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Uscendo prese un mantello e un cappello dalla rastrelliera degli abiti di seconda mano accanto alla porta. Il mantello era troppo piccolo e lo copriva a malapena fino alla vita, il cappello invece gli stava. Abbassò la tesa larga per nascondere il viso e riemerse a passo rapido nelle vie affollate, cercando di mimetizzarsi tra la gente. Era certo che la ragazza e il suo drone lo avrebbero seguito, ma almeno li stava portando via da Bridge Street, allontanando il pericolo dalla mamma e da Myka.
In realtà voleva solo andarsene sano e salvo da Cleave. Sarebbe saltato su un treno in partenza, avrebbe cambiato a Chiba prendendo la Spiral Line, e poi di nuovo a Kishinchand, prendendo la O Link. Così facendo avrebbe già attraversato metà della galassia prima che i suoi inseguitori si accorgessero che aveva lasciato la città...
Ma come ci sarebbe riuscito? La ragazza poteva avere degli amici. Il drone che gli aveva sguinzagliato dietro ad Ambersai forse stava pattugliando le strade. E lei stessa sarebbe stata di guardia alla stazione.
Gli serviva un piano. Sostò qualche istante in una radura di felci nel canyon, dove immagini olografiche dei Guardiani ondeggiavano come fantasmi incatenati sopra una fila di tabernacoli di dati. Molte persone si staccavano dalla folla sulla strada per fermarsi davanti a questa o quella teca e scaricare preghiere elettroniche. Gli esseri umani avevano sempre sognato divinità che li guidassero e li proteggessero: i Guardiani erano gli ultimi nonché i migliori dei che avessero mai inventato. Intelligenze artificiali create sulla Vecchia Terra, immortali e onniscienti come gli dei dell’antichità. Erano stati i Guardiani ad aprire i portali K e aiutare le famiglie della corporazione a disporre binari e stazioni della Rete. In giorni ormai remoti si erano incarnati in corpi clonati e avevano camminato fra gli umani. Adesso i Guardiani vivevano per la maggior parte ritirati fra di loro, esseri di pura informazione, sparsi nella moltitudine dei dati di ogni mondo, impegnati in pensieri troppo complessi e ancestrali per essere contenuti ed elaborati da cervelli umani. Zen era abbastanza sicuro che non si sarebbero mai interessati alla sua vicenda.
Decise di ricorrere all’aiuto umano, invece. Rubò un paio di cuffie monouso a un venditore ambulante e trovò un posto tranquillo fra le piccole cappelle di dati. Le cuffie erano un semplice modello in plastica, di bassa qualità, ma erano più che sufficienti per lui. Un’estremità gli si adattava perfettamente dietro l’orecchio, trasmettendo il suono attraverso le ossa del cranio. L’altra premeva contro la tempia, facendo scorrere le immagini nei centri visivi del suo cervello. Appena aprì la connessione sulla valanga di dati di Cleave, una tempesta di rozzi messaggi pubblicitari si sovrappose alla sua visione della strada bagnata. La scacciò sbattendo le palpebre e trovò un sito di messaggistica.
Avrebbe voluto contattare Myka, ma era troppo rischioso; di sicuro la ragazza in rosso stava controllando i suoi messaggi. A chi altri poteva rivolgersi?
Zen non aveva amici. Se n’era lasciato qualcuno alle spalle quando era andato via da Santheraki, e non si era mai dato pena di farsene di nuovi. Il problema, con gli amici, era che prima o poi avrebbe dovuto metterli al corrente dei disturbi di sua madre e della vita in Bridge Street, e di quelle cose tristi preferiva non far parola con nessuno. Il che, tra l’altro, ben si adattava all’immagine che aveva di sé: il ladro solitario, stile gatto randagio che si aggira per le strade in piena notte. Be’, a volte scambiava qualche battuta con i bambini che incontrava allo Spatterpattern Club, ma non poteva certo sperare che qualcuno di loro potesse tirarlo fuori da un guaio così serio.
Quindi restava solo Flex. Era amica di sua sorella, in verità, ma forse lo avrebbe aiutato, per salvare Myka. Flex possedeva esattamente le capacità di cui Zen aveva bisogno.
Con rapidi movimenti degli occhi digitò i dettagli del suo contatto su una tastiera virtuale, che quando ebbe finito si ritrasse in un angolo del suo campo visivo. Sbatté le palpebre per selezionare il tag SOLO AUDIO. La scritta CONNESSIONE lampeggiò per un’eternità.
Alla fine sentì la voce di Flex: «Ehi...».
«Sono il fratello di Myka» disse Zen, evitando appositamente di pronunciare il suo nome, casomai qualcuno stesse cercando di rintracciarlo attraverso le reti di comunicazione di Cleave. «Mi serve aiuto.»
«Che genere di aiuto?»
«Devo salire su un treno, ma non posso farlo alla stazione.»
