VII

Il glorioso insuccesso

Quando riceverai questa lettera, io avrò avuto il più alto degli onori, quello di dare la mia vita per il re e per la bandiera.

Teseo Tesei1

Le operazioni belliche nel Mediterraneo ruotavano in gran parte intorno all’isola di Malta, uno dei bottini che la Gran Bretagna si era provvidamente assicurata al termine delle guerre napoleoniche. Possedimento di vitale importanza fin dall’epoca romana, Malta era stata per secoli occupata dai Cavalieri di san Giovanni (oggi conosciuti come Cavalieri di Malta), che nel 1565 avevano respinto un epico assedio turco. Nel 1798 Napoleone l’aveva strappata ai loro pochi discendenti facendo rotta verso l’Egitto, ma due anni più tardi la flotta inseguitrice dell’ammiraglio Nelson l’aveva conquistata in nome della Gran Bretagna. E come Gibilterra, Suez, le Falkland e Hong Kong, l’isola era rimasta uno di quei nodi piccoli, ma strategicamente essenziali, che tenevano unito l’Impero britannico nella sua globalità. Per comprendere il ruolo che Malta rivestiva nella Seconda guerra mondiale basta dare uno sguardo alla carta geografica. Situata a sud della Sicilia, tra questa e la Libia, l’isola è quasi equidistante da Gibilterra e Alessandria d’Egitto. Sua città principale è La Valletta, adagiata in un porto naturale riparato che presenta una stretta imboccatura, protetta da alture calcaree coronate da fortezze.

Naturalmente, Malta fu bombardata dalla Regia Aeronautica prima e dalla Luftwaffe poi fin dall’inizio del conflitto, ma gli inglesi la presidiavano con caccia e bombardieri, nonché con navi che effettuavano sortite dal porto. Ancora più insidiosa si rivelò la presenza dei sommergibili britannici della classe U che, trasferiti alla Valletta tra il 1940 e il 1941, avevano iniziato a devastare le navi dell’Asse utilizzando il porto come base delle operazioni.

La classe U non va confusa con gli U-Boot tedeschi, denominazione generica che sta per Unterseeboot («sottomarini»). I sommergibili britannici erano in genere più piccoli dei loro equivalenti oceanici, per cui si prestavano meglio a un impiego nel Mediterraneo, e la U che li contraddistingueva era dovuta al semplice fatto che avevano tutti nomi inizianti con quella lettera: Upholder, Urge, Unbroken, Utmost e Uproar. Se i sommergibili inglesi avevano fornito prestazioni disastrose nel 1940, quando l’affondamento di sedici bersagli nel Mediterraneo era costato la perdita di nove battelli, l’arrivo della classe U a Malta segnò la fine di decine di migliaia di tonnellate di navi dell’Asse.

Diffidando delle flotte britanniche che da un capo all’altro del Mediterraneo aspettavano di stroncare qualunque importante azione italiana di superficie contro Malta, Supermarina ricorse al proprio reparto di mezzi speciali per un attacco più furtivo al porto inglese. Purtroppo, nel giugno 1941, ciò si sarebbe tradotto in un assalto congiunto di motoscafi ed SLC che si trovarono di fronte una guarnigione pronta ad accoglierli. Attaccare Malta non era facile, poiché la base era molto ben difesa, l’imboccatura del porto era stretta e gli italiani avevano poche possibilità di raccogliere dati sulle difese in loco. La principale fonte di informazioni erano le fotografie aeree, in base alle quali ogni dettaglio doveva essere accuratamente pianificato, soprattutto da quando le unità di difesa del porto avevano cominciato a prendere contromisure per respingere eventuali attacchi di motoscafi.

Va detto che, prima dell’operazione nella baia di Suda, il piano era quello di attaccare Malta, per cui i barchini esplosivi MT erano stati trasferiti nella base navale siciliana di Augusta allo scopo di preparare l’operazione. Ma dopo il disastro del Gondar e la cattura del capitano Giorgini le cose erano cambiate e Moccagatta aveva cercato di trasformare gli MT in armi più efficaci, che non voleva impiegare in una missione affrettata e pericolosa.

