XIV
La guerra fredda
Lo sviluppo di un simile fenomeno [la Destra radicale] in un paese democratico per un periodo tanto lungo … non è pensabile senza il supporto di elementi estranei all’area della Destra radicale … Ma è innegabile che per molto tempo considerevoli settori di opinione pubblica moderata e conservatrice abbiano seguito con simpatia non sempre implicita i gruppi di destra.
Franco Ferraresi1
Il 19 maggio 1945 Borghese fu condotto in una prigione nella zona di Cinecittà, dov’erano concentrati numerosi gerarchi tedeschi e fascisti. Il giorno successivo fu invitato a preparare un riassunto scritto delle azioni di guerra compiute dalla X MAS, dopodiché cominciarono gli interrogatori con funzionari dei servizi segreti britannico e americano, soprattutto in relazione al battaglione Vega che aveva agito dietro le linee.
L’interesse degli Alleati era concentrato proprio sulle operazioni di sabotaggio e spionaggio effettuate dai reparti della X MAS. Come ha dichiarato Giorgio Pisanò, storico delle forze armate dell’RSI, ex agente dei servizi segreti italiani e poi parlamentare dell’MSI (Movimento sociale italiano), in un’intervista rilasciata a Claudio Gatti: «Per gli Alleati noi eravamo preziosi perché avevamo infiltrato le bande comuniste, ne conoscevamo segreti e tattiche e avevamo elaborato le prime tecniche di antiguerriglia. Me ne resi conto personalmente quando mi interrogarono. Volevano sapere come avevamo operato nella guerra ai comunisti, cosa avevamo fatto. Insomma era chiaro che sapevano della nostra esperienza nella lotta ai comunisti e volevano servirsene».2
Per raccogliere informazioni, Pisanò, membro della X MAS, si era infiltrato due volte nel fronte alleato in abiti civili. Dall’Abwehr era stato addestrato a svolgere operazioni paracadutistiche, infiltrazioni dal mare e missioni segrete ed era stato assegnato al commando Cora, di cui era responsabile il maggiore Jürgen von Korff. Conosciuto con il nome di battaglia di «Medio», ebbe la fortuna di sopravvivere alla guerra e di poter raccontare le esperienze vissute, a differenza di alcuni suoi amici, che furono fatti prigionieri e fucilati come spie.
I servizi segreti britannici catturarono Pisanò nell’aprile 1945, offrendogli lo status di prigioniero di guerra garantito dalle convenzioni internazionali in cambio di informazioni sulle azioni svolte durante il conflitto. Ciononostante, in seguito lo consegnarono alle autorità italiane, che rinchiusero il prigioniero in carcere come spia filotedesca, un’accusa che avrebbe potuto comportare la condanna a morte. Ma Pisanò riuscì a sfuggire alla pena capitale grazie a un successivo trasferimento in una prigione controllata dagli Alleati. Era lo stesso tipo di protezione che avrebbe salvato Borghese.3
Il 6 giugno 1945 il Principe nero compì trentanove anni. Nel suo diario, ricorda che quel giorno ricevette la visita di un ufficiale della polizia militare britannica che voleva sincerarsi delle sue condizioni di prigioniero. Il 19 ebbe un breve colloquio anche con Harold Alexander, in ispezione alla prigione, e colse il pretesto per fargli notare di non aver più ricevuto notizie della sua famiglia, ottenendo dal generale inglese una promessa di aiuto.
Intanto, terminato il riassunto sulle attività della X MAS, consegnò il manoscritto di sessanta pagine a un capitano inglese di cui non si conosce il nome, il quale si presentò come l’ufficiale che aveva interrogato gli assaltatori subacquei italiani catturati nel corso di passate azioni. Il 23 luglio vide il suo vecchio amico Karl Wolff, anch’egli recluso a Cinecittà.
