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Zen si stava arrampicando in fretta tra le ombre, nella strana luce delle pareti viventi. In cima alla scala c’era una piccola camera dal pavimento che sarebbe potuto essere in avorio. Al centro, una piccola cavità tonda.

Tirò fuori la Pyxis. Toccandola avvertì un formicolio. Sapeva che la sfera al suo interno si sarebbe adattata alla perfezione a quella cavità, che era stata creata esattamente per questo. Il ragazzo ebbe la vertiginosa sensazione che tutta la sua vita non fosse stata altro che una corsa verso quel luogo, verso quel momento.

«Dammela» ordinò l’interfaccia, giunta in cima alle scale. Si chinò per entrare nella camera e si raddrizzò di nuovo una volta dentro, torreggiando sopra di lui. Dietro di lei Zen riusciva a vedere Nova e Malik, sui gradini, i visi illuminati dalla luce pulsante delle pareti.

Strinse la Pyxis più forte. Sollevò lo sguardo, incrociando gli occhi dorati dell’interfaccia. «Raven mi ha detto che avrebbe modificato la Rete, non che l’avrebbe distrutta.»

«Mentiva» ribatté l’altra. Si avvicinò, porgendogli la mano aperta perché Zen vi adagiasse la Pyxis. Gli girò intorno, mettendosi fra lui e la cavità nel pavimento in cui la sfera voleva andare. «Non si può estendere la Rete. Aprire un altro portale K causerà un ritorno di energia che ridurrà questo mondo in cenere e ci ucciderà tutti. L’effetto si diffonderà per l’intera Rete, destabilizzando tutti i portali esistenti e liberando una cascata di energia KH che distruggerà ogni cosa. Questo era lo scopo di Raven.»

Zen fissava quel volto. Era così difficile credere che stesse mentendo: quel viso era stato progettato per venire adorato dagli uomini. Ci si sarebbe dovuti inginocchiare davanti a un viso strano e saggio come quello. Ci si sarebbe dovuti chinare a baciare quei piedi bluastri. Eppure c’era qualcosa in Zen – una forma di orgoglio da scontroso ladruncolo di strada – che non si sarebbe mai prostrato davanti a nessuno. Nemmeno davanti a un Guardiano.

«Hai solo paura» disse all’interfaccia. «È proprio come ha detto Raven. Tu hai paura del cambiamento.»

«Malik» ordinò lei, spazientita. «Uccidilo.»

«Non ce ne sarà bisogno» rispose il capitano. Alzò la pistola, ma non la puntò su Zen. Teneva sotto tiro Nova. Alla testa, perfettamente istruito su come si uccide un Motorik.

L’interfaccia parve confusa. «E a cosa servirebbe?»

«Zen ha rischiato tutto per questo Moto» spiegò Malik. «È tornato a prenderla sapendo che avrebbe potuto farsi ammazzare. Si amano.»

E Zen, che per pudore fin dai giorni di Sundarban aveva evitato anche solo di pensarla, quella parola che iniziava per «a», dicendosi che non era sicuro di ciò che provava per Nova, comprese che era vero. L’uomo della Railforce lo conosceva meglio di quanto lui conoscesse se stesso. Amava Nova da quando aveva camminato insieme a lei fino al mare, quel giorno a Desdemor. E, contro ogni probabilità, anche lei lo amava. Fu un sollievo per entrambi sentirlo dire da qualcun altro. La rendeva una cosa reale, in un certo senso. Molto più reale e molto più preziosa di una macchina aliena di epoche remote che sarebbe servita ad aprire un portale K.

«Eccola.» Premette la Pyxis nella mano dell’interfaccia e guardò le dita azzurrine stringersi intorno alla scatola. «Ma lascia andare Nova.»

«Grazie, Zen Starling» replicò l’interfaccia. Lo studiò per qualche istante. «E adesso uccidilo, Malik.»

