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In attesa di Rainbow

C’era festa in paese. Non per una ricorrenza particolare come il santo patrono o la fiera annuale o una delle tante sagre paesane di moda: del salame, del prosciutto, dei ciacci, della crescentina e via dicendo. Era una festa nuova che da quelle parti non si era mai tenuta. Gli elfi la chiamano Rainbow, Festa dell’Arcobaleno. Si celebra ogni anno durante il mese di agosto e il luogo dove farla viene scelto per particolari caratteristiche. La prima: fra gli elfi del luogo e gli abitanti locali devono esserci buone relazioni.

A Casedisopra non c’erano problemi: fra di loro le buone relazioni c’erano. Le altre condizioni, e cioè un luogo dove la natura fosse rimasta il più possibile intatta, lontano dalle strade, raggiungibile solo percorrendo sentieri e a piedi, legna secca e acqua a sufficienza, le avevano trovate a Collina di Casedisopra, una radura nel bosco a un’oretta di cammino dalla più vicina strada carrozzabile. E la comunità degli elfi dell’Appennino fra Emilia e Toscana, una mezza dozzina di insediamenti, l’aveva proposta per il Rainbow di quell’anno e già a metà luglio avevano cominciato ad arrivare da tutt’Europa, a gruppi o in solitudine. Collina di Casedisopra si andava animando in attesa del 29 agosto, plenilunio, quando il raduno si sarebbe concluso.

Al mattino quei primi arrivati scendevano da Collina per prendere confidenza con il luogo e con gli abitanti e per il paese era diventata una continua fiera. Chi non aveva ancora un posto dove dormire, lo cercava chiedendo in giro. Andava bene anche un sottoscala. O un fienile. Sapevano adattarsi e portavano con loro il necessario per sopravvivere: sacco a pelo, ciotola e posate personali.

In quell’atmosfera chiassosa di attesa dei giorni dell’arcobaleno e fra gente dall’abbigliamento stravagante, eccessivamente colorato, spesso straccione e poco naturale per il paese, Paolino dei Campetti piombò di corsa e trafelato. E si sentì a disagio. Si fermò per riprendere fiato e per cercare una strada per la caserma della forestale che fosse meno frequentata della statale che attraversava il paese. Ma non c’era. Gli estranei si erano intrufolati ovunque. Cercò allora di passare inosservato, cosa difficile per uno alto e robusto com’era, faccia con barba di almeno una settimana e capelli folti che non vedevano un parrucchiere forse da mesi. Più in fretta che poté, ma senza correre per non dare nell’occhio, ci arrivò e quando Ferlin Valentino, anni 26, passato di recente da allievo forestale ad agente, gli aprì, s’infilò dentro contento di trovarsi fra gente che conosceva.

Ferlin lo vide sudato e ansimante. «Che succede, Paolino?»

«Cos’è tutta quella gente?»

«Niente, sono elfi e tu che ci vivi in mezzo dovresti saperlo.»

«Non sono quelli dei Campetti. Non ce n’è uno che conosco…»

«Vengono da fuori. Dalla Germania, dalla Francia…»

Paolino tagliò corto: «Be’, adesso devo parlare con Poiana».

«L’ispettore non c’è. Puoi dire a me che gli riferirò appena torna.»

Paolino dei Campetti ci pensò un attimo e scosse il capo. «No, no, devo dirglielo io. E poi lo devo accompagnare, se no come lo trova?»

«Cosa non trova, Paolino?»

«Il morto. Sai, dove ho trovato la Cornetta che si era perduta…»

«Il morto? E chi è Cornetta?»

«Vedi che non sai niente. Ci vuole Poiana.»

A questo punto, anche se le frasi di Paolino non erano state chiare, era però chiaro che si trattava di cosa grave e quindi urgente.

«Va bene, non ho capito, ma è meglio se andiamo a cercare l’ispettore. È in giro per il paese.» Indossò il berretto d’ordinanza, riaprì la porta e «Vieni con me» disse lasciando passare Paolino.

L’ispettore della forestale Marco Gherardini, per Paolino confidenzialmente Poiana come per la maggior parte dei paesani, era uscito presto di caserma per dare un’occhiata ai giovani.

Gli piaceva il modo degli elfi di accostarsi ai boschi e alla montagna. Era un po’ anche il suo: rispetto della natura. Per questo, e per altro che gli stava a cuore, aveva scelto di fare il forestale e a ventotto anni era forse il più giovane ispettore. Ora ne aveva trentadue e da quattro il dottor Baratti Eugenio, primo dirigente e comandante provinciale, lo aveva mandato a guidare la caserma di Casedisopra. Marco Gherardini c’era nato e per lui era stato un bel regalo.

