XV
Intrighi nell’estrema destra
Se gli anni Sessanta furono un periodo di diffusa instabilità, disordine e di una cultura della violenza in cui prevaleva il consenso ideologico, non è certo sorprendente che questo decennio di crisi generale dell’Occidente potesse produrre risultati particolarmente gravi in un paese come l’Italia. Negli anni che seguirono, essa conquistò lo spiacevole primato del paese industrializzato con i più gravi problemi di terrorismo.
Richard Drake1
Tra gli anni Cinquanta e Settanta, Borghese ebbe contatti personali con diversi importanti movimenti e individui, alcuni dei quali avrebbero partecipato, nel 1970, al suo tentativo di colpo di Stato.
Gladio era il nome di un’organizzazione stay-behind costituita da militari e civili che si prefiggeva la creazione di una rete di intelligence e resistenza dietro le linee nemiche, in caso di invasione delle truppe del Patto di Varsavia. Ufficialmente costituita nel 1956 in conformità alla direttiva NSC 412/2, rientrava in quel programma globale della Nato che prevedeva la formazione di gruppi di resistenza stay-behind nei paesi che erano stati invasi e in Stati non allineati quali la Svizzera, l’Austria e la Iugoslavia comunista. In Italia, Gladio aveva una seconda funzione: proteggere il paese dalla sovversione comunista interna. Uno degli interrogatori chiave fatti a Borghese – datato 23 settembre 1945 e condotto dal maggiore T.H. Schergold – verteva proprio sui gruppi stay-behind della X MAS, la cui esistenza, però, fu tenuta nascosta all’opinione pubblica italiana in quel periodo.2
In Italia, le prime reclute di Gladio nel dopoguerra furono soldati, molti dei quali reduci dell’esercito della Repubblica di Salò. Dopo decenni di smentite da parte dei governi che si alternarono dal 1946 in poi, inclusi quelli presieduti da Aldo Moro e Giulio Andreotti, l’esistenza dell’organizzazione fu infine svelata nel 1990. Andreotti rivelò che Gladio aveva 139 depositi segreti di armi (anche se due erano andati «perduti» e altri dieci erano stati sepolti sotto cantieri edilizi) e che la struttura era stata smobilitata nel 1972. Emersero altri particolari assai interessanti, relativi ai finanziamenti che arrivavano dalla CIA, alla collaborazione prestata dal SIFAR (Servizio informazioni forze armate, l’ex SIM) e all’addestramento degli agenti affidato all’intelligence britannica. Agenti che, chiaramente, erano costituiti da «patrioti» italiani di destra.3
Gladio era sotto il diretto controllo dei servizi segreti e partecipava alle riunioni che la Nato teneva tra i capi di organizzazioni analoghe operanti nei vari paesi del Patto Atlantico. In tempi recenti, la stampa internazionale (e quella italiana non fa eccezione) ha parlato spesso di questa struttura, enfatizzando trame sinistre e interpretando ogni cosa attraverso Gladio, ovvero attribuendo alla sua esistenza ogni attentato dinamitardo e altro episodio di violenza.4
Negli anni Settanta Gladio contava circa 200 membri, dal Nordest a Bologna, la cui età media si aggirava intorno ai quarant’anni. Era composta da cinque sezioni: informazione e propaganda, guerriglia, sabotaggio, evasione e fuga. Le azioni di guerriglia erano di competenza delle UPI (Unità di pronto impiego), alcuni uomini delle quali avrebbero preso parte al tentato golpe di Borghese.5
Nel paese era attiva una seconda struttura di ispirazione analoga. Si chiamava OS (Organizzazione di sicurezza) ed era suddivisa in unità chiamate «legioni», che comprendevano reparti dei carabinieri ed erano identificate da numeri corrispondenti alle diverse regioni militari di appartenenza. Per esempio, quella di Verona sotto il tenente colonnello Amos Spiazzi era la 5a. E così, nel complesso scenario della guerra fredda, Gladio era la principale organizzazione stay-behind, ma non certo l’unica.6
Gladio aveva una base segreta ad Alghero, vicino a Capo Marrargiu, destinata a essere utilizzata per processi e deportazioni in caso di tentati colpi di Stato. Parte degli uomini che vi erano dislocati erano soldati e agenti dei servizi segreti americani, il che fa pensare che probabilmente la base sarebbe stata difesa dagli Stati Uniti in caso di guerra tra la Nato e il Patto di Varsavia.7
