III

Verso la guerra segreta

Se la X MAS fosse stata pienamente operativa nel giugno 1940, quando gli inglesi non disponevano ancora dell’Ultra né di buoni sistemi di vigilanza nei porti di Alessandria, Gibilterra e La Valletta, la guerra probabilmente avrebbe avuto un esito assai diverso.

James J. Sadkovich1

Borghese poteva ormai dirsi un veterano di guerra. Ma, nel momento in cui tutte le maggiori potenze si davano da fare per rafforzare le rispettive flotte navali e sottomarine, i mezzi d’assalto della marina italiana non erano stati completamente dimenticati.

Nella primavera e nell’estate del 1937, il reparto Piani e operazioni della Regia Marina stilò due interessanti note che prendevano di nuovo in considerazione il potenziale dei mezzi speciali d’assalto, mettevano l’accento sulla capacità di queste unità di superare qualsiasi difesa nei porti nemici e suggerivano alla marina di trarre vantaggio dall’esperienza acquisita fino a quel momento.

Il piano prevedeva l’addestramento di nove uomini d’equipaggio per i siluri e di altri sei per quattro sommergibili tascabili che avrebbero dovuto essere progettati per penetrare nei porti nemici (anche se, durante la guerra, non sarebbero state mai tentate azioni del genere). Venne proposta anche la costruzione di sei SLC. Questi piani rimasero, almeno in parte, inattuati finché il timore di una possibile guerra non cominciò a emergere dal confronto politico europeo in corso. I comandi navali italiani, la cui mentalità ristretta e conservatrice si incarnava nella persona di Cavagnari, si rifiutavano di destinare uomini e denaro alla realizzazione dei progetti.

La crisi di Monaco del settembre 1938 portò alla luce le crescenti tensioni in Europa: Mussolini si stava ancora adoperando per la pace tra le grandi potenze e sembrava in grado di agire da intermediario tra le democrazie e lo Stato nazista. In marzo, Hitler aveva invaso e annesso l’Austria e poche settimane dopo aveva istigato la popolazione tedesca dei Sudeti cecoslovacchi a chiedere la riunificazione al Reich. Quando la crisi si fece più acuta, i francesi si mobilitarono e la Gran Bretagna allertò la Royal Navy. Alla fine del mese, Chamberlain e Hitler siglarono il famoso patto di Monaco, ma ormai risultava chiaro che tutte le grandi potenze si stavano preparando alla guerra.

Verso la fine del 1938 la situazione internazionale era mutata al punto da consigliare alla marina italiana di riprendere lo studio dei mezzi d’assalto. All’indomani della mobilitazione della Royal Navy, il reparto Piani e operazioni propose al capo di stato maggiore la creazione di una sezione Armi speciali nell’ambito della I flottiglia MAS di La Spezia da porre sotto il comando del capitano di fregata Paolo Aloisi. La flottiglia, oltre a fornire motoscafi d’attacco veloci, doveva servire da struttura di copertura per l’addestramento del personale dei mezzi d’assalto. La Commissione permanente si sarebbe servita delle officine di La Spezia per mettere a punto gli SLC, mentre gli ufficiali, oltre a sottoporsi all’addestramento per i mezzi d’assalto, avrebbero anche preparato piani operativi a essi destinati. Cavagnari, dopo aver visto un documentario segreto che illustrava il progetto, si rese finalmente conto del potenziale che la marina aveva a disposizione e aderì alla proposta il giorno stesso in cui gli venne formulata. Rimanevano da espletare le pratiche burocratiche ma, di fronte alla nuova minaccia che veniva dal mare, la decisione fu presa senza indugi.2

In seguito dalla I flottiglia MAS sarebbe nato un reparto speciale denominato X flottiglia MAS, ma ciò non accadde prima del 15 marzo 1941. Fino ad allora, le esercitazioni vennero condotte come se si trattasse di normali manovre di evacuazione da sommergibili in avaria. All’inizio c’erano ventuno ufficiali addetti alle operazioni su undici SLC e sette MT, mentre un modello perfezionato dell’MTM (Motoscafo turismo modificato) era in costruzione. Alcuni degli uomini furono incaricati di studiare azioni d’assalto contro possibili porti nemici. I bersagli degli SLC sarebbero stati Alessandria d’Egitto, Haifa, Orano e Algeri, quelli dei sommergibili tascabili Malta, Tolone, Gibilterra e Aden.