S’era fermato davanti a tre ragazze dagli abiti colorati che avevano disteso sul selciato alcune stuoie, curioso di sapere cosa ne avrebbero fatto. Un gruppo di ragazzi, altrettanto curiosi, s’era subito radunato.

Aveva poi continuato verso la piazza per un caffè da Benito, come tutti i giorni dopo pranzo. Si fermò al grido di Ferlin, da lontano: «Ispettore!».

Gli faceva cenno di aspettarlo e capì che qualcosa non andava. Prima che dall’aria preoccupata del suo agente, dal fatto che lo accompagnasse Paolino dei Campetti. Quando mai scendeva in paese in una giornata non destinata al ritiro della pensione? E perché aveva l’aspetto più spurito del solito?

Appoggiato allo stipite della trattoria-bar, Benito, il titolare, aveva visto l’ispettore che si avvicinava e lo stava aspettando.

Era un omone calvo, indossava la solita camicia guaiavera bianca e un grembiule dello stesso colore. Vestiva così in inverno e in estate, come se fosse la sua divisa.

Perché avesse lasciato Bologna per stabilirsi, con tutti i posti al mondo, a Casedisopra, non è mai stato chiaro ed erano circolate molte chiacchiere. Alcune cattive. Fatto sta che era arrivato con in tasca il contratto d’acquisto dell’osteria, attinenze e pertinenze incluse, e con in mente una radicale ristrutturazione della sua nuova proprietà per rilanciarla adeguatamente nel mercato del turismo stagionale.

Cominciò subito e l’insegna, una tavola di legno che aveva attraversato le infamie del tempo per chissà quanti anni e che riportava “Osteria dei due pellegrini”, diventò, qualche giorno dopo, un “Da Benito” scolpito a fuoco. Stessa tavola, ma verniciata di verde scuro.

In realtà il titolare si chiamava Giusti Quintiliano. Il Benito dell’insegna derivava dalla sua straordinaria somiglianza con il tristemente famoso Benito della storia nostrana, somiglianza che non dispiaceva al titolare, come lasciava intendere l’insegna. Questione di gusti.

Sotto il “Da Benito” e sempre nella stessa tavola, aveva aggiunto “Trattoria-bar”. Ed era tutta la ristrutturazione che il nuovo titolare aveva potuto permettersi. Infatti, sul muro di fianco alla porta, aveva conservato un antico cartello, anch’esso di legno, sul quale un ignoto artista naïf aveva dipinto un sorridente cuoco che proponeva le specialità della casa: “Tagliatelle tirate col mattarello” e “In stagione funghi, tartufi e cacciagione”.

Come i molti locali pubblici della montagna, Da Benito era luogo d’incontro di varia umanità, un’isola dove convivevano, almeno apparentemente in pace, razze, culture e religioni diverse. Ci si incontravano prima di tutto i paesani per antica residenza e tradizione, ma anche immigrati di chissà dove, scappati da una guerra o in cerca di un lavoro, gente del nostro Sud, specie muratori, Amdi, il cameriere forse marocchino, i piangiani, come i locali chiamavano i fuorusciti dalla città per affitti troppo cari. In stagione la frequentavano anche i villeggianti.

Insomma, la trattoria-bar la si poteva considerare un raro esempio di integrazione multietnica. Almeno per i tempi e per i luoghi.

Benito vide i tre parlare concitatamente. Soprattutto Paolino, e la cosa non lo stupì.

«Lo sapevo, caro mio, che ’sti rompiballe di elfi finivano per combinare dei guai» e, certo delle opinioni che esprimeva precedute dal solito “caro mio”, rientrò nel locale con il rammarico di aver perduto l’incasso di almeno tre caffè, finendo le sue previsioni così: «E secondo me combineranno chissà cos’altro prima che ’sta pagliacciata del rimboll finisca».

Intanto, Paolino dei Campetti, senza aspettare di arrivare in caserma, stava raccontando all’ispettore quanto gli era successo.

«Devi stare a sapere, Poiana, che ieri sera Cornetta non è tornata a casa…»

«Chi è Cornetta, Paolino?»

«La mia capretta tibetana. Ce l’ho da tanti di quegli anni…»

«Capito. La tua Cornetta…?»