La stampa ha associato la X MAS anche alle attività stay-behind nei paesi Nato. Il termine stay-behind era stato utilizzato per definire un reparto che l’unità aveva istituito nel febbraio 1945 per agire nei territori occupati dagli Alleati in avanzata, ma che era stato scoperto e neutralizzato dall’OSS. Rimane comunque il fatto che, tra il 1943 e il 1945, specialisti del gruppo degli «uomini gamma» della X MAS operarono nella valle dell’Agno, vicino al quartier generale di Kesselring a Recoaro Terme, a nord di Vicenza (dove c’è tuttora un’importante base aerea americana). Alcuni degli uomini che furono catturati vennero mandati negli Stati Uniti per essere interrogati o semplicemente per permettere agli ufficiali americani di attingere alla loro esperienza, il che ha indotto certi giornalisti a ipotizzare che la X MAS fosse utilizzata dalla CIA per operazioni segrete in Italia.8
Un altro collegamento tra la X MAS e Gladio è stato fatto da Peter Tompkins, un ex agente dell’OSS in Italia, che nel 1994, durante un incontro commemorativo a Venezia, tenne un discorso in cui disse che nell’OSS c’era chi da una parte aveva inviato agenti democratici e dall’altra aveva salvato la X MAS e Valerio Borghese, per avvalersi della loro Gladio nel condurre la guerra contro i comunisti.9
Le prove addotte a sostegno di questa tesi sono perlopiù indiziarie o congetturali. Negli ultimi cinquant’anni, la storia della guerra fredda in Italia è stata confusa da inchieste giornalistiche di parte, condotte da persone che possono aver avuto solo una vaga idea di ciò che è avvenuto dietro le quinte. A ciò si sono aggiunte speculazioni politiche che hanno avuto il solo effetto di far calare sul periodo della contrapposizione tra blocchi una nebbia ancor più fitta di quella che avvolge le guerre mondiali.
Il generale Gerardo Serravalle, che prese le redini di Gladio nel 1971, era talmente infastidito dall’estremismo di destra di molti dei suoi uomini, impazienti di schiacciare il Partito comunista e quello socialista subito, che ordinò il loro trasferimento nella base segreta di Alghero e fece chiudere i depositi di armi. L’aereo sul quale il generale avrebbe dovuto trovarsi per conto del SID (Servizio informazioni difesa) esplose in volo il 23 novembre 1973, nei pressi di Venezia. Serravalle non si trovava a bordo perché aveva cambiato programma, ma nell’incidente morirono quattro membri dell’equipaggio. Lui sospettò una vendetta da parte degli uomini di cui aveva deciso il trasferimento.10
Un capitolo di questa vicenda riguarda Licio Gelli.
Nato a Pistoia nel 1919, all’età di diciotto anni Gelli partì volontario per la guerra civile spagnola, combattendo in nome di Mussolini. La successiva apparizione la fece nel Montenegro, dove svolse un’attività, molto probabilmente di informatore, per l’ufficio fascista a Cattaro, sulla costa adriatica. Dopo l’armistizio lavorò, pare, per entrambe le parti e alla fine della guerra compilò per i vincitori la lista dei fascisti che si trovavano in zona. Nel 1948 divenne segretario di un parlamentare democristiano e successivamente fece carriera come manager della Permaflex. Poi, nel 1963, entrò nella massoneria, per essere nominato, nel 1971, segretario della loggia segreta Propaganda Due (P2).
La P2 si sciolse per una faida interna tra massoni, ma fu ricostituita dallo stesso Gelli nel 1976 e divenne una potente organizzazione che raccoglieva alcune delle personalità più influenti del paese. In un’intervista televisiva, Gelli dichiarò di aver voluto assemblare il meglio in ogni campo per portare avanti il suo piano di rinascita democratica. Piuttosto interessante è il fatto che uno dei primi a aderire fu il generale Giovanni Allavena (noto per il piano Solo), il quale probabilmente passò a Gelli buona parte dei fascicoli segreti aperti dal generale Giovanni De Lorenzo che lui potrebbe avere usato come arma di ricatto. Nel corso di un’inchiesta che il reparto D condusse su Gelli emerse un caso che illustrerebbe questo loro particolare utilizzo, riguardante un ufficiale di alto grado che aveva contratto un debito di 10.000 dollari con il capo della P2.