Nell’ottobre 1945, Borghese fu rilasciato in quanto gli Alleati ritennero che non fosse un criminale di guerra. Ma la giustizia italiana lo voleva e procedette a spostarlo sull’isola di Procida, da dove stava per essere mandato a Milano per il processo quando l’ordine di trasferimento fu revocato. Il principe, dunque, trascorse un periodo tra le prigioni di Procida, Poggioreale, Regina Coeli e Forte Boccea.4
Nel febbraio 1946 arrivò a Procida il maresciallo Graziani, rinchiuso nella stessa camerata di Borghese e di altri alti ufficiali come il generale Gastone Gambara, che aveva prestato servizio nell’Africa settentrionale con Rommel. Il regime carcerario era molto duro e Graziani chiese di cambiare destinazione, scrivendo più tardi: «Borghese non aveva pace, camminava avanti e indietro come un animale in gabbia».5
Qualche tempo dopo un tribunale milanese mise il principe sotto processo, avviando una serie di iniziative legali affinché gli fosse garantita la massima equità di giudizio. La decisione di procedere non venne presa subito a causa delle precarie condizioni di salute dell’imputato, che comunque, in quella circostanza, fu aiutato dalle sue amicizie politiche e familiari. Il processo si sarebbe dovuto tenere a Milano, giacché la X MAS aveva operato nel Nord, ma la Corte di cassazione lo fece spostare a Roma.
Per l’accusa, il trasferimento della sede processuale costituiva un notevole vantaggio per Borghese. Molti testimoni sui quali si reggeva l’impianto accusatorio si sarebbero dovuti recare a Roma per deporre, un viaggio costoso che non tutti potevano permettersi nella disastrata Italia del dopoguerra. A Roma, inoltre, il principe poteva contare sull’appoggio delle forze conservatrici dell’alta società, vista la sua appartenenza a una delle famiglie più illustri della capitale, che vantava un papa e diversi cardinali tra i propri antenati. I tribunali romani, poi, erano più conservatori di quelli milanesi, in parte perché Roma era stata dichiarata città aperta nel corso della guerra e come tale non aveva subito le più aspre lotte partigiane. Se a tutto ciò si aggiunge il fatto che molti vecchi burocrati fascisti erano rimasti al loro posto dopo la fine della guerra e che Borghese, grazie alla sua situazione finanziaria, poteva permettersi di preparare un’attenta difesa, risultava piuttosto evidente che il principe avrebbe avuto maggiori probabilità di vincere il processo a Roma che a Milano.
Nonostante questi elementi a suo favore, Borghese passò due anni in carcere. Il 15 ottobre 1947, iniziò il processo davanti alla sezione speciale della Corte d’assise, istituita in tutta Italia per giudicare i fascisti che si erano schierati con l’RSI e le sue forze armate. Due erano i capi di imputazione dei quali il principe doveva rispondere. Il primo era articolato in quattro punti: primo, aver assunto il comando della X MAS e la carica di sottocapo di stato maggiore della marina dell’RSI; secondo, aver disposto che reparti della X MAS svolgessero azioni di guerra al fronte insieme ai soldati tedeschi; terzo, aver ordinato o consentito che i suoi subalterni disponessero o facessero eseguire crudeli azioni di rastrellamento di partigiani per sgombrare da qualunque minaccia le retrovie del nemico; quarto, aver ordinato o, in ogni caso, permesso ai suoi sottoposti di compiere arbitrarie azioni di saccheggio.6
Il secondo capo d’imputazione era il collaborazionismo con il nemico tedesco.
Dopo una settimana di dibattimenti, le udienze furono rimandate al 1° dicembre. Parenti e amici di vittime delle rappresaglie della X MAS avevano presentato nuove accuse, che richiedevano ulteriori indagini. Spesso alle denunce mancavano dati importanti, quali i nomi delle persone uccise. Il pubblico ministero aprì un’inchiesta ma, nella maggior parte dei casi, non riuscì a trovare elementi convincenti che attestassero i crimini. Concluse che non c’erano prove certe dei fatti di cui l’imputato era accusato e pertanto chiese che Borghese venisse dichiarato non colpevole in merito alle atrocità commesse durante la guerra civile. Ma il caso non era ancora chiuso.
Il fatto che il principe non potesse essere direttamente collegato con alcuna di tali atrocità non significava che esse non avessero avuto luogo. In fase dibattimentale emersero particolari relativi a parecchi partigiani giustiziati perché ritenuti franchi tiratori.7 In alcuni casi essi furono anche torturati. Un certo Sergio Murdaca, catturato dai tedeschi vicino a Novara, venne sottoposto a sevizie, fucilato dalla X MAS e poi gettato in una casa in fiamme.