Dopo un periodo a La Spezia, si decise di trasferire la base di addestramento nella tenuta Salviati di Bocca di Serchio, la cui posizione defilata poteva garantire la necessaria riservatezza. La proprietà confinava su un lato con il balipedio di Viareggio e sull’altro con la tenuta reale di San Rossore e, dunque, si trovava in una zona regolarmente sorvegliata dove non occorreva adottare ulteriori sistemi di vigilanza, anche per non destare sospetti. Inoltre, l’estrema regolarità dei fondali alla foce del Serchio offriva le condizioni ideali per l’esecuzione delle prove e delle esercitazioni, che, naturalmente, avevano luogo soprattutto di notte, sia per motivi di sicurezza sia per simulare le programmate azioni belliche notturne.

La vita nella tenuta era dura e talvolta noiosa. Gli uomini rimanevano isolati per lunghi periodi e dovevano attenersi alle più rigide misure di sicurezza per mantenere il segreto. Ma gli addestramenti intensivi a Bocca di Serchio formarono parecchi assaltatori subacquei poi divenuti celebri, tra cui gli ufficiali Elios Toschi, Teseo Tesei, Gino Birindelli e Luigi Durand de la Penne.3

Il programma di addestramento si articolava in quattro fasi, per una durata complessiva di un anno. Nella prima fase, i sommozzatori posti ai comandi dei sommergibili che avrebbero trasportato gli SLC dovevano imparare come simulare l’avvicinamento ai porti nemici manovrando lentamente il mezzo, mentre si tenevano molto vicini al fondale marino. Nella seconda, dovevano imparare a uscire dal sommergibile, sia di giorno sia di notte, servendosi dell’autorespiratore. Nella terza, imparavano a superare i numerosi ostacoli che avrebbero incontrato in missione, in particolare a tagliare o sollevare le reti poste a protezione dei porti. Nella quarta e ultima fase, si esercitavano a pilotare i «maiali» in diverse condizioni ambientali e si allenavano a staccare le teste esplosive per poi piazzarle sulla nave da colpire. Inoltre, gli allievi seguivano un programma avanzato di immersioni subacquee e navigazione. Uno degli operatori ha scritto questa eccellente descrizione dell’approccio finale all’obiettivo:

A «quota occhiali» ci si avvicina fino a una trentina di metri dal bersaglio … Prendi la rotta esatta della bussola, poi allaghi la cassa d’immersione e l’acqua si chiude sulla tua testa.

Tutto è freddo, buio e silenzio. Ora sei a profondità sufficiente; chiudi la valvola di allagamento, metti a lento moto il motore e scivoli in avanti. L’oscurità diventa improvvisamente più fonda: sai che sei sotto la nave. Fermi il motore ed apri la valvola che caccerà via l’acqua dalla cassa di immersione. Mentre sali metti una mano su, sopra la testa. Ti domandi se incontrerà lamiere lisce o taglienti denti di cane che ti rovineranno le dita o, peggio ancora, faranno a pezzi il tuo vestito di gomma e l’acqua vi penetrerà.