La sua Cornetta non era tornata a casa, come faceva ogni sera, e lui era andato a cercarla. Senza trovarla. Aveva ripreso le sue ricerche la mattina dopo e l’aveva cercata per tutta la giornata. Niente. Il terzo giorno…

«Cioè stamattina presto. Dopo colazione, fumo una sigaretta, come faccio sempre e…»

… e l’aveva trovata più tardi, col sole già alto. Si era fermato sull’orlo d’un ciglione, al limite di una spianatina di bosco sotto al quale si apriva un grotto scosceso, erto, che finiva in un’altra spianatina. Mentre si asciugava il sudore aveva sentito un belato provenire da sotto. Aveva guardato e visto la capra che cercava di risalire la ripida parete ma inutilmente. La bestia zoppicava visibilmente. La chiamò:

«Cornetta, Cornetta» e questa aveva risposto belando disperatamente. “Figlia d’un cane” s’era detto Paolino. “Proprio laggiù ti dovevi cacciare, ora come faccio a prenderti. Ti sei anche fatta male. Va’ pure in giro per il mondo, accidenti a te.”

Si era calato, aggrappandosi alle piante sporgenti, ed era riuscito a raggiungere il fondo.

«Eccoti, ti pigliasse un colpo, fin qui mi hai fatto venire. Adesso dobbiamo tornare su.» Ma si era fermato. Aveva sentito un odore strano, diverso da quello del muschio, delle erbe che aveva smosso, un odore… «Qua c’è una carogna di qualche animale morto.»

Aveva guardato attorno e l’aveva visto, semisepolto dalle foglie, la testa piantata nella terra. E non era la carogna di un animale. Era un essere umano.

«Cara Cornetta» aveva detto ad alta voce, afferrandola e caricandosela sulle spalle alla Buon Pastore. «Qua bisogna andare via in fretta, bisogna andare da Poiana a dire cosa abbiamo trovato.»

Finito il racconto, Paolino guardò l’ispettore. «Capito che roba, Poiana?»

«Sì, ma io che c’entro? Devi andare dal maresciallo» e tentava di convincere Paolino. «Devi capire che è di sua competenza e quindi la denuncia la farai a lui. Non ti preoccupare: è come se la facessi a me. È un brav’uomo, fìdati. È di sua competenza» spiegava, ma Paolino sembrava poco convinto.

«Tu sei come lui, anzi, dicono tutti che sei anche di più. Sono venuto da te, ho fatto il mio dovere e adesso torno ai Campetti.»

Intanto erano arrivati alla caserma dei carabinieri, l’agente Ferlin aveva già suonato e Paolino aspettò senza nascondere l’impazienza.

«Ispettore Gherardini» salutò l’appuntato Gaggioli rispettando il protocollo gerarchico. Era uno della generazione precedente e ci teneva alla forma.

«Il maresciallo Barnaba?»

«Dolente, ispettore. Il maresciallo è fuori sede. Sta partecipando a un corso di aggiornamento e rientrerà fra quindici giorni. Posso fare io?»

Paolino dei Campetti ascoltò in silenzio quanto l’ispettore Gherardini riferiva all’appuntato. Neppure assentiva o negava al racconto. Solo quando Poiana gli chiese: «Ho detto giusto, Paolino?» annuì impercettibilmente.

«Ispettore, purtroppo la situazione va oltre le mie possibilità gerarchiche, per cui dovrebbe occuparsi lei del caso. Se crede, io posso collaborare nei rilievi, fotografare, prendere nota…»

«Non servirà, Gaggioli» lo rassicurò Poiana. «Ho qui il valido Ferlin, esperto in fotografie e informatica. Mi darà una mano lui e ne verremo fuori. Da quanto ha raccontato Paolino e conoscendo il posto, immagino che si sia trattato di un incidente. L’aggiornerò, appuntato. Lasciamo il maresciallo al suo corso» e stava per andare. «A proposito, di quale corso si tratta?»

«Come lei sa, ispettore, a fine anno la forestale verrà accorpata ai carabinieri e i responsabili delle caserme che prenderanno in carico il nuovo personale sono stati comandati per l’aggiornamento che prevede una qualificazione che nel corpo dei carabinieri non era ritenuta indispensabile…» e via a spiegare la differenza fra carabinieri e forestale.

«Se sentirà il maresciallo, gli faccia i miei auguri» tagliò corto l’ispettore.

Tornando verso la caserma della forestale, nessuno parlò. Solo dopo essere tutti e tre seduti sul fuoristrada, Ferlin chiese:

«Vuol dire che ci comanderà il maresciallo dei carabinieri?».

«Non lo so, Ferlin. Non lo so e non voglio saperlo.»