Inoltre, trentaquattro partigiani della divisione Matteotti furono fucilati tra il giugno e l’ottobre 1944 nel Canavese, in Piemonte; dodici vennero uccisi in azione e otto fucilati dopo la cattura a Valmozzola (Parma); sei furono giustiziati e altri torturati a Crocetta del Montello (Treviso); cinque assassinati a Castelletto Ticino e dodici a Borgo Ticino, in provincia di Novara. In alcuni casi, le vittime dei crimini erano partigiane, violentate e uccise.
Non è chiaro fino a che punto Borghese fosse implicato nelle esecuzioni e negli altri orrori perpetrati dalla X MAS. I suoi reparti conducevano le azioni contro la Resistenza attenendosi agli ordini che ricevano dai tedeschi, che avevano il controllo ufficiale di tutte le operazioni alle quali l’unità italiana partecipava. L’accusa più grave a carico di Borghese era dunque quella di collaborazionismo, di aver aiutato i nazisti a sgomberare le retrovie dagli attacchi della guerriglia per garantire il funzionamento delle linee di trasporto e approvvigionamento nemiche. Inoltre, non era un mistero per nessuno che anche i partigiani si erano resi responsabili di atti immorali e illegali.
In ogni caso, i particolari sulle uccisioni non erano abbastanza precisi da consentire al tribunale di dichiarare Borghese colpevole di quei crimini. Il processo era in una fase di stallo quando, il 24 gennaio 1948, venne scoperto un complotto per liberare il principe, con il conseguente arresto di diversi fascisti.8
Le udienze ripresero l’8 novembre 1948, in quanto la corte doveva ancora pronunciarsi sul costante aiuto che l’imputato aveva fornito al nemico contro gli Alleati e i partigiani. Era intorno a questo punto, comprovato dal lungo elenco di operazioni antipartigiane effettuate dalla X MAS, che si giocava il processo.9
Alla fine, il 17 febbraio 1949, Borghese fu giudicato colpevole di collaborazionismo con i tedeschi e condannato a dodici anni di detenzione. Fu, invece, assolto dall’accusa di crimini di guerra. Franco Ferraresi ha dato voce alla delusione di coloro che avrebbero voluto una pena più severa, quando fu data lettura del verdetto: «I crimini delle bande di Borghese erano troppo evidenti e la sentenza … non poté essere che l’ergastolo. Questo in teoria. In pratica la Corte, con una scandalosa applicazione di attenuanti, misure di clemenza e decorrenza dei termini, ridusse la pena».10 Una delusione resa ancor più cocente dalla notizia che quello stesso giorno Borghese fu scarcerato e poté tornare nella sua tenuta di Artena, vicino a Roma. Il giudice, tenendo conto di vari elementi a suo favore e dei quasi quattro anni già passati in carcere, decise che aveva scontato una condanna sufficiente.
La stampa, soprattutto quella di sinistra, gridò allo scandalo. Senza dubbio, una sentenza del genere poteva essere emessa soltanto nel 1948. Negli ultimi giorni dell’aprile 1945, gli animi erano talmente accesi che Borghese, probabilmente, sarebbe andato incontro a un’esecuzione sommaria e ancora nel 1946 avrebbe rischiato l’ergastolo. Ma gli elementi che avevano contribuito a mitigare la pena, di fatto, erano gli stessi che l’avevano salvato nell’aprile 1945.11
In una lettera dell’aprile 1949 indirizzata a un ex membro della X MAS, il principe dichiarava che la sentenza era stata peggiore di quanto si era aspettato. Ma, in ogni caso, invitava i camerati di un tempo a lavorare alla ricostruzione del paese e a tenersi pronti per il giorno in cui la patria li avrebbe richiamati.