All’epoca Gelli era quasi sconosciuto al pubblico, ma giocava già un ruolo importante nelle vicende italiane. Quando il giornalista Carmine «Mino» Pecorelli, che spesso scriveva per conto di agenti del SID, fu assassinato nel 1979, nel suo ufficio furono trovate carte del reparto D, tra cui documenti su Gelli e informazioni sul golpe tentato da Borghese nel 1970: in particolare, un elenco di persone che Gelli aveva denunciato al centro di controspionaggio sardo del SID per aver collaborato con i tedeschi durante l’occupazione del 1943-45 e una nota riservata sullo stesso Gelli, nella quale si avanzava il sospetto che lavorasse per i servizi segreti del Patto di Varsavia.11
Non appena si scoprì che Gelli era la mente della P2, di lui si occuparono le prime pagine di tutti i giornali italiani. Affiliata al Grande Oriente d’Italia, la sua era una consorteria segreta che agiva all’interno di una regolare loggia massonica, con due obiettivi politici: impedire lo spostamento dell’Italia a sinistra e, se possibile, farla uscire dalla Nato. Col tempo la P2 era arrivata a contare centinaia di membri – alcuni rapporti parlano di 2500 – molti dei quali poi negarono la loro appartenenza, sebbene sia noto che numerosi aderenti, alcuni della prima ora, erano politici e funzionari dei servizi di sicurezza del governo.12
Negli ambienti della politica italiana, Licio Gelli era una sorta di «aggiustatutto». La segretezza della P2 all’interno del mondo massonico facilitava le cose in quanto i suoi erano membri segreti di un’organizzazione segreta. Il vantaggio era che i fratelli, in caso di necessità, potevano ricevere assistenza finanziaria o di altro tipo e Gelli poteva aspettarsi qualcosa in cambio per l’aiuto fornito. I suoi contatti si estendevano ben oltre i confini italiani. Negli Stati Uniti, per esempio, aveva diversi amici, quasi tutti esponenti dell’ala destra del Partito repubblicano, che più tardi lo invitarono ad assistere alla cerimonia di insediamento di Ronald Reagan alla Casa Bianca.13
Gelli collaborò anche con Michele Sindona per vari motivi, tra cui sicuramente quello che il banchiere siciliano era un tenace anticomunista. Aborriva anche il socialismo ed era un convinto sostenitore del capitalismo: era stato grazie ad agganci e ad anni di duro lavoro in quel sistema che aveva costruito il suo impero finanziario. Gli stretti legami d’affari con il Vaticano gli avrebbero procurato il soprannome di «banchiere di Dio».
Dunque, Gelli era in possesso di una serie di fascicoli contenenti informazioni vere e false su vari personaggi, alcuni dei quali con alti incarichi di governo, e si serviva di questo materiale per «convincere» gli interessati a prendere decisioni volte a favorire i suoi interessi.
Il 17 marzo 1981, nell’ambito delle indagini che avrebbero portato allo scoperto la rete intessuta da Gelli, un gruppo di agenti della guardia di finanza entrò nella sua villa a Castiglion Fibocchi (Arezzo) e trovò una lista di 962 iscritti alla P2. Nel mondo politico esplose uno scandalo di proporzioni enormi. Nella lista figuravano tre ministri, quarantatré parlamentari tra deputati e senatori, i capi di tutti i corpi delle forze armate, funzionari che occupavano posti chiave nei vari servizi segreti e alti dirigenti di banche, mezzi di comunicazione (nel settore sia della carta stampata sia radiotelevisivo) e imprese.14
Nel settembre 1982 Gelli fu arrestato in Svizzera (dove aveva un conto bancario di centinaia di miliardi di lire), ma nell’agosto 1983, circa dieci giorni prima di essere estradato in Italia, fuggì. Nel settembre 1987 riapparve, sempre in Svizzera, e si presentò alle autorità locali, che lo condannarono per essere entrato illegalmente nel paese. Nel febbraio dell’anno successivo fu trasferito in Italia e rimesso in libertà in aprile dal governo Andreotti.15 In seguito fu condannato al carcere con varie accuse, ma finì per essere sempre prosciolto in appello. Al di là di questi incidenti, si ritiene che l’organizzazione di Gelli abbia continuato ad agire in altre forme.