Eccoci contro la carena. Ora spingi il siluro all’indietro, finché il tuo secondo uomo può agguantare l’aletta di rollio larga un paio di spanne … Senti un colpo sulla spalla: è il secondo che ha trovato l’aletta e vi sta fissando il morsetto. Due colpi sulla spalla: il morsetto è fissato. Avanti ora, per raggiungere l’aletta di rollio dall’altro lato. Il secondo sta svolgendo una cima dall’una all’altra. Fissa il secondo morsetto. E ora indietro di nuovo, tirandosi sulla cima tesa sotto la carena, fino al centro della nave. Mentre tu ti agguanti con le mani al cavo, e con le gambe trattieni il siluro, il tuo secondo viene fuori dal suo posto e, passandoti a fianco, si porta sulla testa del maiale davanti a te. Nel buio tu sai che sta collegando la testa carica alla cima tesa sotto la nave fra le alette di rollio. Ora la testa è stata staccata: la spoletta a orologeria, che farà esplodere i 300 kg della carica fra due ore e mezzo comincia a scandire i suoi secondi … Ora puoi pensare a metterti in salvo.4

Il soprannome «maiale» dato agli SLC si deve a Tesei che, durante l’addestramento, avrebbe usato l’espressione «lega il maiale» per indicarne l’agganciamento alla rete. Sott’acqua, i sommozzatori potevano comunicare grazie a una lamina metallica che vibrava all’interno della maschera.5

Una delle esercitazioni tipiche effettuate in coppia a Bocca di Serchio consisteva nel sollevare una rete di ferro simile a quelle che venivano utilizzate per proteggere i porti. Per far ciò, uno dei due uomini si arrampicava sulla rete per qualche metro e ne agganciava le maglie con una corda, che poi lui e il compagno tiravano per aprirsi il varco. In seguito, gli inglesi resero le reti più pesanti, aumentandone la lunghezza, per cui sollevarle divenne un’impresa più ardua, se non addirittura impossibile. Ma c’erano anche altre difficoltà. Per impedire che venisse trascinato via dalla corrente, l’SLC doveva essere fissato alla rete durante le manovre. Gli italiani idearono un sistema per tagliare le reti anziché sollevarle e in alcune occasioni si servirono di un «alzareti» automatico ad aria compressa.

È bene, tuttavia, ricordare che l’SLC era ancora allo stadio iniziale quando, nell’agosto 1940, venne impiegato in azioni belliche. All’epoca dell’entrata in guerra dell’Italia, gli apparecchi di questo tipo disponibili erano forse undici – anche se il dato non può essere confermato – e presentavano tutti qualche difetto, tant’è vero che vi furono apportate continue modifiche grazie all’attiva collaborazione della Cabi, l’azienda che stava sviluppando gli SLC di seconda generazione. Le correzioni servirono a migliorare la velocità e la stabilità degli SLC, la cui lunghezza fu portata da 6,8 a 7,2 metri, mentre la potenza del motore fu innalzata a 1,6 hp per una velocità subacquea compresa tra 2 e 3 nodi. Da tali modifiche ebbero origine gli SLC della serie 100, ordinati in otto esemplari nel luglio 1940, quando l’Italia aveva ormai perso numerose occasioni di vittoria in mare. Gli SLC utilizzati nelle prime missioni tentate nel 1940 derivavano dai primi undici, insoddisfacenti, modelli. La serie 100 entrò in azione più tardi, mentre i modelli successivi, appartenenti alla serie 200, cominciarono a essere pronti solo verso la fine del 1941. Tre di questi vennero usati nell’attacco contro Alessandria del 19 dicembre 1941 e più di venti vennero costruiti una volta risolti piccoli inconvenienti di natura tecnica.

I primi undici SLC erano costruiti con parti recuperate dai siluri italiani standard da 533 mm. La testa, lunga 1,8 metri, conteneva una carica esplosiva di circa 230 kg (260 kg nel terzo prototipo). Tale caratteristica venne modificata nel secondo siluro prodotto, a causa di problemi dovuti alle variazioni di pressione dopo il distacco della testa esplosiva. L’elemento risolutivo fu un anello metallico che agganciava il siluro alla carena della nave da colpire, mentre nella prima serie ciò avveniva mediante sacche gonfiate con aria compressa che spingevano la testa esplosiva verso la superficie. Nella serie 200 c’erano due cariche esplosive, ognuna da 125 kg, contenute in cilindri paralleli che si potevano agganciare insieme. Erano attivate da spolette a orologeria prodotte dalla famosa fabbrica di orologi Borletti ed erano ritenute sufficienti per arrecare gravi danni a una nave da guerra.