Nei trent’anni successivi, l’Italia sarebbe stata scossa da atti di disobbedienza civile e, a tratti, da una sorta di guerra civile che avrebbe visto contrapposti i partiti di destra e di sinistra. Senza ombra di dubbio, responsabile di queste azioni non fu l’estrema sinistra, come dimostra uno studio che «attribuisce l’83 per cento dei 4384 episodi di violenza ufficialmente registrati nel periodo tra il 1969 e il 1975 all’estrema destra». Fu in tale clima che le idee di destra di Borghese si accentuarono.12
Dopo l’uscita dal carcere, Borghese, con una certa riluttanza, avrebbe fatto il suo ingresso nell’arena politica in qualità di presidente onorario dell’MSI, poltrona che tuttavia non occupò a lungo. Il partito, fondato nel 1946 a guerra civile da poco conclusa, raccoglieva diversi movimenti di destra, ma soprattutto ex sostenitori del fascismo. Le opinioni erano, dunque, molteplici e spesso i confronti degeneravano in risse, il che, alla lunga, convinse il principe a rassegnare le dimissioni.13
Il fascismo del dopoguerra era diverso da quello del Ventennio. Pur diviso in molte fazioni differenti, era tenuto in vita da due potenti motori. Uno era l’anticomunismo, elemento che aveva reso Borghese gradito ai partiti dominanti e ai servizi segreti nazionali, giacché sia lui sia il resto della sua corrente erano convinti sostenitori della Nato. L’altro era la constatazione che, nella situazione creatasi nel dopoguerra, nessuna nazione del Vecchio Continente avrebbe potuto contrastare da sola le due superpotenze e, pertanto, l’Europa avrebbe dovuto essere una terza forza e «opporsi al duplice imperialismo del comunismo e del capitalismo finanziario internazionali, fonti di materialismo, sfruttamento e disumanizzazione». In Italia, fu il movimento fascista a curare i molti legami internazionali che si estendevano dalla Spagna di Franco, all’America meridionale e al Sudafrica. E fu sempre questo movimento la matrice da cui scaturirono molti degli atti di terrorismo dell’Internazionale nera.14
Nel settembre 1950, l’ambasciatore americano James Clement Dunn annotò una conversazione avuta con un funzionario del ministero degli Interni italiano. Diceva di aver saputo che Borghese stava riorganizzando reparti paramilitari da usare contro il PCI, ma di avere anche intuito che non avrebbe intrapreso alcuna iniziativa in tal senso, a meno che al ministero della Difesa non vi fossero oppositori del fascismo.15
In qualche modo, l’MSI era riuscito a far sì che i seguaci di Borghese ricevessero punizioni lievi nei processi che si celebrarono all’indomani della fine della guerra e che, comunque, interessarono solo una piccola parte di coloro che si erano compromessi con il regime di Mussolini. Nelle elezioni politiche del 1953, il partito ottenne un milione e mezzo di voti e trentotto seggi parlamentari, conquistandosi un ruolo politico importante, che avrebbe mantenuto negli anni a venire. Un nuovo, grosso impulso lo ricevette nel 1962, in occasione delle elezioni comunali di Roma, grazie a un’intensa campagna a sostegno di uno dei suoi candidati alla poltrona di sindaco della capitale.16
Lasciatosi alle spalle i casi giudiziari, Borghese era pronto a rifarsi una carriera. Più semplicemente, sognava di ritornare alla vita d’azione. Come ha scritto Jeffrey McKenzie Bale, «era un irrequieto che non sopportava l’inattività, un ex eroe militare che, in virtù del suo prestigio, altre forze politiche cercavano di utilizzare per i propri fini».17
Il primo indizio del suo ritorno sulla scena pubblica fu piuttosto bizzarro. In un tentativo di unificare l’MSI con il Partito monarchico (ricordiamo che il referendum del 1948 aveva decretato la fine della monarchia in Italia), Borghese venne proposto quale nuovo re in ragione delle sue nobili origini. Ciò accadde nel 1950, nel corso di una riunione tra i due partiti, alcuni rappresentanti del Vaticano e l’ambasciata americana. I sostenitori dei Savoia reagirono imponendo l’immediato ritiro di quella «proposta donchisciottesca e ridicola».18
L’idea fu accantonata, ma Borghese continuò a ricomparire sulla scena. Con il suo carisma, era un personaggio in grado di chiamare a raccolta gli elementi «patriottici» dell’Italia e di convincerli a sposare la causa della Nato e altri ideali incarnati dall’MSI. Tra l’altro, questi erano gli stessi elementi su cui la CIA stava cercando di far leva per combattere il comunismo, al punto da organizzare un incontro con il principe ad Artena. Non ci sono prove del fatto che James Jesus Angleton (il quale ha sempre negato di avere rivisto Borghese dopo il 1945) vi abbia partecipato, ma è certo che Angleton fu assegnato all’Italia dal capo della CIA, Allen Dulles.19
Le indiscrezioni che circolavano sull’incontro e sull’intenzione di Borghese di costituire una nuova organizzazione di destra suscitarono preoccupazione nei dirigenti dell’MSI, i quali, temendo un’ulteriore frammentazione della destra, si affrettarono a prendere contatto con il principe e a convincerlo a unirsi a loro. Fu così che, il 2 dicembre 1951, Borghese venne nominato per acclamazione presidente onorario dell’MSI. In tale veste si presentò al congresso del partito che si tenne a luglio, dove sostenne la necessità di un organo disciplinato per «ristabilire l’ordine spirituale e materiale del paese». Non potevano esserci «obiettori di coscienza» nel caso in cui la guerra fredda si fosse surriscaldata.20
Fu in quel periodo, nell’inverno 1951-52, che la leadership dell’MSI accettò la Nato. Alla decisione fu dato risalto pubblico, nel dicembre 1951, con la missione di due alti dirigenti del partito al quartier generale dell’organizzazione a Parigi. Altri, tra cui Borghese, si espressero in favore della Nato perché stava contribuendo al riarmo dell’esercito italiano ed era determinata a combattere il comunismo. Nella sinistra dell’MSI non tutti furono contenti di questa presa di posizione; Ferruccio Ferrini, ex sottosegretario alla Marina dell’RSI, denunciò Borghese.
