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In piedi vicino a sua sorella, Threnody osservava gli schermi olografici cercando di dare un senso al filmato frenetico registrato dalle telecamere sui caschi dei Corpi Blu. La luce intermittente e lo sfrigolio delle interferenze statiche, le urla incomprensibili, il treno rosso in partenza.
«È fuggito?» chiese Priya, guardando Threnody con occhi imploranti, come se sperasse che l’altra potesse dirle che si sbagliava. «L’hanno lasciato andare?»
Fuori le sirene ululavano, i raggi di luce dei proiettori da ricerca si incrociavano sulle volte della stazione, i velivoli della Railforce scendevano in picchiata a recuperare i sopravvissuti alla battaglia che uscivano barcollando dalle vecchie gallerie.
«Se nemmeno la Railforce è in grado di tenerci al sicuro, chi mai potrebbe farlo?» domandò Priya.
«Ma noi siamo al sicuro, Pri» ribatté Threnody. Osservando Zen Starling su quegli schermi nella luce stroboscopica dei colpi di arma da fuoco, aveva temuto di vedere che gli sparavano. Non era lo spettacolo a cui avrebbe voluto assistere. Ma non voleva nemmeno che riuscisse a fuggire: avrebbe preferito che lo catturassero, lo portassero lì ammanettato e lo costringessero a spiegarsi. A scusarsi. E poi che lo ibernassero per un lungo, lunghissimo periodo. Il pensiero di Zen che se ne andava a bordo del vecchio treno rosso, illeso, la colmò di indignazione. Era così ingiusto. Non avrebbe dovuto vincere!
La Railmarescialla si avvicinò, impartendo altri ordini agli ufficiali più giovani che correvano da una parte all’altra come bambini spediti a fare delle commissioni.
«Lo avete lasciato scappare!» la redarguì Priya, e Threnody si domandò se intendesse dire che la Railmarescialla aveva lasciato andare Zen deliberatamente. Il che non poteva essere vero; ma non sembrava esserci molto, in quel momento, che la povera Priya non fosse disposta a credere.
«Mi dispiace» disse la Railmarescialla. «Non ci aspettavamo che il suo treno fosse così ben armato; i nostri uomini sono stati colti di sorpresa. Sappiamo che si trova sulla Dog Star Line, però. Lo staneremo.» Poi, per qualche ragione, la Railmarescialla guardò Threnody. C’era qualcosa di strano nella sua espressione: gli occhi della donna tradivano ben altri pensieri che un treno in fuga. «C’è qualcuno che vuole parlarle, Threnody.»
«Chi?» chiese Priya sospettosa.
«La prego, Maestà, è una questione privata...»
«Io sono l’Imperatrice!» strillò Priya. «Dovrei sapere ogni cosa!»
Lyssa Delius fece un sorriso pericoloso. «Soltanto i Guardiani sanno ogni cosa, Maestà. E forse nemmeno loro. Capitano Rostov, capitano Zakhar, credo che il rischio immediato sia passato, quindi l’Imperatrice dovrebbe tornare a casa sua. Scortatela, per favore.» E, voltandole le spalle prima che Priya avesse modo di protestare, aggiunse: «Mi segua, lady Threnody».
Stava accadendo qualcosa di singolare, pensò Thren, mentre la Railmarescialla in persona la conduceva attraverso i corridoi della torre di controllo e sua sorella, l’Imperatrice, veniva scortata a casa da semplici capitani. «Con chi è che dovrei parlare?» chiese. Ma Lyssa Delius parve non udirla.
Un piccolo ufficio in disparte, privo di finestre. Una grande sedia al centro che, quando Threnody vi prese posto, si reclinò. Un uomo con delle vesti rosse che trafficava con un macchinario in un angolo.
«Il signor Yunis è un membro del College Imperiale dei pescatori di dati» le spiegò la Railmarescialla. «La condurrà al cospetto di uno dei Guardiani.»
Threnody si raddrizzò. In qualsiasi altra sera avrebbe pensato che si trattasse di uno scherzo. «I Guardiani non parlano con la gente» obiettò. «Non più.»
«Questo parla con il signor Yunis» replicò la Railmarescialla, spingendola di nuovo delicatamente contro lo schienale. «E adesso, a quanto pare, vuole parlare con lei.»
«Ci dev’essere un errore... forse intendeva dire Priya...»
«Non credo che i Guardiani onniscienti commettano errori di questo genere.»
Threnody stava tremando. Guardò il signor Yunis, sperando che fosse in grado di rassicurarla, ma il pescatore di dati tremava a sua volta mentre allungava il braccio verso di lei per sistemarle sulla testa un complicato sistema di cuffie munite di visiera, posizionandole le estremità dietro le orecchie e contro le tempie. Aveva misteriosi tatuaggi sul volto e sul dorso delle mani. «Funziona praticamente in tutto e per tutto come le cuffie normali, lady Threnody» le spiegò. «È un’esperienza inquietante incontrare uno dei Guardiani. Entrerà in una parte del Mare di Dati fuori dal raggio d’azione dei sistemi di sicurezza della corrente dati di Sundarban...»