Il corpo centrale dell’SLC, quello dove prendevano posto i due operatori, conteneva i necessari strumenti di guida. Il siluro poteva immergersi completamente in circa 6-7 secondi, a una velocità massima di 3 nodi. La navigazione in superficie, la cui velocità era leggermente superiore, veniva usata ogniqualvolta era possibile, per risparmiare ossigeno. L’SLC era azionato da un motore elettrico che faceva girare un’unica elica, la quale aveva sostituito quella doppia per garantire una maggiore silenziosità. Le marce per la regolazione della velocità erano quattro, più la retromarcia. Vicino all’elica c’erano il timone verticale di direzione che consentiva di governare il mezzo e i timoni di profondità.

Il pilota e il suo «numero due» sedevano a cavalcioni del siluro. Il posto di guida era dotato di una sorta di parabrezza per vincere la resistenza dell’acqua e di un pannello di controllo con un profondimetro, un voltmetro per il controllo dello stato di carica della batteria, un orologio e una bussola, tutti strumenti che nei modelli successivi vennero dotati di quadranti fosforescenti. La batteria di accumulatori era composta da trenta celle da 60 volt e sistemata dentro il siluro tra i sedili dei due operatori.

Successivamente, fu introdotto un nuovo mezzo d’assalto di tipo Delta. Denominato SSB (Siluro San Bartolomeo) perché fabbricato nell’officina di San Bartolomeo, era un modello totalmente rielaborato dove gli operatori stavano seduti all’interno del corpo centrale anziché a cavalcioni. Il progetto era del maggiore del genio navale Mario Masciulli e del capitano del genio navale Travaglini, che per gli studi si erano avvalsi della collaborazione dell’ingegner Guido Cattaneo della Cabi. Le prime prove furono effettuate all’inizio del 1943 e diedero risultati soddisfacenti. L’SSB non era più lungo dell’SLC, ma si differenziava da questo per il maggior peso (2200 kg) e per la capacità di trasportare una testa esplosiva di 300 o 400 kg. Erano superiori anche il diametro del corpo (78 cm) e la potenza del motore, che con 7,5 hp era in grado di sviluppare una velocità di circa 4 nodi. Alla data dell’armistizio dell’8 settembre 1943, l’Italia disponeva di tre soli apparecchi di questo tipo, tutti prototipi. Prima della conclusione della guerra ne furono costruiti altri otto, stavolta dalla Caproni, che fabbricava velivoli. Di questi oggi restano quattro esemplari, esposti nei musei.6

Intanto continuavano gli addestramenti di un altro importante gruppo di operatori subacquei, chiamati «uomini gamma» o «uomini G», dalla lettera iniziale della parola «guastatori». Il gruppo si era costituito in seguito alle prove condotte nel 1935 per mettere a frutto le esperienze e le idee maturate da Paolucci durante la Prima guerra mondiale. I primi esperimenti avevano fornito interessanti indicazioni per quanto riguardava gli equipaggi dei sommergibili, ma non per i sommozzatori che, «camminando» sul fondo marino con una pesante carica esplosiva sulle spalle, non riuscivano a percorrere più di 500 metri all’ora. A causa della limitata autonomia che l’autorespiratore Davis forniva nel 1935-36 e del fango generalmente depositato sui fondali, i test non erano stati giudicati soddisfacenti. Ciononostante, in seguito gli «uomini gamma» sarebbero stati utilizzati per attaccare Gibilterra dal territorio neutrale della Spagna.

