serratura di casa, Gherardini mormorò: «È accaduto mercoledì 12 e io non ne so ancora niente».

Cominciava a dubitare della disgrazia.

Prima di chiudere fuori di casa la notte che arrivava, diede un’occhiata in giro. Lo faceva ogni sera. Un muto “Ci vediamo domani” alle sagome scure dei monti sopra il paese. O per assicurarsi che il suo mondo, almeno quello attorno a lui, fosse come l’aveva trovato la mattina, uscendo.