«Ma non è pericoloso?» chiese Threnody. C’erano cose che abitavano nelle profondità dei dati: reti di phishing non registrate, spam-shark che ti hackeravano la mente e ti riempivano i sogni di pubblicità, programmi militari mezzo matti residuati da guerre di molto tempo prima.
Il signor Yunis guardò Threnody come se fosse pericoloso per davvero, ma disse: «I Guardiani hanno costruito un ambiente virtuale temporaneo per incontrarla. La prego di credere che è al sicuro, abbastanza al sicuro...».
All’accensione le cuffie emisero un gemito. «Non penso stiano funzionando» cominciò a dire Threnody, poi il signor Yunis digitò un codice e lei precipitò nel Mare di Dati.
Non fu come loggarsi a una corrente dati. Le correnti erano luoghi brillanti, colmi di luminosi, allettanti centri commerciali e dell’effervescenza luccicante dei social network. Lì invece, nelle profondità dei dati, tutto era grigio, una zuppa monocroma in movimento attraversata da minuscole luci che scintillavano e sfrecciavano come gocce di pioggia catturate dal bagliore di un fanale. Questa cosa circondava Threnody, avvolgendola.
È soltanto il mare, disse il signor Yunis nella sua mente. Lei non poteva vederlo attraverso quella tempesta di dati, ma la sua voce la calmò. Se si concentrava riusciva a sentire la mano di Lyssa Delius che teneva le sue e la morbidezza della sedia su cui era adagiata, fuori nel mondo reale.
Poi trovò un modo per dare un senso al flusso di informazioni che le si stava riversando nella mente. Un modo non molto originale, a dire il vero, ma risultò abbastanza efficace da tenere a bada il panico. Osservò il Mare di Dati come avrebbe fatto con un mare vero. I milioni di piccole scintille di luce che passavano via sfrecciando come plancton erano pacchetti dati individuali. Le luci più grosse che splendevano e si affievolivano erano le menti dei treni, i notiziari televisivi e i messaggi provenienti da altre stazioni mentre attraversavano Sundarban. Quegli enormi, morbidi coni di luce effervescenti, simili a vulcani subacquei, erano reti di informazioni protette da un sistema firewall: la corrente dati locale e le correnti private che appartenevano ai Noon e ad altre grandi compagnie. E là fuori, a malapena visibili nelle tenebre più lontane, quelle forme gigantesche dovevano essere gli avatar locali dei Guardiani...
Ma dov’era Threnody? Per un attimo fu di nuovo assalita dal panico. Era sospesa in mezzo a quel marasma? Stava andando alla deriva? Sarebbe annegata? Ma no. Guardava fuori attraverso un vetro. Una finestra grandissima. In piedi su un pavimento di piastrelle nere e bianche. Se fissava le mattonelle troppo a lungo, quelle cominciavano a scambiarsi di posto l’una con l’altra, in una complicata danza. Perciò si voltò, per vedere cosa c’era alle sue spalle.
Sembrava una stanza. Un’enorme stanza vuota, con una parete – quella alla quale ora Threnody dava la schiena – a vetri. Le altre tre erano fatte di cassetti. File su file di cassetti di legno, ognuno con una maniglia di ottone sagomata come una piccola conchiglia.
No. Non era una vera stanza, solo un ambiente virtuale, come in un videogame. E la qualità delle immagini era persino inferiore a quella della maggior parte dei giochi. I piedi virtuali di Threnody non facevano rumore sul pavimento mentre lei ci camminava sopra; la maniglia di un cassetto non le diede alcuna sensazione di contatto quando Threnody la tirò per aprirlo.
Al suo interno, vide un milione di fogli di carta sottile. Ne prese uno. Sopra c’erano stampate parole in lingue che non conosceva.
«Chi sei tu?» chiese una strana voce. Veniva da tutto intorno a lei e da dentro di lei, ma Threnody si voltò comunque per vedere chi avesse parlato.
Somigliava a una donna, anche se non lo era davvero, non più di quanto quella stanza fosse davvero una stanza. Era una creatura fatta di un codice, e quel codice stava costruendo, a beneficio di Threnody, l’immagine di una donna molto alta dalla pelle azzurro chiara. Un abito a disegni stampati con foglie pendenti e nastrini di pizzo; una folta massa di capelli rosso scuro. Capelli e vestito gonfiati entrambi da una brezza che Threnody non poteva sentire.