Anche gli aiuti forniti dagli americani alla destra italiana assunsero varie forme. Il sostegno agli anticomunisti era principalmente rappresentato da versamenti mensili in lire alla Dc e agli altri partiti di governo, soprattutto nei periodi che precedevano il voto. In alcuni casi, gli Stati Uniti fornivano grano, che i democristiani vendevano per procurarsi il denaro. Alla vigilia delle elezioni italiane nel 1975, il presidente Gerald Ford chiese per i partiti amici fondi segreti aggiuntivi pari a 6 milioni di dollari. Per influenzare le elezioni italiane del 1972, il governo americano spese 10 milioni di dollari, il che portò a 75 milioni di dollari l’ammontare complessivo versato all’Italia dopo il 1948. Nel 1970, proprio in concomitanza con il golpe di Borghese, arrivarono 10 milioni di dollari. Naturalmente, l’Unione Sovietica fece lo stesso con il Partito comunista.16
E così siamo arrivati al piano Solo di De Lorenzo-Segni, che può essere considerato un precursore del golpe Borghese. Si trattò di un complotto contro la sinistra, ordito dall’allora presidente della repubblica Antonio Segni con l’aiuto del generale Giovanni De Lorenzo, comandante dei carabinieri e poi capo del SIFAR (incarico che non gli impedì di continuare a esercitare un certo controllo sui carabinieri, dal momento che amministrava anche il loro bilancio e aveva suoi uomini ai vertici dell’arma).
Nella primavera del 1964 si tennero diversi incontri tra alcuni fedelissimi di De Lorenzo. I convitati si presentavano agli appuntamenti in borghese, a completa insaputa di altri ufficiali dei carabinieri (tra cui i comandi). In loro sostegno erano stati reclutati civili dal passato politico ripulito: perlopiù ex membri della X MAS, paracadutisti, soldati e marinai dell’RSI. Particolare interessante, l’uomo incaricato di reperire parte di queste risorse esterne, il colonnello dei carabinieri Renzo Rocca, in seguito perse il posto al SIFAR e venne trovato morto con un proiettile in testa che, come fu accertato, non era stato lui a sparare. Il caso non è mai stato risolto.17
Agli incontri, De Lorenzo e compagni, preoccupati del fatto che il governo potesse aprirsi a sinistra, organizzarono un colpo di Stato per impedire che ciò accadesse e mantenere il controllo della situazione. Di fatto, ben presto i socialisti sarebbero entrati nel governo e l’Italia avrebbe perfino avuto un presidente della Repubblica socialista.
Fu a questo punto che entrò in scena Borghese. Stando a quanto ha affermato Remo Orlandini (erede dell’impero dei cantieri navali Orlando e uomo di punta del golpe del 1970), «Borghese era amico di De Lorenzo» e gli aveva garantito il proprio aiuto. Ai carabinieri furono impartiti gli ordini necessari, ma all’ora prevista non accadde niente: per motivi non ancora chiariti, il golpe fu annullato. Il mattino seguente, Borghese su tutte le furie si recò da De Lorenzo, che stava andando a incontrare il nuovo presidente socialista. A quanto pare, gli chiese perché fosse in alta uniforme anziché in tenuta da battaglia.18
Anche se non fu mai attuato, il piano Solo rappresentò una seria minaccia per la sinistra e in modo particolare per il Partito socialista, che era stato riluttante ad accettare le condizioni imposte dalla Dc nel governo del dopoguerra. Intervistato da Claudio Gatti, un anonimo funzionario della CIA ha commentato che fu «un po’ come è successo più tardi, nel ’70, con il principe Valerio Borghese: all’ultimo momento qualcuno lo ha abbandonato oppure tradito. Con la differenza che quella di Borghese era una buffonata, mentre il tentativo di De Lorenzo era una cosa seria».19
De Lorenzo, intanto, fu promosso dai democristiani capo di stato maggiore dell’esercito, con il consenso del Partito comunista. (Godeva di un certo appoggio da parte del PCI perché aveva combattuto con i partigiani nel 1944-45.) Il suo fu, secondo Orlandini, il primo colpo di Stato fallito della storia italiana.
Il generale sarebbe stato presto rimosso dal nuovo incarico, in parte per aver aperto circa 157.000 fascicoli su personalità politiche e ideato un piano antinsurrezionale, in parte per aver presentato una lista di 731 nomi da internare in Sardegna qualora fosse avvenuto un colpo di Stato. Era soprattutto questa lista che l’aveva reso bersaglio delle critiche da parte della stampa e dei partiti. De Lorenzo mantenne il posto di capo di stato maggiore dell’esercito dal 1° febbraio 1966 al 15 aprile 1967.
