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Una bandiga agli Stabbi

Dopo, le aveva sussurrato Marco.

Dopo fu lei che riprese il discorso.

«Peccato.»

«Peccato per cosa?»

Lei non rispose. Gli sfiorò le labbra con le sue. «Così» disse. «Mi piaceva pensare che avresti arrestato il colpevole.» Si staccò da lui e di fianco, appoggiata sul gomito, continuò: «Non ero venuta solo per aspettare il tuo ritorno».

«Anche per cosa?»

«Per invitarti alla festa» e gli disse che Nicola stava finendo i lavori per la casa e per questo ci sarebbe stata una festa, su, agli Stabbi…

«Verranno anche da altri insediamenti, sarà come la prova generale per la Festa dell’Arcobaleno. Sabato prossimo a cominciare dalle dieci di sera, perché deve essere buio e i falò sembreranno più belli e li vedranno anche quelli che non verranno. Li vedranno da Ca’ del Bicchio, dai Campetti… Insomma, Helga e Nicola ti aspettano. Non puoi mancare proprio tu. Devi esserci.»

La richiesta gli sembrò strana. Non c’erano stati rapporti del tutto cordiali. Specie con Nicola, eppure…

Non ci pensò più.

Fecero colazione e partirono con comodo.

La strada per gli Stabbi gli era diventata consueta. Come la strada per l’orto, diceva suo nonno. In fuoristrada fino allo slargo dove cominciava il sentiero e poi via, scarpinare. Compreso il ritorno, se ne andava la mattinata.

Non aveva altro da fare.

Continuava la vacanza forzata.

Salirono il sentiero, mano nella mano. Ogni tanto una sosta per un fuggevole bacio.

I pensieri su Elena come possibile sospetta se n’erano andati con la sua calda presenza.

Continuava a provare una piacevole sensazione di benessere.

Gli Stabbi erano deserti e silenziosi.

Gherardini si fermò al limite del borgo. Trattenne anche Elena. Che lo guardò.

«Che c’è?» chiese.

«’sto silenzio… Dove sono finiti tutti?»

Elena scoppiò in una risata. «Sei proprio uno sbirro. Sospetti di tutto e tutti» e si alzò sulle punte per un altro bacio veloce. «Non so se accetterò di vivere con te» scherzò. «Sono tutti a lavorare nella casa di Helga e Nicola, dall’altro capo del borgo» e tese l’orecchio. «Ascolta» disse.

Lontani perché trascinati altrove dalla leggera brezza che spirava verso le cime dei monti, arrivavano rumori attutiti di materiali spostati, di oggetti caduti a terra, di pietrisco scaricato da una carriola… Anche qualche parola pronunciata più alta di altre.

«Devo andare anch’io» disse Elena.

Si allontanò agitando alta la destra. «Ti aspettiamo sabato sera. Ricorda» e sparì.

Marco non riprese subito la strada di casa. Sedette su un sasso, al bordo del sentiero, e si accese una sigaretta.

«Adesso?» si chiese. «Vado a dargli una mano anch’io?»

Decise per il no. Non era un elfo e poteva sembrare l’intrusione di uno sbirro.

Lo avevano invitato per sabato sera e quindi meglio rispettare il cerimoniale elfo.

Gente difficile da trattare.

Finì con calma la sigaretta e si alzò.

Fece qualche passo, si fermò e guardò alle sue spalle.

Il silenzio e la solitudine che lo avevano accolto all’arrivo.

«Potrei approfittarne» mormorò. «Lasciano le porte aperte per questo, no? Perché tutti possano entrare» e tornò indietro.

Cominciò dall’abitazione di Joseph e fu una visita breve. Non c’era molto da vedere. Pochi mobili e niente dove nascondere… per esempio, la pistola.

“Dove e come l’avrà vista Helga? E dove la terrà quando non è in casa? Non credo la porti con sé…”

Da un trave pendeva una maschera di cartapesta simile a quelle che aveva visto da Solitario. Gli ricordò un personaggio noto, ma non arrivò a capire chi.