«Salve» disse incerta. Era in soggezione, incredula. Stava parlando con un Guardiano, o con una parte di lui, almeno. Lei, la piccola Threnody Noon, di fronte a un’entità creata sulla Vecchia Terra, uno dei costruttori della Rete.
Devo chiedere loro che Priya non venga a saperlo, pensò. Sarebbe così invidiosa...
La donna azzurra si avvicinò, scivolando leggiadra sopra le mattonelle danzanti. Difficile indovinarne l’altezza. A Threnody sarebbe piaciuto credere che avesse la stazza di un normale essere umano, ma soffermandosi a riflettere sulle proporzioni di ciò che le stava intorno si sarebbe accorta delle scintille di luce che saettavano nella stanza, scendendo in picchiata verso la donna e svanendo dentro di lei. Erano le stesse scintille che, in precedenza, Threnody aveva decretato essere delle stesse dimensioni del plancton, mentre ora aveva la sensazione che fossero grandi come soli e che la figura in piedi in mezzo a loro fosse alta anni luce. Attraverso quegli occhi color dell’oro Threnody avvertì la presenza di un’intelligenza smisurata concentrarsi su di lei.
«Benvenuta, Threnody Noon.»
Sopra la testa del Guardiano, come nella nuvoletta di un fumetto, apparve l’immagine di una stanza. Era la sala della stazione cittadina di Sundarban dove Threnody sedeva sulla grande sedia con Lyssa Delius e il pescatore di dati accanto a lei. Una visione vertiginosa, aerea, come se il Guardiano avesse hackerato le registrazioni di una telecamera di sicurezza sul soffitto. Threnody lasciò che l’immagine rimanesse sospesa lì per qualche istante, poi si sfilò dai capelli una lunga forcina argentata e punse la nuvoletta, che svanì con un forte pop.
«Sono un’interfaccia digitale del Sistema di Intelligenza Artificiale Autonomo della Rete 6.0» disse il Guardiano. «Puoi chiamarmi Anais.» La donna accennò al cassetto che Threnody aveva aperto e aggiunse: «E-mail».
«Mi scusi?»
«Le colleziono. Sono una specie di messaggi che le persone si spedivano l’un l’altra. Un po’ come quelli che tu mandi ai tuoi amici, suppongo, eccetto che ai vecchi tempi la gente li digitava con una tastiera, riesci a immaginare? Sono ancora laggiù da qualche parte, nei livelli più profondi del limo che si deposita nei fondali del Mare di Dati. “Grazie per il vostro interessamento” dicono, o “Mi sto divertendo un sacco”, o “Il suo ordine è stato consegnato”, o “Ti amo”, o “Il gerbillo è morto”. Ognuno una perla! La mia ambizione è acquisire ogni singola e-mail che sia mai stata spedita. Ti va di leggerle?»
Tutto intorno a Threnody, silenziosamente, i cassetti cominciarono ad aprirsi.
No, la mise in guardia il signor Yunis, una voce esilissima in un angolo della sua coscienza, come un topino servizievole in una favola di fate.
«Più tardi magari...» rispose Threnody nervosa. «Mi hanno detto che voleva parlarmi.»
I cassetti si richiusero con un colpo secco. Anais tremolò. Ebbe un’interruzione improvvisa. Voltò le spalle a Threnody. Vista da dietro era concava, come un ammasso di gelatina. Mosse le mani per disegnare forme luminose nell’aria. «Ho rilevato la presenza di motivi ricorrenti» disse Anais. «I reclami dell’uomo Malik. Un treno sulla Dog Star Line. Avremmo dovuto vedere, invece non abbiamo visto. Credevo fosse morto. Tutti lo credevamo.»
Threnody cercò di seguirla. «Chi credevate fosse morto?»
«Raven! Raven!» Il Guardiano le si avvicinò. Thren poteva vedere che il suo viso era una maschera di porcellana ricoperta da una rete sottile di minuscole fessure. Invece degli occhi aveva due lettere «i». Al posto delle labbra i caratteri rossi che formavano la parola «bocca».
«Tu hai parlato con il ragazzo a bordo del Treno dei Noon, Zen Starling.»
«Sì» rispose Threnody. «Be’... in realtà era mia zia Sufra che aveva preso a benvolerlo...»
Non era di alcuna utilità mentire ai Guardiani. «Sto guardando un video che arriva dalla stazione di Adeli» disse Anais. «È salito sul treno. Tu gli hai fatto da guida. Gli hai dato il benvenuto.»
«Volevo solo essere gentile, non potevo immaginare che fosse un impostore. Se lo avessi saputo...»
«Che cosa vuole?»
Threnody cominciava ad agitarsi. «La collezione d’arte. Mi aveva detto di volerla visitare. Zia Sufra gliel’ha mostrata...»