Nel 1940, forse ormai troppo tardi, l’Accademia navale creò una scuola di sommozzatori diretta dal tenente di vascello Eugenio Wolk, il quale formò anche assaltatori subacquei con l’ausilio del capitano di fregata Angelo Belloni. Su quest’ultimo c’è un aneddoto interessante che vale la pena raccontare. Nel 1914, prima dell’entrata in guerra dell’Italia, Belloni si era appropriato di nascosto di un sommergibile ceduto alla Russia e aveva tentato di condurre una missione personale contro l’Impero austroungarico. Arrestato, era stato processato e infine prosciolto dalle accuse. Quando nel 1940 fu richiamato a servire la bandiera, contribuì a istituire un corso per sommozzatori, armando gli allievi con fucili subacquei per rendere più interessanti le esercitazioni.

I sommozzatori venivano scelti con un rigoroso processo di selezione. Una volta arruolati come volontari, si sottoponevano a un breve periodo di addestramento durante il quale imparavano a usare gli autorespiratori e a eseguire operazioni subacquee di base. Ai giovani più brillanti veniva offerta la possibilità di diventare nuotatori d’assalto partecipando a un corso molto impegnativo di dieci mesi, il che spiega perché durante la guerra vennero impiegati solo una cinquantina di uomini in possesso di questa qualifica.

Grazie ai progressi tecnologici nel settore delle apparecchiature subacquee, gli «uomini gamma» divennero un’arma pericolosa. Non camminavano più sui fondali marini con stivali zavorrati, ma, dopo aver lasciato il sommergibile, nuotavano con le pinne verso la nave da colpire armati di mine a adesione. Chiamate «bauletti» o «cimici», queste ultime erano ordigni assai più leggeri delle cariche esplosive di cui erano dotati gli SLC e permettevano a chi le trasportava di percorrere distanze più lunghe a nuoto. Le «cimici», il cui peso si aggirava intorno ai 4,5 kg, funzionavano con un dispositivo a orologeria che poteva essere azionato nel giro di una-sei ore semplicemente muovendo una molla. Assomigliavano a uova e gli «uomini gamma» ne portavano cinque fissate alla cintura. Venivano attaccate allo scafo della nave o direttamente o dentro una sorta di cuscinetto gonfiato d’aria. Più avanti fu messo a punto un magnete, ma troppo tardi perché potesse essere usato in modo proficuo prima dell’armistizio.

I bauletti erano cilindri contenenti un esplosivo più potente, una carica di circa 12 kg di nepulit.7 Venivano fissati alle alette di rollio del bersaglio e attivati quando la nave, lasciato il porto, raggiungeva una velocità di 5 nodi. A quel punto si sbloccava un’elichetta che iniziava a girare facendo scattare, dopo un certo numero di giri, il percussore che innescava la carica. Poiché l’esplosione avveniva in mare aperto, era difficile stabilire che cosa l’avesse provocata, se un siluro, una mina o altro. Inoltre, la maggiore profondità dei fondali nel punto della detonazione rendeva pressoché certa la perdita della nave. In seguito, quando gli inglesi cominciarono a ispezionare gli scafi delle loro imbarcazioni alla ricerca di ordigni, le cariche vennero camuffate per impedirne la rimozione.

È interessante notare che l’addestramento venne esteso anche ai membri del battaglione N (iniziale di «nuotatori») del reggimento San Marco, i cui membri vennero sottoposti a un programma di esercitazioni finalizzato a condurre azioni di sabotaggio e incursione dietro le linee nemiche. Successivamente, i marinai N si unirono agli uomini del reggimento P (iniziale di «paracadutisti») per dar vita al famoso battaglione NP. Questi operatori erano tutti addestrati a danneggiare navi nemiche, ma potevano agire solo per brevi periodi di tempo e su brevi distanze. L’avvicinamento al bersaglio continuava a presentare difficoltà e, nonostante l’intenso allenamento, la preparazione non era sufficiente. Quando l’Italia entrò in guerra, il numero di SLC e di barchini esplosivi di cui disponeva la marina era ancora troppo esiguo per poter ottenere risultati di rilievo contro le marine francese e britannica.