Ma il principe rimase sotto i riflettori. Il 15 maggio 1952 era a Roma, tra i soci fondatori del «Secolo d’Italia». Nel 1953 firmò la prefazione del libro di Julius Evola Gli uomini e le rovine, una denuncia della società borghese di quegli anni. Evola, oltre che autore di numerosi saggi e articoli, era uno degli architetti spirituali della destra italiana. Nel 1943, poco dopo l’operazione di Skorzeny per liberare Mussolini dal Gran Sasso, aveva incontrato il Duce nel quartier generale di Hitler. Negli anni Cinquanta rappresentava quella frangia del partito che non voleva saperne di accettare la Nato e che alla fine giunse allo scontro con Borghese.21
In seguito Borghese tentò di tenere comizi nell’Italia settentrionale in occasione delle elezioni del 1953. Lui e l’ex maresciallo Rodolfo Graziani, un altro nuovo membro dell’MSI, facevano accorrere folle enormi, il che indusse le autorità a cercare di proibire quelle apparizioni pubbliche. Il 24 maggio 1953 al principe fu negata l’autorizzazione a parlare al Colosseo e lo stesso accadde a Rovigo, Bolzano, Udine e Pescara. A Rovigo e Padova fu messo addirittura sotto sorveglianza.22
L’attività di Borghese nel partito durò pochi anni, in quanto il principe era incapace di adattarsi alle esigenze della politica: il ruolo che gli si confaceva di più era quello di guerriero. Era sconfortato da tutte quelle liti meschine e considerava i politici uomini «corrotti e privi di princìpi morali». I dirigenti dell’MSI, dal canto loro, non apprezzavano i suoi modi altezzosi e dispotici.23 Alla fine del 1954 Borghese venne escluso dal direttivo dell’MSI, pur rimanendo presidente onorario del partito. Nello stesso periodo divenne presidente anche dell’unione dei reduci di Salò, in sostituzione di Graziani, morto l’11 gennaio 1955. Poi, nel 1957, lasciò definitivamente l’MSI.