Altre ne trovò nelle abitazioni di Elvio, Sottobosco e Verdiana.

“Sta facendo affari, il giovanotto pallido e malaticcio. Avanti così e diventerà ricco prima di tornare a casa dai suoi.”

Si chiese dove si fosse stabilito Solitario dopo che Adùmas lo aveva trascinato alla Ca’ Storta. Si era rifugiato a Ca’ del Bicchio per sfuggirgli, ma era troppo lontano per le necessità del suo lavoro. Per la produzione che stava facendo, gli serviva andare spesso in paese.

Trovò sue tracce nel rudere accanto all’abitazione di Elena.

Non c’era da sbagliare: pacchi di giornali, barattoli di vinile, pennelli, colori… e, avvolti in alcuni stracci, i sandali fabbricati da Giacomo. Il secondo paio che già aveva intravisto nella stalla a Ca’ del Bicchio.

“Solitario dovrà spiegarmi questo mistero. Lo dovrà fare anche Giacomo” e si ripromise di passare a Borgo per una visita di controllo anche alla casa dell’elfo storico.

Uscito, ebbe la tentazione di entrare pure da Elena.

“Lasciamo perdere” si disse. “Metti che arrivi… Cosa le dico?”

Fortuna che aveva rinunciato.

«Sei ancora qui?» disse Elena. Stava tornando.

«Pensavo di venire a dare una mano anch’io. Se gradita, naturalmente.»

«Comincia col dare una mano a me.» Lo prese sottobraccio e se lo trascinò in casa.

«E questa cos’è?» chiese Marco.

Sul tavolo, ancora una maschera di cartapesta.

«Il viso di un’elfa della Terra di Mezzo» spiegò lei.

Lo aveva riconosciuto anche lui: ricordava il disegno nel volume Il signore degli anelli.

«Aiutami» tirò via lei.

Lo caricò di cestini con frutta, focacce, un fiasco di acqua, ricotta…

«È ora di mangiare. Ci aspettano.»

C’erano tutti attorno alla struttura che aveva perduto la forma di rudere per quella di un’abitazione. Con i limiti delle possibilità elfe.

Sul tetto, Joseph e Nicola completavano il manto di copertura con vecchie tegole di recupero e lastre di arenaria.

Giacomo si occupava delle rifiniture di porte e finestre, assieme a Helga con la quale discorreva amabilmente in tedesco.

A Marco parve felice. Sorrideva.

Solitario manovrava un badile che, a occhio, pesava almeno quanto lui. Caricava pietrisco su una sgangherata carriola e, traballando, andava a scaricarlo fuori dal borgo.

Elvio, Sottobosco e Verdiana avevano appena costruito una tavola d’emergenza: alcune assi posate su due cavalletti e coperte da fogli di giornale.

«Abbiamo un ospite, gente!» gridò Elena cominciando a sistemare le provviste.

«Era ora» gridò Nicola.

Lasciò subito il lavoro e scese dal tetto, scivolando lungo una scala alla quale mancavano parecchi pioli. Andò a prendere Helga e, assieme, arrivarono per primi al tavolo.

Si attaccò a una bottiglia d’acqua e la vuotò per metà. «Ne avevo bisogno. Il sole picchia lassù.» Poi: «Oh, Poiana, finalmente in borghese. Mi piaci di più» disse. Una pacca sulle spalle e una cerimoniosa presentazione con inchino: «Questa è la ragazza per la quale ho…» ci ripensò e indicò gli altri. «Per la quale abbiamo sistemato la casa.» Abbracciò la ragazza. «Ci staremo da elfi, vero ragazzina?»

Helga annuì e disse alcune parole in tedesco. Nicola guardò Giacomo: «O io imparo il tedesco o lei l’italiano».

«Per quello che farete, non servirà né il tedesco né l’italiano» lo rassicurò Giacomo.