Gli occhi del Guardiano ebbero un guizzo. Una parte di lei stava ancora guardando Threnody, un’altra scansionava cataloghi della collezione dei Noon. «Il ragazzo ha forse manifestato un interesse per qualche oggetto in particolare della collezione?»
«Non credo» replicò Threnody.
Qualcosa apparve a mezz’aria e rimase sospesa tra il suo viso e quello del Guardiano. Un piccolo, insignificante cubo color grigio piombo. «Zen Starling si è mostrato interessato a questo? La Pyxis, artista sconosciuto, acquistata da lady Rishi Noon.»
«Non lo so...»
«Perché non l’ho mai notata prima?»
«È una domanda retorica?» chiese Threnody.
«È della misura e del peso giusti. È possibile che lady Rishi... Raven era suo amico. Può essere che lui...»
La maschera di Anais scricchiolò e cadde, frammentandosi come il guscio di un uovo. Dietro c’erano delle foglie: arancioni, gialle e marroni, un turbinio autunnale che aveva le dimensioni di una nebulosa. La stanza con il pavimento a scacchi smise di esistere in un lampo, come se Anais non ce la facesse più a sostenere quell’illusione. Per un momento Threnody pensò di trovarsi in un mondo in cui stavano costruendo una stazione immensa, macchine che scavavano fondamenta profonde nel rosso basamento roccioso. Gente con abiti fuori moda stava mettendo insieme qualcosa che somigliava a una covata di uova nere mezzo sepolte nel suolo: sfere scure, la luce che rimbalzava sulla loro superficie producendo strani motivi decorativi. Poi anche quella visione sparì e Threnody si ritrovò nelle grigie correnti del Mare di Dati. Le lucine plancton le sfrecciavano accanto, riversandosi dentro e fuori da un’oscurità assoluta, che pian piano fluttuò lontano da lei.
«Va’» la licenziò Anais.
Ed eccola lì, a contorcersi e annaspare sulla grande sedia come se fosse stata appena soccorsa da un annegamento, ad armeggiare con le cuffie del dispositivo mentre il signor Yunis glielo sfilava dalla testa e a fissare negli occhi Lyssa Delius, che si chinò su di lei. «Allora? Ha parlato con il Guardiano? Che cosa le ha detto? Cosa voleva?»
Threnody ci pensò un po’ su, mentre il battito del suo cuore tornava alla normalità. «Non ne ho la più pallida idea.»
Oltre un lago color zaffiro a forma di cuore fra le montagne del continente a nord di Sundarban c’era una vecchia casa. I cancelli erano chiusi con un lucchetto e non venivano aperti da molti anni. In un’epoca precedente i suoi giardini sarebbero stati incolti e l’abitazione stessa fatiscente, ricoperta di edera, niente più di una dimora per uccelli e pipistrelli. Ma quello era il tempo dell’Impero della Rete, per cui la casa si autoriparava e aveva droni che tagliavano il prato, rastrellavano i lunghi viali di ghiaia e davano da mangiare alla carpa nel lago mentre lei dormiva.
Per la prima volta da un secolo a quella parte, nelle ampie stanze silenziose tremolavano delle luci e la casa obbediva a ordini che le giungevano direttamente dal Mare di Dati. Il bagliore si riverberava sui lustrini e sui tessuti scintillanti degli abiti appesi negli enormi guardaroba. Giù nella cantina, dove l’odore indistinto di cloro di una piscina prosciugata indugiava ancora nell’aria, dei Motorik si svegliarono di soprassalto e un alloggiamento nella parete bianca scivolò in fuori, schiudendosi. Era un lungo cassetto concavo a forma di bara, con dentro un tubo di vetro adamantino: una versione più lussuosa di quelli in cui venivano congelati i prigionieri.
Gli ingranaggi meccanici di quel luogo giravano e ronzavano. I display dei misuratori di temperatura si accesero. I Motorik si affaccendavano ognuno nella propria mansione. Il gelo sulla superficie interna del tubo si stava sciogliendo, il gel che lo riempiva fuoriusciva gorgogliando attraverso piccoli condotti nascosti. Presto fu visibile ciò che c’era al suo interno. Occhi dorati si spalancarono. Il corpo fu scosso da un brivido e sbatté le palpebre, confuso, quando una copia parziale di Anais Six, riemersa dal Mare di Dati, si riversò nel suo cervello.
Aveva indossato quell’interfaccia a una festa, poi aveva perso interesse e non l’aveva mai più usata. Adesso si muoveva, finalmente. La procedura di scongelamento sarebbe dovuta durare ore ma, non appena ebbe il controllo dei propri muscoli, l’interfaccia si costrinse a uscire dal tubo congelatore, afferrò l’abito da sera che uno dei Motorik aveva già preparato per lei e attraversò a grandi passi le stanze silenziose fino al giardino. L’auto volante che l’avrebbe portata alla stazione cittadina stava già atterrando.