Dopo la baia di Suda, De Courten pretese maggiori successi e ordinò a Moccagatta di riprendere in mano i piani d’attacco contro quello che era il principale problema dell’Italia nel Mediterraneo: Malta. L’operazione contro il porto dell’isola fu pianificata dopo aver passato in rassegna tutti i mezzi d’assalto che avrebbero potuto essere impiegati. Moccagatta non escluse alcuna possibilità e infine decise di avvalersi come prima arma degli MT, perché gli SLC non erano facilmente trasportabili in loco, e comunque non con un sommergibile, a causa della presenza di campi minati di cui i comandi italiani non erano a conoscenza. Occorreva un mezzo «avvicinatore» di superficie, il quale però non era al momento disponibile. Non era nemmeno possibile far fuoriuscire gli «uomini gamma» da un sommergibile tascabile CB, per via delle condizioni sfavorevoli al largo della costa maltese.

Moccagatta concluse che, per quanto riguardava gli MT, era da escludersi un’azione a sorpresa con simili mezzi; l’imboccatura del porto della Valletta aveva un’ampiezza tra i 300 e i 500 metri e la postazione di guardia si trovava al centro, motivo per il quale un MT avrebbe rischiato di essere avvistato nella fase più delicata, ossia mentre superava le ostruzioni, quasi immobile. Era, dunque, necessario studiare un’azione di forza, cosa a cui si stava lavorando, con tre o quattro MT che si sacrificassero per distruggere le ostruzioni e le possibili difese (mitragliatrici, riflettori) sui moli. Per conseguire qualche risultato utile, in realtà, sarebbe stato necessario operare con almeno otto MT.

Moccagatta richiamò anche l’attenzione sul fatto che la luna non avrebbe garantito luce sufficiente e che l’assalto doveva aver luogo all’alba per poter vedere l’imboccatura del porto, che era molto stretta e presentava affioramenti di roccia calcarea quasi a pelo d’acqua.

I MAS effettuarono alcune operazioni di ricognizione, che però si rivelarono di limitata utilità, data l’esigenza di non mettere in allarme le difese britanniche. Una di esse si svolse il 25 maggio e un’altra nella notte tra il 27 e il 28 maggio, condotta dallo stesso Moccagatta. Per avvicinarsi in silenzio all’isola, i piloti dei MAS utilizzarono i motori ausiliari e riuscirono a verificare le condizioni del mare e dei venti vicino all’entrata della Valletta. A quanto pare, non ci fu alcuna ricognizione con idrovolanti. Tuttavia, a causa del maltempo, l’operazione venne rimandata. Le ispezioni ripresero alla metà di giugno, con l’osservazione diretta della via d’accesso a Malta.

All’alba del 28 giugno, i mezzi d’assalto lasciarono Augusta sotto il diretto comando di Moccagatta. La flottiglia era costituita da otto MT e un MTS, rimorchiati dai MAS numero 451, 452, 509, 556 e 562. La sfortuna, però, era in agguato: per le avverse condizioni meteorologiche, un MT affondò e altri iniziarono a imbarcare acqua, costringendo Moccagatta a posticipare la missione.

La stessa situazione si ripresentò due giorni dopo, il 30 giugno, quando la flottiglia incontrò un forte vento che soffiava su Malta da sudest; intorno alle 15.00 un altro MT rischiò di colare a picco e fu rispedito ad Augusta. Moccagatta attese fino alle 8.00, quando il vento finalmente calò. Controllato lo stato dei mezzi, diede il via all’attacco contro l’isola. Tuttavia, proprio in quel momento, un MT perse il cavo del rimorchio, non riuscì ad accendere il motore e, dopo più di un’ora, fu lasciato indietro. Di lì a poco, un MAS ebbe un’avaria e tutti i tentativi di ripararlo risultarono vani. Moccagatta avrebbe voluto proseguire l’attacco comunque, ma il comandante del reparto di superficie, Giorgio Giobbe, era comprensibilmente contrario. Alla fine fu deciso il rientro ad Augusta.