«Sì, ma non so cos’ha detto.»

«Ha detto che non vorrebbe abitarci da sola.»

Nicola abbracciò la ragazza: «Starò via pochi giorni, Helga, te l’ho giurato e lo rigiuro qui, davanti ai testimoni. Traduci, Giacomo».

L’elfo storico eseguì.

Poi disse: «Voglio essere chiaro fin da subito con te e con Helga: non intendo venire a letto con voi per tradurre le vostre stronzate di giovani amanti».

Cominciarono a mangiare.

Arrivarono le prime gocce e fecero finta di niente.

Poi si scatenò uno sbanderno.

Finirono il frugale pranzo al coperto, nella cucina della casa ristrutturata.

Fu intenso per una decina di minuti, poi tornò il sole.

«Ci voleva!» gridò Nicola. «Per collaudare la tenuta del tetto. Andiamo a controllare.»

Tutti lo seguirono nel giro al sottotetto.

Al termine della visita: «Non è entrata una goccia» annunciò Nicola alla comunità.

Applausi.

Per non inzupparsi lungo il sentiero del ritorno, Gherardini aspettò che le foglie lasciassero cadere le ultime gocce e salutò gli elfi che avevano ripreso i lavori.

Mentre si allontanava, assieme a Elena, «Oh, Poiana, non mancare, mi raccomando» gli urlò dal tetto Nicola.

Gli fece segno di star tranquillo.

«Cos’è successo?» chiese a Elena. «Sono diventato Poiana anche per gli elfi?»

«Ci vuole un po’ per capire il prossimo, non credi?»

«Non mi pare. Io e te ci siamo capiti subito.»

All’imbocco del sentiero Elena lo abbracciò e, la testa appoggiata al suo petto, mormorò: «Perché non resti fino a sabato?».

«Ho ancora qualcosa da fare come forestale.»

Lei annuì. «Ti terrei nascosto in casa mia. C’è posto. Helga dormirà nella nuova casa con Nicola» e aggiunse, dopo un’esitazione: «Almeno questa notte. Poi Nicola se ne andrà e lei tornerà da me fino al suo ritorno».

«La prima notte di nozze e poi via. Non è bello da parte di Nicola.»

«Ha dei problemi con la famiglia. Sono sicura che tornerà presto. Ha lavorato come un facchino per quella casa…»

L’acquazzone aveva reso sdrucciolevole il sentiero e gli alberi lasciavano ancora cadere le gocce. Rischiò più volte di scivolare.

«Vorrei vederli per questo sentiero con i sandali di Giacomo ai piedi» commentò, aggrappandosi ai rami che sporgevano per non cadere.

Giacomo, già. Si era ripromesso di passare da casa sua. Perché non subito?

Borgo non era lontano. E Giacomo era agli Stabbi.

Meglio di così…

A casa di Giacomo era già entrato, ma la visita era stata breve e per niente accurata. Allora non era ancora fra i sospetti.

Trovò il solito odore di cuoio conciato, soliti attrezzi e solito tavolino da ciabattino… con sopra un paio di sandali appena abbozzati… e due maschere di cartapesta.

Di nuovo!

Le guardò e stava per passare oltre.

«Quella è la faccia di… di Ramingo» mormorò. «E quest’altra… Questo lo conosco.» Prese le maschere, andò allo specchio sul lavello. Si mise accanto al viso l’immagine di cartapesta e: «Sì, sono proprio io» disse.

Bell’accoppiata: Ramingo e Poiana.

Uno morto. E l’altro?

Vivo, per ora.

Andò alla finestra per guardarle meglio.

C’era qualcosa di tragico nel grottesco di quelle maschere. Come nel delitto dal quale venivano.

Sul viso di Ramingo, Solitario aveva trasferito la tristezza di una morte annunciata, imminente. Lo raccontavano l’apertura nera della bocca spalancata e dai contorni verso il basso e il disegno degli occhi.

