15

Dor si stese per terra accanto alla moglie. Le stelle si impadronirono del cielo.

Alli ormai non mangiava da giorni. Sudava molto, e il suo respiro affannoso preoccupava Dor.

Per favore, non lasciarmi, pensò lui. Non avrebbe potuto sopportare un mondo senza Alli. Si rese conto di quanto fosse importante per lui la sua presenza costante. Era l’unica persona con cui parlava. L’unica che gli sorrideva. Preparava il loro misero cibo, e anche se Dor insisteva perché fosse lei la prima a mangiare, Alli serviva sempre per primo lui. Al tramonto si stringevano l’uno all’altra. Tenerla stretta mentre dormivano era l’unico modo che gli restava di sentirsi ancora parte degli uomini.

Aveva i suoi strumenti di misurazione, e aveva lei. Quella era la sua vita. Era così da sempre, fin da quando erano bambini.

«Non voglio morire» sussurrò Alli.

«Non morirai.»

«Voglio stare con te.»

«Io sono qui.»

Tossì sangue, e lui lo asciugò.

«Dor?»

«Sì, amore mio?»

«Chiedi aiuto agli dèi.»

Dor esaudì la richiesta di Alli. Restò sveglio tutta la notte.

Pregò come non aveva mai pregato prima. In passato aveva riposto la propria fede nelle misure e nei numeri. Ora implorava le somme divinità, quelle che regnavano sul sole e sulla luna, di fermare tutto, di tenere il mondo nell’oscurità, di lasciare che l’acqua traboccasse dal suo orologio. Se questo fosse successo, Dor avrebbe avuto il modo di trovare l’Asu capace di curare la sua amata.

Dondolava avanti e indietro, e sussurrava in continuazione «per favore, per favore, per favore…» con gli occhi chiusi, perché gli sembrava che questo rendesse le sue parole più pure. Ma quando permise alle palpebre di schiudersi appena, vide quello che temeva: i colori all’orizzonte cominciavano a cambiare, e l’acqua nella scodella era quasi arrivata alla tacca che indicava l’alba. Vide che le sue misurazioni erano accurate, e le odiò per questo, e maledisse la sua conoscenza e gli dèi che lo avevano abbandonato.

Si inginocchiò accanto a sua moglie, al suo viso e ai suoi capelli zuppi di sudore, e avvicinò la pelle a quella di lei. Poggiò la guancia su quella di Alli e le loro lacrime si mescolarono mentre Dor sussurrava: «Interromperò le tue sofferenze. Interromperò ogni cosa».

Al sorgere del sole, non poté più vegliarla.

Le massaggiò le spalle, le sfiorò il mento.

«Alli… moglie mia… apri gli occhi.»

Lei era immobile, con la testa riversa sulla coperta e il respiro debole. Dor si sentì pervadere dalla rabbia, un urlo primordiale gli salì dalle piante dei piedi e proruppe dai polmoni.

«Aaaahhhh!!!!»

Il grido si perse negli spazi aperti dell’altopiano.

Si alzò, lentamente, come in trance.

E si mise a correre.

Corse per tutta la mattina, e sotto il sole di mezzogiorno. Corse con i polmoni che bruciavano, fino a quando, finalmente, la vide.

La torre di Nim.

Era altissima; la sua cima era nascosta dalle nuvole. Dor vi si precipitò, ossessionato da un’ultima speranza. Aveva osservato, analizzato e misurato i movimenti del sole e della luna, e ora era deciso a raggiungere l’unico luogo dove avrebbe potuto manipolarli.

Il cielo.

Voleva salire sulla torre a fare quello che gli dei non avevano fatto.

Fermare il sole, fermare la luna.

La torre era una piramide a gradoni, con una scalinata riservata alla gloriosa ascesa di Nim.

Nessuno osava salirci. Qualcuno abbassava addirittura gli occhi quando passava di lì.

Così, quando Dor raggiunse la base, diverse guardie lo notarono, ma nessuna sospettò quali fossero le sue intenzioni. Prima che potessero reagire, lui correva già su per la gradinata reale. Gli schiavi guardavano sbigottiti. Chi era quell’uomo? Era uno di loro? Si passarono la voce, e molti posarono a terra gli arnesi e i mattoni.

In breve anche gli schiavi cominciarono l’ascesa alla torre, pensando che la corsa verso il cielo avesse avuto inizio. Le guardie li seguirono, e lo stesso fece chi si trovava nei paraggi. La sete di potere è contagiosa, e in men che non si dica le persone che salivano erano migliaia. Si sentiva un fragore crescente, le urla confuse di una moltitudine violenta, pronta a prendersi ciò che non era suo.

Quello che successe dopo è materia di discussione.

La storia racconta che la Torre di Babele andò distrutta o venne abbandonata. Ma l’uomo che sarebbe diventato Padre Tempo potrebbe darci un’altra versione, perché il suo fato fu segnato proprio quel giorno.

Mentre la gente saliva, la struttura cominciò a traballare. I mattoni si fecero di un rosso più acceso. Si udì un rumore di tuono, e la base della torre si sciolse. La parte superiore, invece, fu avvolta dalle fiamme. Quella centrale rimase sospesa in aria, in barba a ogni insegnamento dell’esperienza. Coloro che cercavano di raggiungere il cielo vennero scaraventati via come neve scrollata dal ramo di un albero.

Nonostante ciò, Dor continuò a salire, fin quando la sua fu l’ultima sagoma rimasta aggrappata alla scalinata. Continuò a salire nonostante le vertigini, il dolore, i crampi alle gambe e il petto che bruciava. Si trascinava, un gradino dopo l’altro, in mezzo a un turbinio di corpi. Intravedeva braccia, gomiti, piedi, capelli.

Migliaia di uomini furono scagliati giù dalla torre, quel giorno, e le loro lingue si confusero. L’arrogante piano di Nim andò in frantumi prima che lui potesse scoccare una seconda freccia verso il cielo.

A un solo uomo fu permesso di arrivare oltre le nubi, un uomo portato verso l’alto quasi lo avessero sollevato di peso, finché atterrò sul pavimento di un luogo profondo e oscuro, un luogo che nessuno conosceva e che nessuno avrebbe trovato mai.