Moccagatta era deciso a portare a termine l’operazione, sia pure con alcune modifiche. Il nuovo tentativo si sarebbe chiamato operazione Malta 2 e avrebbe visto l’impiego di due SLC, con il compito l’uno di distruggere gli ostacoli all’imboccatura del porto e l’altro di penetrare nella base di sommergibili di Marsa Muscetto, nella parte occidentale della Valletta. A trasportarli sarebbe stato un MTL (Motoscafo turismo lento) in convoglio con il Diana, un avviso in grado di raggiungere una velocità di 32 nodi. Il Diana fungeva da nave appoggio della spedizione. Doveva trasportare i nove MT fino al punto C, a 20 miglia marine da Malta, onde evitare i problemi tecnici che si erano presentati le due volte precedenti al termine della lunga traversata da Augusta. Uno si sarebbe danneggiato in fase di lancio e sarebbe andato perso durante l’operazione di traino.2

Prendevano parte all’operazione anche il MAS 451 e il MAS 452, con funzioni di scorta e rimorchio. Il MAS 451, in particolare, avrebbe rimorchiato l’MTL con gli SLC a bordo dal punto C al punto B, situato a soli 1000 metri dall’imboccatura del porto. Il punto A era quello da cui doveva essere forzata la base e quello in cui l’MTL doveva portare gli SLC. Quanto agli MT, il trasporto dal punto C al B fu affidato a un MTSM che poi avrebbe dovuto ricongiungersi al MAS 452.

Una volta distrutta la rete, gli MT avrebbero superato a tutta velocità l’ostruzione esterna e sarebbero entrati nel porto. Lo sbarramento interno presentava un varco di 2 metri per consentire il transito di piccole imbarcazioni, quali i pescherecci maltesi. Gli MT sarebbero passati di lì in fila, per poi sparpagliarsi e procedere all’attacco. Il primo obiettivo era un convoglio appena arrivato di navi britanniche reduci dall’operazione Substance.

Fu chiesta anche la cooperazione dell’aeronautica, incaricata di effettuare tre bombardamenti notturni a scopo diversivo e di coprire con i caccia la ritirata della flottiglia dalle acque maltesi. La data programmata del 26 luglio venne confermata, giacché il convoglio britannico era un ottimo bersaglio per i barchini esplosivi di Moccagatta. Purtroppo, lo sforzo aereo sarebbe stato inferiore alle aspettative, in parte perché era già stato concentrato contro il convoglio nella fase di avvicinamento al porto. La missione era alquanto complessa, soprattutto in considerazione della collaborazione (o, meglio, dell’assenza di collaborazione) cui erano abituate le forze armate italiane.

Teseo Tesei, che non aveva partecipato alla recente azione contro Gibilterra per problemi fisici, doveva guidare l’SLC incaricato di distruggere l’ostruzione chiamata breakwater viaduct («viadotto frangiflutti») dagli inglesi e ponte di Sant’Elmo dagli italiani. Uomo dal carattere particolare, Tesei ebbe a dire: «L’esito della missione non ha molta importanza … e neanche l’esito della guerra. Quello che veramente conta è che vi siano uomini disposti a morire nel tentativo e che realmente muoiano: perché è dal sacrificio nostro che le successive generazioni trarranno l’esempio e la forza per vincere».3

La notte del 23 luglio, i MAS fecero un’ultima ricognizione. Concluso l’esame delle fotografie aeree, fu dato il via all’operazione. Il viaggio verso Malta procedette senza intoppi: tempo buono, assenza di vento e nessuna delle spiacevoli avarie che avevano contraddistinto i tentativi precedenti.

Intanto, comunque, coloro che presidiavano Malta erano consapevoli che qualcosa si stava tramando. Prima, un’unità speciale di collegamento che eseguiva intercettazioni e decodifiche con l’Ultra avvisò la guarnigione di un possibile attacco. Poi, il 25 luglio alle 20.55, l’unità radar sull’isola intercettò il Diana mentre si avvicinava per rilasciare gli assaltatori. Infine, dalle 22.20 in poi si udirono i motori delle imbarcazioni.4

Alle 23.00 il gruppo si radunò nel punto C. Tutto stava procedendo per il meglio, quando il cavo di rimorchio del MAS 451 si impigliò nell’elica e l’imbarcazione andò a colpire e danneggiare l’MTL. Il MAS dovette abbandonare la formazione. Mentre la flottiglia avanzava verso il viadotto frangiflutti si accesero due riflettori. Incurante delle luci, l’MTL proseguì verso l’ostruzione. I due SLC vennero lanciati, ma quello del capitano di corvetta Franco Costa si rifiutò di funzionare. Tesei, pertanto, dovette agire da solo e molto tempo fu sprecato nel tentativo di riavviare il secondo SLC.

