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Victor Delamonte, secondo una rivista finanziaria, era il quattordicesimo uomo più ricco del mondo.
L’articolo era corredato da una vecchia foto: Victor aveva il mento nel palmo di una mano, le dita pressate sulle guance pesanti e un sorriso pensieroso sul volto colorito. Il pezzo informava che «il riservato magnate degli hedge fund dalle folte sopracciglia» era figlio unico, nato in Francia e venuto in America a fare fortuna: la classica storia dell’immigrato passato dalle stalle alle stelle.
Ma, dal momento che aveva rifiutato di parlare con i giornalisti (Victor rifuggiva la pubblicità), certi dettagli della sua infanzia erano stati omessi: suo padre, un idraulico, era stato ucciso in una rissa da taverna quando lui aveva nove anni. Qualche giorno dopo sua madre era uscita di casa con addosso solo una camicia da notte color crema e si era buttata da un ponte.
In meno di una settimana si era ritrovato orfano.
Lo misero su una nave per farlo andare a stare da uno zio, in America. Tutti pensavano che fosse meglio per il ragazzo vivere in un posto senza tanti fantasmi. Più tardi Victor avrebbe attribuito la propria filosofia negli affari a quel viaggio transoceanico, durante il quale le sue provviste (tre pagnotte, quattro mele e sei patate) furono gettate in acqua da alcuni teppistelli. Quella sera pianse per tutto ciò che aveva perso, ma era solito raccontare che l’episodio gli aveva insegnato una lezione preziosa: attaccarsi troppo alle cose «ti spezza solo il cuore».
Questo insegnamento gli tornò utile per la sua asce-sa finanziaria. Comprò i primi due flipper quando frequentava le superiori a Brooklyn, con i soldi guadagnati lavorando d’estate, e li piazzò in due bar della zona. Li vendette otto mesi dopo, e con il ricavato comprò tre distributori di caramelle. Vendette anche quelli e prese cinque distributori di sigarette. Continuò a comprare, vendere e reinvestire, e così all’uscita dal college era già diventato proprietario dell’azienda che produceva i distributori automatici. Poco dopo acquistò una stazione di servizio e da lì passò al settore petrolifero, facendo numerosi e tempestivi acquisti di raffinerie che gli fruttarono molto più denaro di quanto potesse mai servirgli.
Diede i primi centomila dollari allo zio che l’aveva cresciuto. Reinvestì il resto. Acquistò concessionarie d’auto, proprietà immobiliari e infine banche, partendo da una piccola filiale nel Wisconsin. I suoi clienti aumentavano a vista d’occhio; così istituì un fondo per le persone che volevano guadagnare grazie alla sua strategia imprenditoriale. Negli anni, il fondo diventò uno dei più costosi e ricercati al mondo.
Incontrò Grace in un ascensore, nel 1965.
Victor aveva quarant’anni, Grace trentuno. Lei faceva la contabile nell’azienda di lui, e quel giorno indossava un modesto abitino, un golf bianco e un filo di perle. Aveva i capelli biondo chiaro, cotonati. Era carina, sembrava un tipo pratico. A Victor questo piaceva. Le fece un cenno di saluto mentre le porte dell’ascensore si chiudevano e Grace abbassò lo sguardo, imbarazzata di dover condividere lo spazio angusto della cabina con il capo.
Lui le chiese di uscire tramite la posta interna dell’ufficio. Andarono a cena in un club privato. Parlarono per ore. Victor venne a sapere che Grace si era sposata presto, appena finite le superiori. Suo marito era stato ucciso nella guerra di Corea. Lei si era buttata nel lavoro. Victor la capiva.
Raggiunsero il fiume in limousine. Passeggiarono a lungo. Si scambiarono il primo bacio su una panchina con la vista su Brooklyn.
Dieci mesi dopo il loro incontro in ascensore, si sposarono davanti a quattrocento invitati, ventisei dalla parte di Grace, i restanti soci in affari di Victor.
All’inizio facevano un sacco di cose insieme: giocavano a tennis, visitavano musei, facevano viaggi a Palm Beach, Buenos Aires, Roma. Ma più l’azienda di Victor si espandeva, meno momenti riuscivano a condividere. Lui cominciò a viaggiare da solo; lavorava sull’aereo, e ancora di più una volta giunto a destinazione. Smisero di giocare a tennis. Le visite ai musei si fecero rare. Non ebbero mai figli, e per Grace questo costituiva un rimpianto. Lo disse più volte a Victor. Fu uno dei motivi che pian piano li allontanarono.
Con il tempo, il meccanismo sembrava essersi rotto. Grace era irritata dall’impazienza di Victor, dalla sua mania di correggere tutti, dalla sua abitudine di leggere a tavola e dal fatto che fosse pronto a interrompere qualsiasi momento di socialità per una chiamata di lavoro. Lui detestava i piccoli rimproveri di Grace e le sue lungaggini, che lo costringevano a guardare di continuo l’orologio. Prendevano il caffè insieme a colazione, e qualche volta cenavano al ristorante, ma col passare degli anni e l’aumentare vertiginoso della loro ricchezza (case e aerei privati) arrivarono a intendere la vita coniugale come un dovere. La moglie recitava la propria parte, e così il marito.
Questo succedeva fino a poco tempo fa, quando per Victor tutti i problemi erano stati eclissati dall’ombra di uno solo. La morte, e come evitarla.
Quattro giorni dopo il suo ottantaseiesimo compleanno, Victor era stato da un oncologo in un ospedale di New York
e il medico aveva confermato la presenza di un tumore delle dimensioni di una palla da golf vicino al fegato.
Victor si era informato sui trattamenti possibili, intenzionato a non badare a spese nella ricerca di una cura. Aveva preso l’aereo per farsi vedere da diversi specialisti. Disponeva di un’intera squadra di consulenti sanitari. Ma dopo quasi un anno non era approdato a nulla. Qualche ora prima, lui e Grace erano stati dal medico che guidava l’équipe. Grace aveva provato a fare una domanda, e la voce le si era rotta in gola.
«Ciò che Grace vorrebbe chiederle è quanto tempo mi rimane» aveva detto Victor.
«Volendo essere ottimisti, un paio di mesi» era stata la risposta.
La morte stava venendo a prenderlo.
Ma lui aveva in serbo una sorpresa.