4
Ciò che resta di un uomo
Rientrarono tardi.
Ferlin mise la testa nell’ufficio dell’ispettore. «Io andrei a letto» disse.
«Anch’io ci andrei, ma c’è da completare il rapporto per la Frassinori e per il comandante. Ah, ti do un consiglio: prima di buttarti in branda, bevi un grappino. Ti aiuterà a dimenticare questa maledetta giornata.»
Per un poco Ferlin restò sulla soglia, indeciso come se avesse ancora qualcosa da dire. Entrò nell’ufficio e chiuse la porta. «Credo che cambierò mestiere. Non me la sento di trovarmi ancora in una situazione come quella di oggi.»
«Fatti coraggio che nei carabinieri sarà peggio.»
«Per questo vorrei il tuo consiglio prima di parlarne con Farinon.»
«Se avessi consigli da dare… Dormici su, Ferlin, dormici su che ne parliamo domani» e rilesse il rapporto che terminava così:
“Tutto ciò considerato, si ritiene presumibilmente che la causa della morte sia stata accidentale. Infatti il sentiero sovrastante il dirupo è particolarmente pericoloso e basta mettere un piede in fallo per perdere l’equilibrio e rotolare lungo un pendio alquanto ripido e precipitare per molti metri. Inoltre, probabilmente non essendo il deceduto di queste parti, non poteva essere a conoscenza della pericolosità dell’ambiente. Cinghiali e forse un lupo hanno poi infierito sul corpo mutilandolo in alcune parti. Tracce del loro passaggio sono state trovate sulla terra fangosa attorno al corpo e si possono notare nelle foto allegate”.
Alcuni particolari non lo convincevano, ma era tardi per tornare indietro e rimangiarsi quanto aveva raccontato sia al comandante che al magistrato.
«Domani con Paolino mi toglierò i dubbi» si rassicurò.
Portò la freccetta su invia e l’e-mail partì assieme al rapporto in allegato.
Non passò ad avvertire Gigi. Troppo tardi anche per un becchino.
Rincasò e si fece la doccia. Sperava di togliersi di dosso i resti di una giornata che non avrebbe voluto vivere. Non ci riuscì. Mentre cercava qualcosa da mangiare che non lo impegnasse troppo nella preparazione, ebbe l’impressione di sentire ancora nelle mani l’odore di muschio, e nell’aria della cucina l’umidità che impregnava il fondo del grotto.
Non c’era umidità in casa sua. Non c’era mai stata. E le sue mani non sapevano di muschio.
Mandò giù, assieme a mezzo bicchiere di vino, un boccone di pane con una fetta di prosciutto trovata nel frigo.
Prima di andare a dormire pensò che un bicchierino di grappa lo avrebbe aiutato ad addormentarsi, dopo quella giornata infame, come aveva consigliato a Ferlin.
Il mattino dopo all’alba l’ispettore passò da Gigi, il becchino del paese. Era un tipo che si alzava presto.
Gli spiegò cos’era accaduto, di cosa lo incaricava e di Ferlin che lo avrebbe accompagnato sul posto con il fuoristrada. Si raccomandò:
«Porta qualcuno che ti dia una mano. Ah, non ce la farai a portarlo su da dove lo troverai. Scendi lungo la valletta e troverai un vecchio sentiero. Di là lo porti quasi al fuoristrada.»
In ufficio fece una telefonata al comando perché mandassero a Casedisopra un carro funebre per il trasporto del corpo a Medicina legale per l’autopsia, come richiesto dalla Frassinori.
Andò tutto secondo programma: sul mezzodì, ciò che restava di un uomo era chiuso in un sacco di grossa plastica nera, depositato nella camera mortuaria del paese. Una camera mortuaria atipica essendo, in realtà e da sempre, la cripta esterna della chiesa parrocchiale. Un’anomalia, perché le cripte dovrebbero essere sotto la chiesa. A Casedisopra la chiesa era stata edificata a fianco dei resti di un antico tempio pagano, sembrando all’allora vescovo un’eresia utilizzare quanto restava dei muri del tempio pagano per un edificio cristiano. La zona posteriore alla chiesa venne poi utilizzata come cimitero e la cripta, interrata e quindi protetta dal caldo, diventò naturalmente il luogo dove sistemare le bare in attesa di sepoltura.
Per completare la notizia c’è da sapere che il vescovo che ordinò la costruzione della chiesa si chiamava Valentino Guidotti Guidi, antenato del sindaco in carica ai giorni dell’ispettore Marco Gherardini.
Questioni di famiglia, come si può immaginare.
Il sindaco, Guidotti Guido Novello, era l’ultimo di una generazione nobiliare che veniva dal Medioevo e il cui capostipite fu Guido Novello Guidi, capitano di parte ghibellina, luogotenente di re Manfredi in Toscana. Suo fratello, Guido Guerra Guidi, era capitano di parte guelfa. Come dire: il piede in due staffe, una ghibellina e l’altra guelfa.