Nel frattempo, il radar di Malta aveva già intercettato (alle 22.30) la formazione e allertato le difese, anche se alcuni Swordfish di pattuglia non erano riusciti ad avvistare alcun vascello nemico. Alle 4.25 un debole attacco aereo italiano, condotto allo scopo di distrarre i difensori, ebbe invece l’effetto di mettere ulteriormente in allarme l’artiglieria della guarnigione.5

Tesei fu visto partire con il suo secondo verso il ponte di Sant’Elmo, deciso a far saltare l’ostruzione entro le 4.30. Tesei era noto a Bocca di Serchio per i suoi modi austeri e per i suoi lunghi discorsi, ma aveva una totale dedizione alla missione. Stando a quanto scrisse Costa nel rapporto sull’azione, queste furono le sue parole: «Alle 4.30 la rete deve saltare e salterà. Se sarà tardi, spoletterò al minuto».6 Dal momento che l’operazione dipendeva dalla rimozione dell’ostruzione, Tesei intendeva farsi esplodere insieme al ponte se quello fosse stato l’unico sistema per rispettare la tabella di marcia. Ciò che accadde in seguito sotto Sant’Elmo non è chiaro. Quel che si sa è che alle 4.45 la rete ostruttiva saltò in aria con il ponte, in tempo per permettere agli otto barchini di lanciarsi verso l’imboccatura del porto.

Secondo fonti britanniche, Tesei fu avvistato a circa 300 metri da una sentinella, un caporale maltese di nome Zammit facente parte della batteria Upton, il quale aprì il fuoco con un cannone automatico. È dunque possibile che Tesei e Pedretti siano stati uccisi prima di raggiungere l’ostruzione. A favore di tale tesi si è pronunciato Joseph Caruana che, in un articolo pubblicato nel 1994, ha sostenuto che l’SLC recuperato dai sommozzatori a Malta nel 1966 era quello di Tesei.7

Una seconda possibilità è che effettivamente Tesei abbia sacrificato la propria vita, tenuto conto del fatto che era descritto da tutti i suoi amici come una persona per cui il dovere veniva prima di tutto e che da qualche tempo aveva iniziato a soffrire di problemi cardiaci, dovuti in parte all’intenso addestramento. Se il suo SLC andò perduto, può darsi che lui abbia staccato la carica esplosiva e l’abbia fatta saltare di persona presso il ponte oppure, come ha ipotizzato qualcuno, l’abbia piazzata in un punto dove venne fatta accidentalmente detonare dal fuoco difensivo o da uno degli MT giunti in seguito.

Gli MT erano numerati da 1 a 9 (il 5 era quello danneggiato) e avevano tutti ordini specifici. Il numero 1 doveva guidare l’assalto, aspettando però che il 2 e il 3 facessero saltare in aria l’ostruzione qualora Tesei non vi fosse riuscito. A conti fatti, è più probabile che sia stato uno di questi due MT a distruggere il ponte di Sant’Elmo e a farlo franare in acqua, bloccando ulteriormente il passaggio.

Gli MT successivi dovevano penetrare nel porto e attaccare le navi, come programmato. Al numero 9 era stato affidato il compito di mettere fuori uso eventuali difese fisse, quali postazioni di cannoni e nidi di mitragliatrici. Quando il numero 2 si lanciò all’attacco, il suo pilota, il tenente di vascello Roberto Frassetto, si tuffò in acqua, mentre l’operatore del numero 3 esplose insieme al proprio barchino, secondo Frassetto nel tentativo di fare da apripista agli altri. Ma anziché schiudere un varco, le esplosioni fecero crollare il ponte ostruendo completamente la via che i barchini esplosivi avrebbero dovuto seguire per superare lo sbarramento esterno. Gli MT rimasti si lanciarono verso il punto da cui avevano sentito giungere il fragore dello scoppio, virando lievemente a destra anziché puntare dritti perché la corrente li aveva trascinati verso est.