La situazione politica influì sui piani riguardanti uomini e attrezzature nella I MAS. Nel febbraio 1939, Aloisi fu convocato a Roma per partecipare a una commissione speciale incaricata di studiare e organizzare i mezzi d’assalto. Dai verbali della riunione emerge che gli ufficiali che componevano la commissione erano decisi ad andare avanti, preoccupati dalla mancanza di progressi. In quel periodo, su otto MT costruiti solo due erano pronti a entrare in azione, anche se gli altri sei si sarebbero resi disponibili in marzo e alla San Bartolomeo erano pronti undici SLC. Aloisi fu incaricato di procedere subito all’addestramento di operatori per motoscafi e SLC e al reclutamento di ufficiali e sottufficiali sommergibilisti che avessero esperienza di immersioni subacquee. Oltre a ciò, gli fu detto di tentare di trasportare i «maiali» verso le basi nemiche con sommergibili, a dispetto di una precedente disposizione in materia.

L’idea di trasportare gli apparecchi con aerei era stata abbandonata, forse perché la marina non disponeva di una propria aviazione, o forse, più verosimilmente, perché non si era trovata la soluzione a determinati problemi tecnici. Per esempio, come dovevano sistemarsi gli operatori degli SLC sul siluro durante il volo? E come dovevano essere lanciati gli SLC stessi, una volta sul mare? A tali interrogativi si aggiungeva il fatto che il velivolo prescelto per l’operazione era l’idrovolante Cant Z506 e che un eventuale attacco con più SLC avrebbe richiesto l’impiego di un certo numero di questi aerei senza scorta, date le distanze tra i diversi bersagli. Ora, essendo velivoli lenti, vulnerabili e pesanti, anche in caso di mancata intercettazione, i Cant Z506 avrebbero sicuramente messo in allarme il nemico.

Nel luglio 1939, l’ammiraglio Cavagnari ordinò la creazione a La Spezia di una sezione Armi speciali dipendente dallo stato maggiore della marina, con il capitano di vascello Vittorio De Pace alla guida. Supermarina (il comando supremo delle forze navali italiane durante la Seconda guerra mondiale) emise anche un ordine che stabiliva che al comando della I flottiglia leggera fosse affidato il compito di addestrare un nucleo di uomini all’uso di particolari armi speciali, nonché quello di condurre esperimenti e prove volti al perfezionamento di tali armi.

La marina cominciò anche a elaborare piani d’attacco contro Alessandria e Gibilterra, da attuare non appena fosse scoppiata la guerra. Se tali piani, insieme a quelli di un’azione a sorpresa contro Malta, fossero stati completati prima della dichiarazione di guerra a Gran Bretagna e Francia del giugno 1940, l’Italia avrebbe potuto conseguire significativi successi. Accadde invece che le armi segrete furono dispiegate in fretta e furia soltanto dopo i primi scontri con la Flotta mediterranea inglese, durante i quali la flotta di superficie e l’aeronautica militare mostrarono tutte le loro carenze a livello di preparazione ed efficienza.

Questo nuovo modo di fare la guerra fu introdotto non senza resistenze. In marina i punti di vista riguardo alle innovazioni sono, come sempre succede, diversi, soprattutto quando il confronto si gioca tra corazzate e mezzi da utilizzare in operazioni segrete. A tale proposito, si potrebbe ricordare lo scontro tra teorie tattiche e strategiche che nel Diciannovesimo secolo contrappose la cosiddetta jeune école alle scuole delle corazzate. Ebbene, anche nella Regia Marina si verificò qualcosa di analogo, con una fazione che si ostinava a sminuire l’importanza dei mezzi d’assalto per salvaguardare e difendere interessi ormai consolidati.8 A sostegno delle loro tesi, gli esponenti di questa fazione adducevano varie motivazioni, quali la non comprovata affidabilità dei test in caso di una vera guerra e, ovviamente, i numerosi problemi tecnici ancora da risolvere prima di poter parlare di un perfetto funzionamento dei nuovi mezzi. In realtà, le esercitazioni procedevano regolarmente e il personale non solo era profondamente motivato, ma aveva anche dato prova di possedere il giusto spirito di corpo. La difficoltà, semmai, riguardava il fatto che sommozzatori, «uomini gamma» ed equipaggi dei «maiali» erano costretti a lunghe ore di permanenza in acqua e dovevano possedere requisiti fisici e morali fuori dal comune per superare le estenuanti selezioni.