Nell’arco di quei sette anni, Valerio Borghese aveva adottato una filosofia a tutto campo. La convinzione con cui sosteneva la Nato non gli aveva impedito di sottoscrivere l’atto di accusa lanciato da Evola contro la borghesia. Ma, come ha sottolineato Bale, «malgrado la ripetuta esaltazione dei concetti di ordine e autorità, il Principe nero era un uomo irrequieto, indipendente e ambizioso che aveva difficoltà a sottostare agli ordini e ad accettare consigli, soprattutto se gli venivano da persone che disprezzava». Quello in cui viveva era lo stesso Stato borghese che l’aveva mandato in galera e che adesso era retto da un governo corrotto e corruttibile. Ciononostante, Borghese sarebbe rimasto in contatto con vari suoi rappresentanti. Dopo l’uscita dall’MSI, e soprattutto dopo la fondazione nel 1968 dell’FN (Fronte nazionale), avrebbe avuto rapporti anche con «persone chiave dell’intelligence statunitense».24
Ma si mormora che, prima di riprendere l’attività politica, Borghese e i suoi uomini avessero effettuato un certo numero di quelle audaci operazioni che li avevano resi celebri durante la guerra. Il 18 dicembre 1991 e il 28 gennaio 1992, l’agenzia Punto Critico (diretta da un ex collega del giornalista assassinato Pecorelli) pubblicò due articoli in cui si sosteneva che Giuseppe Pella e Paolo Emilio Taviani, futuri primi ministri, avevano consegnato armi alle forze clandestine che agivano sotto il nome di Comitato per la difesa degli italiani di Trieste e dell’Istria. L’Istria, e Trieste in particolare, aveva una forte presenza di italiani e alla fine della guerra non si sapeva ancora con certezza se sarebbe stata assegnata alla Iugoslavia con o senza il Territorio libero di Trieste. Il comandante Borghese aveva favorito l’infiltrazione di oltre 500 «volontari nazionali» dell’MSI al grido di «A Trieste con Valerio Borghese». Armati dall’esercito, costoro parteciparono alla sanguinosa rivolta del 6 dicembre 1953, di cui la Gran Bretagna accusò pubblicamente le forze clandestine italiane. Trieste ritornò all’Italia nel 1954. Per molti versi, la rivolta fu un tentativo di rievocare l’impresa di Fiume di Gabriele D’Annunzio (1919), uno dei primi segnali della Marcia su Roma di Mussolini nel 1922.25
Ma Borghese, presumibilmente, non si fermò qui.
Il 3 febbraio 1949, a Valona, l’Italia consegnò all’Unione Sovietica come risarcimento di guerra la corazzata Giulio Cesare, danneggiata dalla corazzata inglese Warspite a Punta Stilo nel luglio 1940. Nei giorni precedenti quella data, la destra aveva organizzato a Venezia una manifestazione di protesta alla quale aveva preso parte anche il figlio di Graziani, Clemente. Oltre all’ovvio odio che i fascisti nutrivano per l’Unione Sovietica e il comunismo, va ricordato che la resa della flotta nazionale nel 1943 era stata decisa anche perché restasse italiana e non finisse come trofeo nelle mani dell’Unione Sovietica. Pertanto, la mossa del governo venne interpretata come uno schiaffo.26
All’epoca della consegna della nave, venne espressa, soprattutto dalla stampa italiana, la preoccupazione che a bordo potessero esserci esplosivi. Per fugare ogni dubbio fu inviato a Valona un reparto di tecnici, che però non poterono eseguire alcun controllo in quanto il rivelatore in dotazione non funzionava sull’acciaio. In seguito, Stalin si interessò personalmente alla questione e fece eseguire tutti i controlli volti ad accertare che gli italiani non avessero nascosto cariche esplosive sulla nave.
Il 26 febbraio la vecchia Giulio Cesare fu ancorata a Sebastopoli e ribattezzata Novorossiysk. Modificata secondo i desideri di Stalin, nel luglio 1949 venne aggregata alla marina sovietica come ammiraglia della flotta del Mar Nero. Più tardi sarebbe stata convertita in nave scuola dell’artiglieria.
Il 28 ottobre 1955, di ritorno da un’esercitazione, la Novorossiysk, gettò l’ancora alla boa 3 anziché alla 12, come faceva di solito. C’era un forte vento, perciò fu calata una seconda ancora. All’1.25, una violenta esplosione provocò l’apertura di un’enorme falla a prua, fra le torrette con le mitragliatrici a proravia e le ancore. La prua cominciò ad affondare, scomparendo sott’acqua alle 3.00. La nave, tuttavia, non venne abbandonata, perché si credeva che sotto la chiglia ci fossero non più di 7 metri e il comandante della flotta, l’ammiraglio di divisione V. Parkomenko, ritenne che fosse possibile salvarla.