Gli inglesi fecero fuoco pesante fin dall’inizio, utilizzando una squadriglia di aerei proveniente da un vicino campo d’aviazione e cannoni e mitragliatrici di ogni sorta. I cannoni di difesa costieri erano manovrati quasi esclusivamente da maltesi, gente che sapeva combattere. Ecco come un testimone descrisse la scena: «Per alcuni minuti la zona illuminata dell’imboccatura del porto fu battuta dal devastante fuoco incrociato di proiettili traccianti. Tutto il gruppo degli assaltatori era stato catturato dal fascio di luce dei riflettori e, uno dopo l’altro, i barchini affondarono o esplosero. Così l’attacco fu totalmente respinto». L’unico mezzo non colpito fu quello del sottufficiale Fiorenzo Capriotti, il quale attese fino all’alba per ritentare l’attacco, ma quando si avvicinò fu colpito dagli inglesi e si tuffò in mare. Riuscì ad aiutare un uomo ferito a raggiungere un’imbarcazione e aspettò lì insieme a lui.8

L’SLC di Costa stava ancora cercando di avanzare verso il porto, ma non funzionava bene, per cui, dopo cinque ore in mare e numerosi attacchi aerei, Costa attivò il dispositivo di autodistruzione e raggiunse la terraferma, dove fu catturato con il suo secondo.

Un altro disastro doveva ancora abbattersi sugli italiani. Durante il viaggio di ritorno verso Augusta, la RAF attaccò i MAS e gli altri vascelli della spedizione. Secondo il punto di vista della marina, la Regia Aeronautica non aveva completamente rispettato i piani. A quanto pare, il primo bombardamento su Malta non fu addirittura effettuato, mentre il secondo e il terzo furono condotti da un numero minimo di bombardieri BR20. Ma, particolare ancora più importante, i dieci caccia messi a disposizione per scortare la pattuglia d’assalto sulla via del ritorno a casa si rivelarono tutt’altro che sufficienti a contrastare i trenta aerei della RAF che si erano subito sollevati in volo da Malta. Bersagliato dal fuoco incessante dei velivoli, il piccolo convoglio fu annientato. Il comandante della X flottiglia MAS, Moccagatta, il comandante del reparto di superficie, Giobbe, e l’ufficiale medico dei mezzi d’assalto, il capitano di vascello Bruno Falcomatà, rimasero uccisi. Con un bilancio complessivo di 16 morti, 18 prigionieri e solo 11 sopravvissuti, l’operazione si risolse in un completo disastro, ma, per il coraggio dimostrato da chi l’aveva tentata, in Italia divenne nota come il «glorioso insuccesso».

Nel suo diario di guerra, Cunningham scrisse: «All’alba del 26 luglio il Grand Harbour è stato pesantemente attaccato da una ventina di motoscafi esplosivi e siluranti monoposto. L’assalto è stato respinto con successo. I motoscafi esplosivi hanno centrato il viadotto frangiflutti di Sant’Elmo, ma i cannoni di difesa del porto hanno impedito a qualunque mezzo di proseguire e in circa tre minuti l’attacco è stato completamente sventato».9

Il 27 luglio l’ammiraglio di squadra di Malta inviò un messaggio cui fece seguito, il 13 agosto, un rapporto più circostanziato sull’operazione. A questo secondo documento era allegata la traduzione degli ordini d’attacco italiani rinvenuti su un MAS. Cadde in mano inglese anche un MT rimasto intatto che, insieme agli ordini ritrovati, permise ai britannici di capire perfettamente il metodo di attacco. L’MT fu trasferito prima a Gibilterra e poi in Gran Bretagna, dove servì come modello per la costruzione di dieci boom patrol boats pensati per essere trasportati da un bombardiere Lancaster, idea che però in seguito fu scartata.10 Dopo questo episodio, Cunningham avvertì tutte le basi mediterranee, Gibilterra compresa, di possibili attacchi di sommergibili tascabili.