All’inizio del 1967 fu avviata un’inchiesta nel SIFAR. Secondo la commissione Beolchini (così chiamata dal nome del suo presidente, il generale Aldo Beolchini), non era stato dato alcun ordine di procedere a schedature (è probabile, invece, che l’ordine non sia stato trovato). Venne, inoltre, stabilito che non era da considerarsi illegale l’apertura di fascicoli su persone sospettate di operare con paesi stranieri che potevano costituire una minaccia per la sicurezza nazionale, ma che era un reato utilizzare il risultato di tali indagini come strumento di pressione o di ricatto. Il numero dei fascicoli, peraltro, non era elevatissimo. Nella Germania dell’Est, nel momento di massimo inasprimento delle misure di sicurezza interna, la Stasi ne conservava circa 6 milioni, in un paese di 17 milioni di abitanti.20
Per Moro, tuttavia, De Lorenzo fu destituito anche perché aveva appoggiato il ministro della Difesa sbagliato: lui e non Andreotti. Inoltre, secondo Ilari, aveva osteggiato alcune transazioni per l’acquisto di carri armati americani M60.21 Tale presa di posizione l’aveva posto in conflitto con leader influenti ed era stato probabilmente questo il principale motivo della sua destituzione.
Il punto di vista americano sulla questione era, come sempre, che chiunque impedisse l’avvento al potere del PCI meritava un aiuto. Ma, nel lungo periodo, un golpe di destra non sarebbe stato nell’interesse degli Stati Uniti. Come risultato della minaccia di De Lorenzo, l’Italia aveva dato vita a un governo di coalizione con il Partito socialista, che però ne escludeva la corrente di sinistra.22
Questa stagione di relazioni italo-americane si concluse nel 1969, con l’elezione di Richard Nixon alla presidenza degli Stati Uniti. La politica del suo consigliere per la sicurezza nazionale, Henry Kissinger, era contraria a una presenza socialista nel governo, considerata un cavallo di Troia che portava con sé i comunisti. Il giudizio di Kissinger sulla DC era altrettanto duro. «Kissinger … era convinto che i democristiani pur di mantenere il potere avrebbero fatto un patto col diavolo.»23
Nixon ripristinò i finanziamenti alle forze anticomuniste, quasi del tutto sospesi nel 1966, probabilmente servendosi di Michele Sindona. A quanto pare, il fiume di denaro affluiva attraverso due canali distinti – l’uno rappresentato dall’ambasciatore americano Graham Martin e l’altro dal suo principale contatto italiano, il generale Vito Miceli, nominato capo del SID nell’ottobre 1970 – e forniva supporto finanziario non solo alla Dc, ma anche a un altro piccolo partito filoamericano e all’MSI. Prima di assumere la guida del SID, Miceli avrebbe incontrato più volte Borghese a casa Orlandini.24
Di Sindona si diceva che avesse risollevato la situazione finanziaria del Vaticano dopo l’elezione al soglio pontificio di Paolo VI. Nato a Patti, in Sicilia, era il primo azionista della Franklin National, della Continental Bank of Illinois e di altre banche statunitensi.25 Questo canale bancario probabilmente servì a convogliare i fondi ai partiti anticomunisti e ai capi militari in Italia. È provato che, nell’aprile 1967, la Continental Bank of Illinois trasferì 4 milioni di dollari a una banca di Sindona in Italia. Il denaro fu poi «prestato» a un’impresa edile greca gestita dall’esercito e controllata dal colonnello Papadopulos.
Il 21 aprile 1967, Papadopoulos guidò il «golpe dei colonnelli» che portò all’istituzione di un regime militare in Grecia. Si dice che Sindona, nel 1972, avesse pianificato un proprio colpo di Stato in Italia. Secondo quanto ha rivelato una fonte, in una località vicino a Vicenza il banchiere siciliano discusse di tale possibilità con un generale americano, esponendogli un piano che prevedeva, in caso di reazione da parte della sinistra, l’intervento di forze militari francesi e statunitensi, nonché di unità civili-militari come Gladio. La cosa interessante è che, se l’operazione fosse andata a segno, sarebbero state adottate misure repressive contro le frange estremiste sia della sinistra sia della destra.