I sommozzatori, anche dopo aver acquisito le capacità necessarie per portare a termine le missioni assegnate, trovavano ad attenderli altre sfide. Per combattere l’ipotermia derivante dalle tante ore trascorse in un ambiente a bassa temperatura, erano obbligati a adottare particolari misure di prevenzione. La lunga esposizione all’acqua rischiava di inibire i movimenti, causare cedimenti di morale e costringere alla risalita in superficie, con conseguente fallimento della missione. Erano problemi di non facile soluzione. Per prevenire l’ipotermia, gli uomini indossavano una tuta di lana spessa sopra la quale infilavano una guaina impermeabile, la cui protezione, però, era solo teorica, giacché più volte, in occasione di permanenze prolungate in mare, l’acqua si era infiltrata attraverso le cuciture e la pressione sulla pelle aveva causato lievi lesioni che avevano disturbato il lavoro degli operatori subacquei. Era, quindi, evidente che la tenuta da sommozzatore andava migliorata.

Un’altra necessità era la messa a punto di un autorespiratore a lunga autonomia. Il Davis, che veniva usato fin dagli anni Venti, era in dotazione a tutte le marine, ma il personale dei sommergibili italiani lo considerava non più affidabile in seguito ad alcuni incidenti che si erano verificati. Dalle correzioni che vi furono apportate derivò un certo numero di nuovi modelli che poi vennero testati, con il risultato che il Davis continuò a essere utilizzato per le operazioni di evacuazione dai sommergibili in avaria, ma non per lavorare sott’acqua. Un modello Belloni sperimentato nel 1930 includeva una maschera che consentiva al sommozzatore di respirare senza tenere in bocca il tubo dell’ossigeno. Altri modelli vennero messi a punto in seguito, in particolare durante la crisi nel Mediterraneo del 1935.

Per studiare il problema venne perfino nominata un’apposita commissione, formata dai capitani di fregata Catalano Gonzaga di Cirella e Giuseppe Moschini e da un chirurgo, il maggiore medico Ferdinando Dorello. I tre ufficiali volevano un autorespiratore affidabile che risultasse adatto anche per gli equipaggi degli SLC e che, soprattutto, fosse in grado di garantire sicurezza e afflusso continuo di ossigeno. Respinto il modello Belloni, ciò che avevano in mente era un apparecchio tipo maschera, che nelle prove desse buone prestazioni sia in vasca sia in mare. Vennero presi in esame una trentina di modelli, tra cui il «49/bis» prodotto dalla IAC, una società del gruppo Pirelli. Alla fine la scelta cadde proprio su questo autorespiratore, che tuttavia fu pronto per l’utilizzo solo nell’estate del 1936, quando ormai il braccio di ferro con la Gran Bretagna nel Mediterraneo si era concluso. Di conseguenza, la I flottiglia leggera si addestrò con apparecchi più vecchi.

Durante la guerra entrarono in uso modelli via via migliorati. Il G50, anch’esso prodotto dalla Pirelli, funzionava secondo un sistema a circuito chiuso in cui l’ossigeno veniva erogato da due bombole nella versione per le azioni di lunga durata e da una in quella per le missioni di breve durata. Le bombole ad alta pressione avrebbero potuto fornire ossigeno quasi puro e dunque eliminato il pericolo della formazione di bolle d’aria che, affiorando in superficie, avrebbero rivelato la presenza dei sommozzatori. Tuttavia, l’ossigeno puro avrebbe causato grossi problemi agli uomini e pertanto il gas erogato dalle bombole era misto. Il flusso d’aria veniva incanalato attraverso una valvola che riduceva la pressione e quindi raggiungeva il boccaglio, mentre l’aria espirata veniva riciclata attraverso un contenitore di calce sodata.