A Gibilterra l’avvertimento fu raccolto soprattutto dal tenente di vascello Bill Bailey, un ufficiale del reparto sminamento, ben presto seguito dal tenente di vascello Lionel K.P. Crabb. I due avviarono un corso di addestramento subacqueo per volontari che mirava a preparare personale specializzato nell’ispezione periodica delle carene delle navi in porto e nell’individuazione e neutralizzazione di eventuali cariche esplosive a esse attaccate.11 Crabb e Bailey diedero così vita al nucleo di quella squadra di sommozzatori che sarebbe diventata una delle unità più attive di Gibilterra, l’UWWP (Underwater Working Party).12

In Italia, intanto, la X MAS si trovò orfana di due dei suoi tre comandanti. L’unico rimasto era il capitano di corvetta Junio Valerio Borghese, responsabile del reparto subacqueo.

Le pesanti perdite subite nella baia di Suda e nel «glorioso insuccesso» maltese – in termini sia di morti e feriti sia di personale addestrato fatto prigioniero – mise in crisi la X MAS, il cui comando fu assunto in via temporanea da Borghese, che conservò anche quello delle squadre subacquee.

L’unità aveva subito gravi perdite anche nell’equipaggiamento. Fu necessario mettere in cantiere nuovi SLC, con la speranza di migliorarli, visto che le serie usate nelle azioni condotte fino a quel momento avevano sempre presentato avarie e problemi. L’ammiraglio De Courten venne sostituito dall’ammiraglio di divisione Carlo Giartosio, ma ciò non fu necessariamente una conseguenza dei fallimenti. È più probabile, invece, che gli sforzi di De Courten fossero apprezzati al punto da essere premiati. All’indomani dell’armistizio del settembre 1943, egli divenne ministro della Marina italiana.13

Quale mezzo di trasporto degli SLC, Giartosio assegnò alla X MAS il sommergibile Ambra, un battello della classe 600 posto sotto il comando del tenente di vascello Mario Arillo, il quale si dimostrò un capo abile e audace.

L’esperienza maturata negli infruttuosi attacchi contro Gibilterra aveva dimostrato che molti dei possibili obiettivi alla fonda erano costituiti da navi da trasporto, per le quali le teste esplosive degli SLC erano troppo grandi. Per tale motivo il tenente di vascello Eugenio Wolk cominciò a addestrare gli «uomini gamma», che proprio in questo periodo vennero accorpati al reparto subacqueo della X MAS guidato da Borghese, per le operazioni di sabotaggio di mercantili in porti neutrali e nemici. Costoro erano armati di cariche esplosive assai più leggere di quelle trasportate dai «maiali», ma comunque abbastanza potenti da affondare navi cisterna e da trasporto.

Una volta perfezionati gli SLC e trasformato l’Ambra nel loro «avvicinatore», era necessario occuparsi attivamente del disastrato reparto di superficie. A comandarlo fu chiamato il capitano di corvetta Salvatore Todaro, il quale si trovò davanti il difficile compito di ricostruire gli MT e, soprattutto, di addestrare i piloti.

I mesi successivi furono dunque spesi per risanare mezzi e uomini. Venne messo a punto anche un nuovo sistema di trasporti, che comprendeva i due pescherecci Cefalo e Sogliola e il motoveliero Costanza (che aveva un motore di potenza limitata). In questo periodo fu ideato un nuovo barchino, l’MTSM (MTS modificato), che tuttavia fu pronto a entrare in azione solo nel 1943.

Fu in seguito a tale riorganizzazione che venne pianificata una nuova azione contro Gibilterra, l’operazione BG4. Il piano era lo stesso della BG3: il sommergibile Scirè di Borghese avrebbe portato tre SLC biposto nella baia di Algeciras, dove li avrebbe rilasciati. Le squadre erano le medesime, ma questa volta gli apparecchi erano stati sottoposti ad accurati collaudi, che avevano tenuto conto dei difetti meccanici emersi nel corso delle precedenti missioni.