Anche il papa giocò un ruolo in tutto questo. Paolo VI era amico della moglie di Borghese fin dal periodo fascista, quando era ancora solo Giovanni Battista Montini. Alla fine degli anni Venti aveva conosciuto monsignor Francis Spellman, poi divenuto cardinale, e nel 1932 era entrato a far parte dello staff personale del segretario di Stato vaticano, il cardinale Eugenio Pacelli, futuro Pio XII. La segreteria di Stato della Chiesa era il braccio diplomatico del Vaticano e nelle sue stanze erano custoditi più di dieci secoli di memorie.
Un biografo del papa ha scritto che, in tempo di guerra, Giovanni Battista Montini fu al centro di dicerie e leggende esagerate. Si sussurrava che fosse il capo di una rete di spionaggio, la figura chiave di organizzazioni clandestine e il signore dei servizi segreti vaticani. Da parte sua non è mai giunta alcuna conferma né smentita di queste voci. Una delle iniziative che Montini intraprese nel periodo in cui lavorò nella segreteria di Stato fu la creazione di un ufficio che forniva nomi e notizie di prigionieri o vittime di guerra alle famiglie. Fu così che venne a conoscenza di numerose informazioni. Scherzando, si diceva che comandava una «Gestapo bianca». Alla fine del conflitto, il Vaticano aiutò i soldati e gli ufficiali di destra a espatriare in paesi più sicuri quali le cattoliche Spagna e Argentina, ma Montini tenne anche sotto controllo le attività di alcuni cardinali più filofascisti. Il giorno dell’elezione al soglio pontificio, l’uomo che lo proclamò papa era il cardinale Alfredo Ottaviani, il quale fu a lungo considerato un esponente dell’estrema destra della Chiesa, un ultrareazionario.26
Montini e Sindona si conobbero negli anni Cinquanta, quando il banchiere siciliano aiutò l’allora arcivescovo di Milano a ottenere l’autorizzazione a celebrare messa dentro le fabbriche vincendo l’opposizione dei leader sindacali del PCI. Sindona persuase alcuni suoi clienti, proprietari di industrie, a concedere al cardinale l’accesso agli stabilimenti. Il risultato fu che alcuni di quei leader sindacali non furono riconfermati e Montini scampò a un attentato dinamitardo.27 Così, Sindona fu uno dei canali, forse tra i più importanti, utilizzati per appoggiare possibili «golpe» nel periodo tra il 1970 e il 1974.
In seguito alla caduta di Nixon, la Franklin National ebbe un tracollo finanziario e Sindona finì immediatamente sotto processo negli Stati Uniti. Più tardi fu estradato in Italia, ma, com’è noto, morì non appena arrivato nel carcere di massima sicurezza. Il fascicolo dei servizi segreti italiani che lo riguardava fu bruciato quando il suo impero crollò.
Insieme a Licio Gelli e Roberto Calvi, il direttore del Banco Ambrosiano, Sindona era anche uno dei membri più influenti della P2. Calvi riciclava centinaia di milioni di dollari di denaro sporco per la mafia americana, attraverso le operazioni finanziarie del Banco Ambrosiano e dello IOR (Istituto opere religiose) del Vaticano. Anche lui venne ritrovato «suicida», impiccato sotto un ponte a Londra.28
La maggior parte dei libri scritti in questo periodo della guerra fredda mette in risalto il ruolo dei servizi segreti militari, ma presta scarsa attenzione agli altri organi di sicurezza impegnati nella lotta al terrorismo e all’eversione, tra i quali figuravano l’UAR (Ufficio affari riservati), un servizio civile e i servizi informazioni dei carabinieri, della guardia di finanza e della polizia politica. Lo UAR fu diretto dal 1968 al 1975 da Federico Umberto D’Amato, che sembra non aver mai avuto i problemi dei suoi colleghi militari, molti dei quali o si suicidarono in circostanze misteriose o persero il posto.
Questa concentrazione dell’interesse non è facile da spiegare. È vero che il SIFAR e il SID avevano un potere immenso, avendo vaste competenze negli affari sia interni sia internazionali, economia compresa (per esempio, l’esportazione di tecnologie o il controllo del traffico d’armi), tuttavia, non è chiaro come mai l’attenzione di giornalisti, giudici, agenti di polizia e scrittori si sia appuntata in modo così deciso sui servizi segreti militari e sui rapporti che intrattenevano con la Nato.