I sommozzatori avevano bisogno anche di accessori quali bussole e orologi subacquei, non ancora disponibili ai tempi della campagna d’Etiopia né della successiva crisi nel Mediterraneo. Su richiesta della I flottiglia leggera, l’Istituto idrografico e la Commissione permanente iniziarono a interessarsi della questione. Entrambi gli strumenti dovevano resistere all’acqua salata, fornire indicazioni leggibili sott’acqua ed essere facili da indossare con la muta. Ci volle un po’ di tempo prima di trovare quelli rispondenti a tali requisiti, ma nel marzo 1936 gli uomini della I flottiglia leggera ricevettero gli orologi. Nello stesso anno fu adottata la bussola Lazzarini, con una versione modificata per gli equipaggi dei siluri. Sebbene si fossero resi necessari parecchi esperimenti per risolvere il problema, il tempo intercorso tra il settembre 1935, mese in cui venne inoltrata la richiesta, e il 1936, anno in cui l’attrezzatura si rese disponibile, non fu sprecato. Nel periodo immediatamente precedente il conflitto, crebbe l’urgenza di approntare i mezzi d’assalto e almeno queste due componenti erano sistemate.

Il tenente di vascello Borghese aveva intanto assunto il comando dell’Ametista, sommergibile della classe 600 che era stato scelto come trasportatore dei «maiali». All’inizio del 1940, l’addestramento era ormai tale da permettere l’esecuzione di esercitazioni combinate. Fu così che tre SLC vennero fissati direttamente sulla coperta del battello, per l’occasione dotato di appositi supporti.9

A Bocca di Serchio, l’Ametista aveva già effettuato esperimenti con i sommozzatori per addestrarli a uscire dai sommergibili. I «maiali» furono rilasciati nottetempo nelle acque prospicienti la base di La Spezia, nei pressi dell’isola del Tino. Dopo parecchie ore, praticamente all’alba, uno riuscì a raggiungere il bersaglio, il vecchio incrociatore Quarto, mentre il secondo e il terzo accusarono problemi tecnici e non portarono a termine l’azione. Anche se due dei tre siluri non raggiunsero l’obiettivo, due sommozzatori riuscirono ad attaccare la carica esplosiva (in questo caso, finta) alla carena della nave bersaglio, che, in un’operazione di guerra vera, sarebbe sicuramente affondata.10

Fu questa la prima esercitazione condotta alla presenza dell’ammiraglio di squadra Ildebrando Goiran. L’esito, secondo i documenti ufficiali, fu molto incoraggiante, sebbene restassero da curare alcuni dettagli. Innanzitutto, la sistemazione degli SLC in coperta permetteva soltanto operazioni a corto raggio e dunque ostacolava l’avvicinamento a porti nemici lontani. In secondo luogo, con un carico di quella portata, il sommergibile doveva procedere a una profondità di 30 metri al massimo, il che, nelle acque basse e spesso limpide del Mediterraneo, rischiava di essere fatale.11 Infine, il segnale convenuto nel corso dell’esercitazione per permettere alle squadre d’assalto di tornare sul sommergibile non funzionò e venne definitivamente abbandonato.

Nelle sue memorie, Borghese sottolineò che queste operazioni venivano fin dall’inizio considerate senza ritorno, nel senso che tutti erano consapevoli delle scarse probabilità di recuperare gli assaltatori subacquei al termine della missione. Come ebbe a scrivere, «si ritenne che il ritorno a bordo del sommergibile non dovesse essere preso in considerazione, preferendo i piloti sapere che dall’istante del rilascio tutti i ponti erano tagliati; nessuna energia tenuta in riserva per una possibilità di salvarsi, ma tutte, fino all’estremo esaurimento, utilizzate per provocare il massimo danno possibile al nemico».12