Gli stessi elementi, disposti in altro modo, davano al viso di Poiana una cattiveria cinica che lui era sicuro di non meritare.

«Un ragazzo con del talento» mormorò Gherardini. «Mi ha guardato in faccia per qualche ora, durante il colloquio-interrogatorio, e ha preso quello che credeva di aver visto dietro i miei occhi.» Ripose le maschere cercando di disporle nell’identica posizione di come le aveva trovate. «Gli assassini ce l’hanno il talento. Malvagio, ma ce l’hanno e lo usano per nascondersi dietro delitti impuniti.»

Così Marco Gherardini si illuse di aver trovato il suo assassino.

Gli sarebbe bastato dimostrarlo.

Aveva visto abbastanza e se ne andò.

Lungo la strada comunale verso il paese, incontrò gruppi di ragazzi e ragazze che salivano verso i vari insediamenti elfi.

I loro abiti colorati e la stravaganza degli oggetti che si portavano dietro, strumenti musicali, scialli variopinti, berretti di strane fogge, borse di tela…

Ne vide una anche di ginestre intrecciate.

Quella varia umanità, all’apparenza allegra, restituì allegria anche a lui.

Rallentò per osservarli meglio.

“Il mondo” pensò “non è tutto grigio.”

Superò una curva e in fondo al rettilineo che la seguì vide la sagoma di un’elfa. Gli sembrò di riconoscerla: una graziosa figurina con ampia gonna di jeans e una camicetta a fiori. Procedeva accanto a un elfo ed era impegnata in una discussione molto vivace.

Fermò l’auto prima di incrociare i due e mentre gli si avvicinavano sentì, dal finestrino aperto, una parte dei loro discorsi. Lei parlava a voce alta con il suo spiccato accento piemontese e l’elfo le rispondeva in una lingua che a Marco sembrò olandese.

Cercavano entrambi un’intesa linguistica difficile da raggiungere.

Non si era sbagliato: la conosceva e mentre i due passavano accanto al fuoristrada, che pareva non avessero visto, «Ciao, Armonia» la salutò sporgendo il capo. «Dove stai andando?»

«Oh, forestale. Sono scesa in paese per prendere questo amico e lo porto su da noi, a Ca’ del Bicchio» e i due si fermarono. «Lui si chiama Geurt, è olandese.»

«Salve, Geurt» e Marco scese: «Ca’ del Bicchio… Ne avrete per parecchio. Posso accompagnarvi fino a dove si arriva con il fuoristrada…».

«Ci farebbe comodo» e la ragazza cercò di comunicare all’elfo la proposta del forestale, senza successo.

Sorrideva e non capiva.

Risolse Gherardini: aprì la portiera posteriore e gli fece segno di salire.

Armonia gli si mise accanto.

Mentre salivano, raccontò di lei e di Geurt: si erano incontrati in Spagna, durante la Festa dell’Arcobaleno dell’anno precedente, si erano dati appuntamento per quella di Collina di Casedisopra…

«… e adesso siamo qui.»

«Come fate a capirvi se parlate lingue distanti chilometri?»

«Il fatto è che non abbiamo ancora deciso chi dei due deve imparare la lingua dell’altro.»

«Una soluzione ci sarebbe.»

«Quale?»

«Tu impari l’olandese e lui l’italiano.»

«Mi piace l’idea.»

«Questo vostro incontrarvi, cercare di capirvi, fare gruppo… Un modo per cominciare a costruire un mondo fatto non solo di banche…» e lasciò perdere.

Lui non era fatto per le utopie.

Armonia cercò di spiegare a Geurt quanto si era detta con Gherardini e continuò la lotta su ogni vocabolo.

Il miscuglio di italiano e olandese e il modo ridicolo di parlare una lingua inesistente, ricordarono a Gherardini una frase di Adùmas:

“L’argomento merita di essere approfondito”.

All’inizio del sentiero, dove l’auto non poteva proseguire, fermò e salutò in fretta i due, senza neppure scendere.