Il fatto è che copie di documenti contenuti nei fascicoli dei servizi segreti militari, a quanto pare, finivano negli archivi della CIA o nella casa di Gelli a Montevideo. Questi fascicoli riguardavano non solo persone sospette, ma tutti i parlamentari, nonché sacerdoti e uomini d’affari, e includevano materiale (foto comprese!) sulle loro abitudini sessuali.
Inoltre sia il SID sia il SIFAR avevano affrontato vicende controverse. Per il SIFAR, per esempio, la fine del colonnello Rocca era alquanto sospetta. E così pure la morte di un altro suo agente, che nell’aprile 1969 fu trovato morto in uno strano incidente stradale, sul quale il generale Carlo Ciglieri, ex comandante dei carabinieri, aprì un’inchiesta.29
Il 12 dicembre 1969 una potente bomba esplose all’interno della Banca dell’Agricoltura in piazza Fontana, a Milano, facendo sedici morti e ottantasette feriti. Quello stesso giorno, altre bombe esplosero in altre banche, per fortuna senza fare vittime perché gli sportelli erano chiusi. In un primo momento i sospetti caddero sulle Brigate Rosse, ma dopo mesi di indagini cominciò a farsi strada l’ipotesi che in realtà i veri responsabili andassero cercati negli ambienti di destra, in quella che poi sarebbe diventata nota come l’Internazionale nera.30
All’epoca, gli agenti del SID furono accusati di aver protetto i terroristi e di averne facilitato la fuga all’estero. Alcuni sospettati sono rimasti in paesi stranieri, come Dario Zagolin, che lavorava per i servizi segreti della Nato.
Nell’ottobre 1970, il generale Vito Miceli sostituì l’ammiraglio Eugenio Henke a capo del SID. Si trovava in ufficio con il generale Gian Adelio Maletti, il suo principale collaboratore per gli affari interni, quando Borghese tentò il golpe. Miceli e Maletti si fecero la guerra nel SID, ma Miceli fu una figura molto importante per l’ambasciata statunitense in Italia (anche se non per la CIA): attraverso di lui i finanziamenti arrivavano ai partiti di centro e di destra, MSI compreso.
Borghese era uscito dalla sua condizione di semipensionamento più o meno all’epoca della morte della moglie, la principessa Daria Olsoufiev, in un incidente d’auto il 4 febbraio 1963. Per motivi finanziari era stato nominato presidente del Credito commerciale, la prima banca di proprietà di Sindona. Era una carica ampiamente onoraria, che però gli permetteva di guadagnare bene e di seguire da vicino lo svolgersi degli avvenimenti politici. La carriera di Borghese nel dopoguerra rispecchia un po’ quella del colonnello delle SS Otto Skorzeny. Alla fine del conflitto, «Scarface» (com’era stato soprannominato per via delle cicatrici di guerra) era scappato in Spagna e lì, nei primi anni Cinquanta, aveva fondato una società di ingegneria con l’aiuto dell’ex consigliere finanziario di Hitler, Hjalmar Schacht. Oltre a garantirgli una vita agiata, la nuova attività gli aveva consentito di rappresentare nel paese iberico aziende come la Krupp e la Messerschmitt-Werke e in seguito di fare affari con il dittatore argentino Juan Perón e il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser.31
Jeffrey McKenzie Bale scrive che la banca di Borghese «partecipò a un’operazione finanziaria assai complessa, implicante “vasti settori” conservatori del mondo economico, tra cui [il figlio del dittatore della Repubblica Dominicana Trujillo, la Spagna di Franco,] il Vaticano e ambienti della Dc». L’avventura si concluse con il fallimento della banca. Borghese e i suoi collaboratori vennero accusati di bancarotta fraudolenta, ma il principe se la cavò con una condanna lieve. La cosa importante da sottolineare è, però, un’altra, e riguarda i numerosi contatti che egli chiaramente aveva a livello nazionale e internazionale, fin ai più alti livelli. Ora, se è vero, come sembra, che furono queste conoscenze a fornirgli i mezzi economici per vivere dopo la guerra, è lecito chiedersi quali «clausole accessorie» contemplassero gli accordi. Una domanda che, finora, non ha trovato risposta.32
Borghese, successivamente, fu coinvolto nella crisi scoppiata tra Austria e Italia sulla questione della popolazione di lingua tedesca in Alto Adige. Ai nazionalisti tedeschi che attaccavano rappresentanti e simboli italiani (come le cassette delle lettere negli uffici postali) la destra italiana rispose formando, nel gennaio 1966, il Comitato tricolore per l’italianità dell’Alto Adige. Uno dei leader era, appunto, Borghese, che tenne un comizio in occasione di un raduno.33
Molto probabilmente fu questa esperienza che nel 1967 fece maturare nel principe l’idea di creare un nuovo gruppo di destra rivolto a veterani, patrioti e giovani in cerca di un’alternativa al comunismo.