«Okay.» A quanto pareva, Flex non aveva bisogno di spiegazioni. «Troviamoci qui.»
Flex condivise le coordinate con il dispositivo audio-video di Zen. Battery Bridge.
Lui la ringraziò, si tolse le cuffie e le gettò in un canaletto di scolo mentre si avviava di corsa.
Per tutto il tragitto fino al ponte Zen continuò a domandarsi se il drone avesse intercettato i suoi messaggi, ma quando arrivò a destinazione c’era solo Flex ad attenderlo. Una sagoma bassa e tarchiata, il cappello impermeabile che luccicava come un fungo bagnato. Sotto il cappello ce n’era un altro, con un copriorecchie, e sotto ancora un dispositivo audio-video raffazzonato, con una grossa lente che le nascondeva l’occhio destro.
Zen non era mai stato davvero sicuro che Flex fosse una femmina, ma pensava a lei come a una ragazza. Il suo scialbo viso abbronzato e i vestiti informi non fornivano alcun indizio, ma c’era una gentilezza burbera, in lei, che gli ricordava Myka. Viveva per strada, da qualche parte nei depositi, ma a volte le fabbriche la chiamavano per dipingere i loro veicoli o realizzare murales sopra i cancelli. Era così che Myka l’aveva conosciuta.
Per il resto del tempo Flex faceva la graffitara, una di quegli artisti selvatici cui piaceva intrufolarsi nei depositi lungo la ferrovia per dipingere sui container merci in attesa, sui vagoni passeggeri, e persino sulle locomotive. I ragni addetti alla manutenzione dei treni di solito rimuovevano i graffiti prima che la pittura fosse asciutta, ma se erano opere ben fatte alcune locomotive se le tenevano e le portavano in giro con orgoglio quando attraversavano i portali K. Quelle di Flex erano stupende, in realtà. Zen non capiva molto di arte, ma guardando le cose che lei dipingeva si era convinto che i treni le piacessero. Flex non aveva mai viaggiato lungo la K-bahn, ma i suoi schizzi dai colori sgargianti sì. Animali immortalati mentre spiccavano un balzo o strane figure danzanti venivano ammirati in tutte le stazioni della Rete, murales mobili che sfrecciavano per la galassia sulle fiancate di convogli grati per quei decori.
E soprattutto, cosa importante per Zen, il fatto che Flex giocasse al gatto col topo con i sistemi di sicurezza ferroviari significava che conosceva modi per raggiungere i treni senza passare dalle stazioni.
«Dove stai andando?» gli chiese.
«Da nessuna parte» rispose Zen. «Via.»
Lei si lasciò sfuggire un borbottio di disapprovazione. «Myka lo diceva sempre, che ti saresti cacciato in qualche pasticcio.»
«Io vivo di quello» ribatté Zen. «E comunque, tu dipingi i treni. Myka ha qualcosa da ridire anche su questo?»
«È diverso... E io non sono il suo fratello minore.»
«Mi aiuterai?» insistette lui.
Flex annuì. «Certo. Myka mi ha salvato la vita, una volta. Glielo devo.»
Imboccarono un ripido vicolo che si inerpicava accanto allo scroscio spumoso di una cascata. Il rombo dei treni merci passava sopra le loro teste. Zen si chiese che cosa potesse aver fatto sua sorella per salvare la vita a Flex, e perché non ne avesse mai parlato. Ma i distretti industriali erano luoghi pericolosi, questo lo sapevano tutti. Era probabile che laggiù le persone si salvassero spesso la vita a vicenda...
A metà della salita Flex si fermò. Doveva aver mandato un segnale tramite il dispositivo audio-video, perché sul muro del vicolo un portello arrugginito scivolò lateralmente, aprendosi. Fece segno a Zen di infilarcisi e lo seguì, accendendo una torcia mentre il portello si richiudeva alle loro spalle.
«Un tempo c’era una centrale elettrica qui» gli spiegò. «Serviva una vecchia linea ferroviaria ormai chiusa. Questo è uno dei passaggi di accesso. Sbuca nei depositi merci dietro Cleave Station.»
Era un tratto breve, ma era così stretto che mancava l’aria. Bui cunicoli laterali si diramavano ai lati, pieni della furia della cascata che veniva spinta a forza nelle chiuse sotto la K-bahn. In fondo, alcuni pioli fuoriuscivano dal muro di un condotto verticale, e in cima al condotto si dischiuse un altro portello. Zen saltò fuori come un gopher in uno spazio morto ricoperto di erbacce fra due rotaie luccicanti della K-bahn. Le banchine illuminate della stazione distavano circa cinquecento metri, incassate sotto la sporgenza della parete del canyon. La parte della tratta in cui era riemerso Zen era avvolta dall’oscurità, fatta eccezione per un Angelo della Stazione, che si librava come un tenue fuoco fatuo vegliando su un treno che doveva aver da poco attraversato il portale.
«Che cosa aspetti?» gli chiese Flex, giù nel condotto sotto di lui.