E siamo solo nel Medioevo.
Per una serie di impegni che aveva già preso e per altri che inevitabilmente arrivavano ogni giorno, Marco Gherardini fu costretto a rimandare l’incontro con Paolino dei Campetti.
“Non c’è fretta” si disse. “Paolino non scappa.”
Ne approfittò per contattare, durante i suoi spostamenti, alcune persone che avrebbero potuto incontrare il disgraziato che aveva perduto la vita cadendo nel grotto. Scelse un paio di foto, le meno crude, con il viso dell’elfo e se le portò dietro.
Si fermò dalla Nerina, la tabaccaia. Ci trovò la nipote, Roberta. Meglio così, ma non se la sentì di mostrarle le foto.
«Hai visto un giovane elfo sui vent’anni, biondo, giubbetto di jeans senza maniche, calzoni pure di jeans e sandali di cuoio con strisce di pelle intrecciate?»
Roberta ci pensò: «Nessun giovane biondo da queste parti, Poiana. Me lo ricorderei».
A Giorgio, il bottegaio di “Prodotti tipici della montagna”, mostrò le foto.
No, non era entrato nel suo negozio.
Passò anche dall’ufficio postale e dalla Pro Loco.
Niente: pareva che l’elfo fosse arrivato e andato direttamente all’appuntamento con la sua fine senza passare dal paese.
Lasciò la camionetta sul ciglio della strada, dove finiva il tratto asfaltato alla meno peggio, corroso da numerosi e impietosi inverni, e si avviò verso la casa di Paolino, a poca distanza. Era il primo mattino di una giornata che si annunciava già calda, nonostante l’ora. La porta della casa era spalancata, l’ispettore si affacciò verso l’interno e chiamò:
«Paolino, ci sei?».
«Ci sono, ci sono!» urlò una voce. «Vieni, vieni, Poiana, accomodati, mettiti a sedere. Hai sete? Vuoi un bicchiere di vino?»
«A quest’ora?»
«Be’, ci vuole un’ora speciale per bere un bicchiere?»
«No, ma non si può cominciare a bere a quest’ora di mattina.»
«Allora un caffè. Vuoi che ti faccia un caffè?»
Il desiderio di Paolino di essere ospitale non poteva essere deluso e Gherardini sorridendo rispose: «Vada per il caffè».
Paolino si mise ad armeggiare con una vecchia caffettiera napoletana. «Perché sei da queste parti?»
«Indovina. Te l’avevo detto che avrei avuto qualcosa da chiederti. Sono qui per il nostro amico che hai trovato in fondo a quel grotto assieme a Cornetta. Ho anche delle foto.»
Le prese da una cartella e le sciorinò sul tavolo. Erano quelle del cadavere, ma non mostravano un granché.
«Questo è il tizio che hai trovato morto. Lo hai mai visto?»
Paolino guardò le foto. Scosse la testa. «No, ha l’aspetto di un elfo, ma proprio non l’ho mai visto, almeno qui ai Campetti. Aspetta che ti verso il caffè. Quanto zucchero?»
«Due, grazie.» Mescolò. «Guardale ancora e meglio.»
Paolino tornò a scuotere la testa. «No, no, mai visto, te l’ho detto. Poveretto, gli animali avevano già cominciato a saccagnargli la faccia. Com’è il caffè?»
«Ne ho bevuti dei migliori.»
Paolino sbuffò: «Sarà buono il caffè che ti fanno alla forestale, il caffè dei signori, quello sì che…». Vedendo Gherardini che brandiva la tazzina per tirargliela gridò: «No, è l’unica che mi è rimasta!». Gli prese la tazzina dalle mani. «Senti, Ghera, qui vicino ci stanno degli elfi, forse sanno qualcosa del morto. Vado a cercartene uno» e fece per uscire.
«Aspetta un po’ che ho ancora qualcosa da farti fare.»
«A me?»
Gherardini annuì. Radunò le foto sparse sul tavolo. Non era un bel vedere. «Sì, a te. Adesso mi devi firmare questa» e allo stupore di Paolino, chiarì: «È la dichiarazione di come e quando hai trovato il morto». Gli porse la biro.
Paolino dei Campetti finse di leggere qua e là, prese la biro e firmò lentamente e con cura, commentando: «Quante balle. La prossima volta non dico niente».
«Pensi che ci sarà una prossima volta?»
Paolino mise il punto dopo la firma, sollevò il capo e disse: «Ci mancherebbe anche questa. Che ci fosse una prossima volta».
L’ispettore controllò la firma e mise nella cartella il documento.
«Allora vado o no a chiamare questo elfo?»
«Sì, che vorrei farci due chiacchiere» e Paolino dei Campetti finalmente uscì.