Per approfittare di notti più lunghe, Borghese dovette aspettare fino a settembre prima di partire per il suo quarto tentativo di forzare il porto di Gibilterra, che adesso era costantemente illuminato. L’operazione si sarebbe dovuta svolgere tra il 18 e il 22 del mese, quando ci sarebbero state una completa oscurità, propizia al rilascio degli SLC, e la bassa marea.

Il 10 settembre 1941, lo Scirè, con Borghese al comando e gli SLC 140, 210 e 220 nei loro cilindri in coperta, salpò da La Spezia diretto in Spagna. Il 16 arrivò nello stretto di Gibilterra, che passò senza inconvenienti in immersione. Il giorno seguente, Borghese lasciò il sommergibile sul fondo vicino a Cadice e aspettò che scendesse la sera per entrare nel porto e imbarcare gli assaltatori subacquei. Quindi, riprese la navigazione verso Algeciras. La notte successiva si imbatté in un convoglio scortato da cacciatorpediniere che veniva dalla direzione opposta, ma non fu avvistato.

La notte ancora successiva, quella del 19, lo Scirè entrò nella baia di Algeciras e la risalì sino alla foce del fiume Guadarranque. All’1.20 del 20 settembre gli SLC furono scaricati in mare per iniziare la loro avventura. Borghese invertì la rotta e fece ritorno verso La Spezia.

Gli SLC cominciarono ad avvicinarsi lentamente al porto di Gibilterra, dove avevano come obiettivi una corazzata della classe Nelson, una portaerei e un mercantile. La coppia composta da Amedeo Vesco e Antonio Zozzoli doveva minare la corazzata, ma si imbatté in una motovedetta. Verso le 3.30 Vesco udì una serie di esplosioni subacquee e, sospettando di essere stato individuato dagli idrofoni, decise di cambiare bersaglio e di ripiegare su una delle navi in rada. Applicò la carica esplosiva a una nave da trasporto e poi si diresse verso la costa spagnola. Durante l’operazione, ebbe problemi con l’autorespiratore, per cui bevve acqua contaminata dal sale assorbente dell’apparecchio e fu costretto a usare quello di riserva, il tutto mentre il suo secondo incorreva in un guaio analogo. Per fortuna, l’SLC funzionò a dovere e i due portarono a compimento la missione. Una volta giunti sulla terraferma, fecero in tempo a nascondere gli autorespiratori, prima di essere arrestati da sentinelle spagnole. Dichiararono di essere naufraghi e, in breve, furono recuperati da un capitano italiano, un certo Piero Pierleoni, il quale si affrettò a distruggere gli autorespiratori.

L’SLC di Decio Catalano e Giuseppe Giannoni iniziò a muoversi regolarmente intorno all’1.30, ma all’imboccatura del porto si imbatté anch’esso in una motovedetta, tanto silenziosa da non essere udibile a 50 metri. Per sfuggire all’imbarcazione che sembrava seguire il loro «maiale», Catalano si immerse. Tornò in superficie un quarto d’ora più tardi, ma ritenendo di essere ormai troppo lontano e troppo in ritardo per entrare in porto decise di colpire una delle navi in rada.

Dapprima lui e il suo compagno minarono una nave che poi scoprirono essere italiana – la Pollenzo di Genova –, per cui furono costretti a rimuovere l’esplosivo e a piazzarlo sotto un’altra imbarcazione. Alle 5.16 Catalano regolò la spoletta a orologeria e si allontanò a nuoto dalla zona, dopo aver affondato l’SLC (con il dispositivo di autodistruzione) ed eliminato l’autorespiratore. Alle 7.15 lui e Giannoni raggiunsero la costa. Più tardi Catalano capì dalla grossa macchia bianca sulla superficie dell’acqua che l’SLC era andato distrutto. Rimase a osservare e alle 9.16 vide una colonna d’acqua di 30 metri sollevarsi dalla poppa della nave, segno che la carica esplosiva aveva fatto il suo dovere.

Nel frattempo anche la terza squadra, composta da Licio Visintini e Giovanni Magro, incontrava difficoltà nell’avvicinamento al porto. Il loro obiettivo era la portaerei Ark Royal, che si rivelò non facile da raggiungere (anche se Visentini e il suo compagno alla fine furono gli unici a riuscire a entrare nel porto). Davanti all’imboccatura trovarono delle motovedette, ma non furono individuati. A un certo punto, comunque, furono costretti a immergersi e sentirono un’imbarcazione passare sopra il loro SLC.