«C’è un Angelo della Stazione...»
«Non ti farà alcun male.»
«Questo lo so» disse Zen. Erano pur sempre inquietanti, però, e fu contento di vedere che quello davanti a lui stesse sbiadendo: gli Angeli non duravano a lungo così lontano da un portale. Sbucò fuori dal condotto e rimase lì per un momento, lo sguardo fisso verso le banchine: non aveva mai visto una stazione della K-bahn da una simile prospettiva prima di allora. Anche Flex uscì dal portello e si incamminarono insieme attraversando le rotaie, in direzione di una fila di carrozze per il trasporto merci parcheggiate su un binario di servizio. Zen stava quasi cominciando a divertirsi, adesso. Da qualche parte, più giù lungo la linea ferroviaria, avrebbe raccontato questa storia ai ladruncoli alle prime armi nei bar. «Mi avevano sguinzagliato dietro dei droni, poi mi sono intrufolato nella K-bahn e sono saltato su un treno in partenza. Un gioco da ragazzi!»
Le carrozze in attesa erano vagoni merci per il trasporto di minerali grezzi, blasonati con lo stemma delle chiavi incrociate della famiglia Prell e ricoperti da un mucchio di graffiti di artisti meno bravi di Flex. Zen la vide lanciare un’occhiata veloce ai tag e arricciare il naso davanti a quella mancanza di talento.
«Devo salire su uno di questi?» chiese lui.
Flex scosse la testa. «Aspetta qui finché non arriva un treno passeggeri, ci salti sopra mentre entra in stazione, poi scivoli dentro appena si aprono le porte.»
«Ma il treno non se ne accorgerà?»
«Sì, ma probabilmente non ci farà caso. Conosco i locomotori che passano da qui. La maggior parte sono a posto. Il peggio che possa accadere è che mandi un ragno della manutenzione a occuparsi di te. Digli che sei un mio amico.»
«Arriva un treno» annunciò Zen. Riusciva a sentire lo sferragliare del motore che aumentava di volume.
Flex guardò in su. La luce proveniente dalla stazione le illuminò il volto spigoloso. «Quello non è un treno.»
Aveva ragione. Le rotaie non vibravano come quando si avvicinava un convoglio. Qualsiasi cosa fosse, stava arrivando per via aerea.
«Un drone!» gridò Zen, nel preciso istante in cui le sue luci di ricognizione si direzionavano sui binari. Flex si dileguò, lanciandogli un’ultima occhiata di avvertimento e sgattaiolando in un anfratto buio dietro i vagoni merci. Zen fece per seguirla, ma la luce lo catturò. Vide la propria ombra stagliarsi sul fianco della carrozza più vicina, netta come se Flex l’avesse disegnata con una vernice spray nera.
Si voltò. Il drone si librava in aria a qualche metro di distanza. Doveva averlo visto entrare nel passaggio insieme a Flex, indovinando dove sarebbero riemersi, ed era volato fin lassù ad aspettarli. Una cosa grigia dallo sguardo malevolo, la fusoliera smussata sospesa fra tre grossi rotori, un’intera batteria di telecamere e strumenti puntati su di lui per restituire la sua immagine alla ragazza in rosso, o a chiunque altro lo stesse cercando.
«E va bene!» gridò. «Cosa vuoi?»
Dalla corazza metallica del drone sprizzarono scintille. L’aggeggio ruotava su se stesso. Zen sentì degli schiocchi e un acuto scampanellio. Guardò a destra e a sinistra e vide gente correre e gridare. Fiotti di luce lampeggiavano sugli impermeabili grigi. Sulle prime pensò che fossero le persone ai comandi del drone che erano venute a prenderlo, poi si rese conto, invece, che stavano sparando proprio contro il marchingegno volante. Colpito, quello si capovolse e andò a schiantarsi sulle rotaie. Un lampo azzurrino, poi schegge di rottami schizzarono accanto a Zen come pipistrelli. Qualcuno lo afferrò, lampi di luce dritti sulla sua faccia. Gli impermeabili grigi gli gridavano qualcosa, ma l’esplosione lo aveva assordato. Iniziarono a spingerlo verso la stazione, lungo un viottolo piastrellato che correva tra i binari.
Il convoglio che era appena arrivato a Cleave non era un normale treno passeggeri. Per cominciare non aveva carrozze, solo una lunga locomotiva nera, ancora fumante per l’attraversamento del portale K. Il capannello degli appassionati in fondo al binario era in visibilio, e a ragione, pensò Zen. In qualsiasi altra sera sarebbe stato lì insieme a loro, a sgomitare per vederlo meglio: quel treno sembrava uscito da un film in 3D. Una macchina imponente, brutale, possente come un dinosauro, con tanto di torrette per i fucili, scomparti per i missili e lo stemma dell’Impero della Rete.
Ma cosa ci faceva un treno da guerra a Cleave?