Accadde invece che, verso le 4.10, pochi istanti dopo aver finalmente ricevuto l’ordine di evacuazione, la Novorossiysk si capovolse all’improvviso e si inabissò. Il porto in realtà era profondo 40 metri e la nave affondò nella fanghiglia con i marinai intrappolati dentro, molti dei quali morirono dopo una lunga agonia. Le perdite furono 608, la cifra più alta nella storia dei disastri navali russi. Sebbene gli addetti ai lavori in Occidente fossero al corrente dell’accaduto fin dalla primavera del 1956, la notizia fu pubblicata solo nel 1988, senza però chiarire quale nave fosse affondata e se l’incidente fosse avvenuto nel mar Baltico o nel Mar Nero. Ma ci fu chi collegò subito il fatto alla destituzione dell’ammiraglio d’armata Nikolaj G. Kuznetsov, che nel dicembre 1955 era stato rimosso dall’incarico di primo viceministro della Difesa dell’Urss e di comandante supremo della marina sovietica. In seguito, nel febbraio 1956, Kuznetsov era stato degradato ad ammiraglio di divisione e costretto ad andare in pensione. A sostituirlo fu chiamato l’ammiraglio d’armata Sergej G. GorŠkov.27
La perdita della Novorossiysk mise in evidenza una serie di deficienze e inadeguatezze della flotta del Mar Nero, quali le difese del porto, le operazioni di sminamento, le procedure di controllo dei danni e i problemi di disciplina. Si fecero congetture riguardo a un presunto coinvolgimento di Borghese e dei sommozzatori della X MAS. Nella caccia al colpevole venne presa in considerazione una seconda possibilità, ovvero che l’esplosione fosse stata causata da vecchie mine tedesche deposte nel fango durante la guerra (anche se rimaneva da appurare quanto a lungo tali mine potessero rimanere «attive»). Sulla stampa sovietica (e poi su quella occidentale) uscirono diversi articoli che contemplavano entrambe le possibilità. Secondo René Greger, l’esplosione di una mina tedesca avrebbe potuto innescarne una seconda nella stiva del carburante della nave. Ma Boris Aleksandrovic Karazavin, in un libro pubblicato nel 1991, non crede a tale teoria.28
Il mistero rimane irrisolto. Da un lato, il fatto che la falla apertasi nella carena fosse di soli 28 metri quadrati contro i 150 di quella sul ponte ha indotto Greger a ipotizzare che un tale danno non potesse essere causato da mine sommerse dal fango. Dall’altro, non è da escludere che queste siano esplose per un sommovimento del fondale provocato dalle ancore della Novorossiysk, tesi, questa, suffragata dal forte vento che soffiava quel giorno. Il capitano di vascello Peter A. Huchthausen, ex addetto navale statunitense a Mosca, fa acute considerazioni sulle lotte sotterranee tra ammiragli sovietici che in parte portarono alla frettolosa archiviazione dell’inchiesta e a trentatré anni di silenzio. E dopo aver visionato le dichiarazioni ufficiali del 1955 e intervistato esperti russi, conclude che ci furono due esplosioni.29
La deflagrazione fu chiaramente esterna. Alcuni autori sovietici e russi sostengono che, dopo l’incidente, furono rimosse altre vecchie mine tedesche dal porto di Sebastopoli. È importante notare anche che la Novorossiysk gettò l’ancora a una boa diversa da quella che utilizzava solitamente. Huchthausen ha scritto che lo «sbarramento a difesa del porto e il sistema di reti antisommergibili» che proteggevano la rada e la Novorossiysk furono aperti per ordine dell’ammiraglio. Inoltre, l’ASW (AntiSubmarine Warfare, il sistema di ascolto per la lotta antisommergibile) – uno strumento ideale per intercettare un sommergibile tascabile – rimase fuori uso per parte della sera.
Virgilio Ilari, nel Generale col monocolo, la biografia di De Lorenzo, cita un articolo uscito nel 1992 sul settimanale russo «Sovershenno Sekretno», in base al quale la Novorossiysk sarebbe stata consegnata con una mina nascosta a bordo, poi innescata per distruggere la corazzata.
Si è detto che Borghese arrivò nel Mar Nero con un gruppo di sommergibili tascabili per attaccare Sebastopoli con due «maiali». Una nave mercantile camuffata – tipo l’Olterra di Gibilterra, per esempio – sarebbe stata una comoda base d’appoggio per un’operazione del genere, ma a quel tempo i sommergibili tascabili avevano ormai una notevole autonomia. Inoltre, negli anni Cinquanta, i paesi della Nato effettuavano un attento monitoraggio delle spedizioni di armi sovietiche che transitavano nel Mar Nero dirette in Medio Oriente.
In alcuni ambienti si è detto anche che l’attacco fu condotto da quattro noti veterani della X MAS (Elios Toschi, Gino Birindelli, Luigi Ferraro ed Eugenio Wolk) e guidato da Borghese in persona. Secondo questa teoria, i quattro si sarebbero avvicinati di nascosto al porto e avrebbero attivato l’esplosivo piazzato a bordo prima della consegna della nave, o sistemato sul momento una carica portata da loro.