Alle 3.45 Visintini e Magro procedevano a una profondità di 11 metri in direzione della rete ostruttiva, superata la quale entrarono nel porto, dove passarono accanto a quello che pareva un incrociatore di 7000 tonnellate. Poiché non c’era più tempo per tentare di raggiungere la portaerei, dovettero scegliere un altro obiettivo. Visintini ritenne che l’incrociatore fosse troppo vicino all’imboccatura, dove c’erano continue esplosioni di bombe di profondità, e optò per una nave cisterna.

L’operazione di collocamento della carica esplosiva andò bene, senza nessuno degli inconvenienti tecnici che avevano afflitto le precedenti missioni. Visintini e il suo compagno fuggirono dal porto e raggiunsero la costa spagnola sani e salvi.

La mattina del 20 settembre 1941, nel porto di Gibilterra esplosero tre navi. La nave cisterna Fiona Shell di 2444 tonnellate, minata da Vesco, si spezzò in due tronconi e colò a picco, mentre due esplosioni successive squarciarono la motonave Durham di 10.893 tonnellate, minata da Catalano e Giannoni, e un’altra nave cisterna, la Denbydale, di 8145 tonnellate, minata da Visintini e Magro. Quest’ultima detonazione non propagò l’incendio ad altre navi, come Visintini aveva sperato, perché la Royal Navy usava un combustibile ad alta densità che non prendeva fuoco facilmente. La Durham riportò gravi danni, mentre la Denbydale affondò, riversando nel porto grosse quantità di carburante. In seguito fu recuperata e riparata.

L’ammiraglio Somerville descrisse così le conseguenze dell’attacco: «Alle navi in porto è stato ordinato di chiudere tutte le porte stagne e di aumentare la pressione. Sono state fatte uscire delle lance a motore … per ispezionare l’imboccatura della baia. … Motoscafi armati con bombe di profondità sono stati inviati in perlustrazione all’interno delle ostruzioni alle due entrate. Un autorespiratore rinvenuto dove la Fiona Shell è stata affondata e la Durham danneggiata indicherebbe che la probabile causa di tutto ciò è stato un attacco condotto da sommergibili con due uomini d’equipaggio».14

Dopo questo primo importante successo dei siluri biposto, tutti i membri della spedizione furono decorati con la medaglia d’argento al valor militare. Borghese fu promosso capitano di fregata e ricevuto in udienza da Vittorio Emanuele III. Fu solo allora che il re apprese che le esercitazioni della X MAS si svolgevano nei pressi della sua tenuta. In seguito visitò il centro di addestramento e assistette a un’esercitazione subacquea degli SLC.

La motivazione della promozione di Borghese recitava, tra l’altro: «In ognuna delle missioni riusciva a riportare alla base il sommergibile e il suo equipaggio, nonostante le difficoltà frapposte dalla insistente caccia del nemico e dalle navigazioni subacquee spinte fino ai limiti della resistenza fisica degli uomini. Magnifico esempio di organizzatore e di comandante».15

Secondo il rapporto del 2 ottobre dell’addetto navale tedesco, l’ammiraglio Werner Löwisch, i tedeschi conoscevano i dettagli dell’operazione. Tuttavia, l’ammiraglio Giartosio non rivelò che gli assaltatori subacquei erano giunti in Spagna in aereo, forse per evitare di dare troppe spiegazioni sulla rete d’appoggio clandestina che l’Italia aveva nel paese iberico.16 In effetti, l’Italia mantenne il massimo riserbo sui suoi mezzi d’assalto, come risulta da un altro rapporto in cui l’ammiraglio Löwisch accusa la marina italiana di non avergli illustrato nei particolari le armi segrete di cui disponeva.17

Anche gli inglesi avevano un’idea ancora vaga del tipo di ordigni che li avevano colpiti, ma dopo la nuova missione di Borghese tutti i dubbi sul loro potenziale distruttivo vennero fugati.