Nel 1968 tutto l’Occidente fu scosso dalle rivolte studentesche, seguite in molti paesi da manifestazioni operaie. Lo scontro politico cominciò ad assumere connotazioni violente, cosa alla quale l’Italia era in qualche modo abituata. Nel 1968 Borghese riprese a scrivere sui giornali, trovando spazio sulle pagine della rivista di Ordine Nuovo (ON). Nei suoi articoli esortava i lettori a rifiutare il sistema democratico e a votare scheda bianca. La formazione politica che stava dietro la rivista era una delle tante che erano fuoriuscite dall’MSI, con Clemente Graziani in testa, per intraprendere una lotta politica più radicale contro il sistema di vita democristiano, talora facendo propri i simboli nazisti.
Un altro gruppo era AN (Avanguardia nazionale), vicino fin dalla nascita alle posizioni di Borghese. Uno dei suoi esponenti di spicco era Stefano Delle Chiaie, diventato amico del Principe nero alla metà degli anni Sessanta. Molti lo sospettavano di essere un agente dell’UAR, anzi, la stessa AN era sospettata di essere una creatura dell’UAR. Al di là di queste voci, il movimento era infiltrato da agenti del governo. Sia AN sia ON erano organizzati su due livelli: uno pubblico e uno segreto, quest’ultimo pronto a lottare ricorrendo anche alla violenza se necessario.34
Entrambi avevano legami con le forze armate, la polizia e i servizi segreti. È difficile dire se vi fossero neofascisti nei servizi. Di certo non mancavano gli anticomunisti. Ma il personale della sicurezza di Stato doveva obbedire agli ordini del governo, benché sia possibile, se non addirittura probabile, che esistessero catene parallele di comando, formate da uomini fedeli a questo o quell’ambiente politico. Più potente era il partito, più prestigiosa era la posizione occupata dai suoi membri nei servizi, il che consentiva loro di godere di protezioni dall’alto e forse anche da parte di potenti agenzie straniere.
L’11 settembre 1968 Borghese fondò un nuovo movimento di destra, l’FN (Fronte nazionale). Come spiegò a Giampaolo Pansa, non si trattava di un partito: si poteva essere membri di un partito e contemporaneamente dell’FN, ma in questo caso si era tenuti a seguire le direttive del movimento di Borghese. In tal modo, l’FN riusciva ad agire dentro più formazioni politiche per il conseguimento del comune fine della rinascita dello Stato secondo la visione di Borghese. Nel momento di massima espansione, gli iscritti non arrivavano a 3000.
Già sparuto, l’FN perse alcuni esponenti della corrente più moderata nel novembre 1969, durante una riunione segnata da un breve scontro sulle tattiche da adottare. Uno dei rappresentanti dei moderati, Armando Calzolari, ex membro della X MAS, si dichiarò contrario alla proposta di colpire il PCI con attentati dinamitardi, convinto che azioni del genere avrebbero scatenato rappresaglie e costretto le forze armate a intervenire per assumere il controllo del paese. Abbandonò la riunione minacciando di fare rivelazioni. La mattina di Natale del 1969 uscì a passeggio con il cane e di lui non si seppe più nulla. Il suo corpo, con accanto quello del cane, fu ritrovato il 28 gennaio 1970 in un laghetto a pochi chilometri da casa. La morte fu dichiarata accidentale. Solo nel 1976, dopo che la madre di Calzolari era riuscita a far riaprire il caso, si parlò di omicidio premeditato.35
Fin dall’inizio, il SID ritenne che l’unico scopo del nuovo movimento di Borghese fosse la presa del potere, come testimonia un rapporto in cui si dice che esso fu creato per «sovvertire le istituzioni dello Stato per mezzo di un golpe».36