Dopo l’incidente della Novorossiysk, Birindelli fece carriera come ammiraglio e più tardi divenne deputato. Toschi, all’epoca, era consulente e progettista della Oto Melara, importante industria specializzata in armamenti. Pur non sanzionata dalla Nato né dal governo italiano, e non rivendicabile, l’operazione forse ebbe lo scopo di lavare la macchia dell’umiliante consegna delle navi da guerra imposta dal trattato di pace, alla quale tutti i paesi vincitori avevano rinunciato eccetto la Iugoslavia e l’Unione Sovietica. Ad avvalorare tale ipotesi ci sarebbe la scoperta di una mina programmata per esplodere il 7 novembre 1955, giorno della festa nazionale sovietica, presso la boa dell’incrociatore leggero Kerch, il vecchio Emanuele Filiberto Duca d’Aosta.30
Secondo il periodico «Sovershenno Sekretno», l’operazione fu una vendetta contro i rossi e al tempo stesso una trovata pubblicitaria per promuovere i sommergibili tascabili fabbricati nei cantieri italiani (che, però, secondo il trattato di pace, la marina italiana aveva il divieto di possedere). I sommergibili in questione appartenevano al tipo Cosmos e dislocavano da 2 a 70 tonnellate. Erano un’evoluzione dei famosi SLC e dei sommergibili CB approntati in tempo di guerra, capaci di raggiungere un’autonomia di 1400 miglia e di trasportare quattro uomini. Negli anni Sessanta e Settanta ne furono venduti una sessantina in tutto il mondo.
Durante la guerra fredda, pochissime pubblicazioni sovietiche menzionarono l’incidente della Novorossiysk. Il libro Red Star Rising at Sea di Sergej G. GorŠkov, per esempio, non gli dedica neppure una riga, nemmeno nella breve nota biografica scritta da John G. Hibbits e inserita alla fine dell’edizione inglese. Anche una recente cronologia delle operazioni navali compiute durante la guerra fredda omette la notizia.31
In una lettera del 4 agosto 1999 al capitano di vascello Huchthausen, il figlio di Eugenio Wolk ha scritto che suo padre aveva definito la «più grande e offensiva idiozia» tutto ciò che si era detto sull’affondamento dell’ex corazzata italiana, arrivando a sostenere che l’incidente non era mai avvenuto. Di certo, coprire una cospirazione su così vasta scala sarebbe stato difficile per gli italiani, il che farebbe pensare a una loro estraneità ai fatti di Sebastopoli.32
In definitiva, è impossibile stabilire con certezza ciò che accadde alla Novorossiysk, se non altro per il tempo trascorso da quella che è stata la più grande tragedia navale dalla Seconda guerra mondiale in poi. Tutto è possibile: mine tedesche, una carica esplosiva nascosta prima della consegna da parte dell’Italia, un attacco di siluri umani guidato da Borghese. Noi propendiamo per la prima ipotesi.
È stato invece accertato che gli assaltatori subacquei della X MAS affondarono una nave partita dalla Iugoslavia con un carico di armi destinate agli ebrei, durante un’operazione eseguita per conto del governo britannico, che all’epoca cercava di mantenere l’ordine in Palestina.
Inoltre, il 22 ottobre 1948, tre barchini esplosivi MT di fabbricazione italiana ed equipaggio israeliano, facenti parte di quello che allora si chiamava Israeli Sea Service, attaccarono l’El Amir Farouk, ammiraglia di una piccola squadra egiziana che operava al largo della costa del Sinai. A quanto pare, la nave affondò e forse un dragamine rimase danneggiato, ma anche questo attacco rimane avvolto nel mistero. L’El Amir Farouk era un vecchio avviso di 1441 tonnellate di stazza lorda, con una velocità di 17 nodi e un armamento consistente in un cannone che sparava proiettili da 6 libbre e in qualche mitragliatrice. Da oltre due anni era registrato dal governo egiziano come imbarcazione della guardia costiera e dell’ente della pesca. Il 31 dicembre 1948 fu «bombardata» Haifa e c’è stato chi ha individuato nell’El Amir Farouk il responsabile dell’attacco. Un altro MT utilizzato dagli israeliani nel Mar Morto, molto probabilmente per trasferire agenti in Giordania, è oggi diventato una nave museo.33