L’uomo divenne scuro in volto. «Ma è soltanto un ragazzo.»

«È il ragazzo di Raven. Uccidilo.»

«Zen!» gridò Nova. Strappò la pistola di mano a Malik. Lui le sferrò una gomitata al petto, facendola rotolare all’indietro giù dalle scale. Zen colse l’attimo e si precipitò verso la porta. Non aveva un vero piano in testa. Perché farne altri, visto che tutti i precedenti erano falliti? Era animato soltanto da una speranza selvaggia di riuscire a superare Malik, afferrare Nova e correre fuori dal Verme per tornare da Rosa di Damasco. Ma Anais lo agguantò. Tese un braccio e lo prese per il collo. Lo scaraventò contro la parete e gli richiuse le lunghe dita intorno alla gola, stringendola. Per essere una creatura dall’aspetto tanto fragile ed etereo, aveva una forza davvero sorprendente.

«Uccidi anche il Moto, Malik» ordinò l’interfaccia, digrignando i denti perfetti per lo sforzo di strangolare Zen.

Lui sentì lo sparo della pistola di Malik, assordante nello spazio angusto. Tre colpi, in rapida successione. Vide apparire tre buchi: due nel petto dell’interfaccia, uno in mezzo alla fronte. Nessuna sorpresa nei suoi occhi dorati e, dopo, nessuna espressione e basta. Lasciò andare la presa e cadde di lato, scalciando per qualche istante, poi rimase immobile.

Zen si afflosciò accanto a lei annaspando, sfregandosi la gola livida e fissando Malik.

«Stava mentendo» gli disse l’uomo. Ripose la pistola ed entrò nella camera. «Conoscevo Raven. Non dai la caccia a un uomo per tutta la Rete e lo uccidi così tante volte senza arrivare a conoscere i suoi pensieri. Lui voleva vivere. Per questo è fuggito così lontano, ha combattuto con quel vigore, si è nascosto tanto a lungo. Distruggere la Rete e se stesso insieme a lei? Non è nel suo stile. Se ha pianificato di mettere in funzione questo portale, dev’essere stato abbastanza sicuro che avrebbe potuto usarlo per fuggire.»

La Pyxis era caduta dalla mano dell’interfaccia. Zen la raccolse. La scatola si aprì. La sfera al suo interno brillava. L’intrico complicato di linee che la ricopriva baluginava di una luce bianca, come se fosse un minuscolo pianeta scuro adagiato sul palmo della sua mano e quei tracciati fossero le strade illuminate delle sue città. Altre luci risposero, accendendosi sul pavimento e sulle pareti, vene brillanti che portavano verso la cavità in cui la sfera avrebbe dovuto essere collocata.

Zen guardò Malik, chiedendosi se l’uomo della Railforce lo avrebbe fermato.

Il capitano però si limitò ad abbassare lo sguardo sull’interfaccia morta e disse: «Mi hanno assoldato per uccidere Raven. Non ho ricevuto alcun ordine in merito ai portali K, né sul fatto di impedire a questa macchina di fare quello per cui è stata costruita, di qualunque cosa si tratti».

«Anche se Raven non stava mentendo» intervenne Nova «il nuovo portale cambierà ogni cosa.»

«Forse tutto dovrebbe cambiare» commentò Zen.

Nova gli si avvicinò. Gli sfiorò una guancia e lo baciò dolcemente sulla bocca, come aveva visto fare nei film. Le sue labbra erano fresche e lisce come vinile, salate come il mare. «È così che mi sento, Zen Starling. E questo non cambierà.»

Zen trasse un profondo respiro. Quando allungò il braccio verso la cavità nel pavimento la sfera parve sentire che era quasi a casa. La cavità la attirava a sé come un magnete. Zen la avvicinò. Non era ancora del tutto sicuro di quello che avrebbe dovuto fare. All’ultimo momento si fermò, a un tratto travolto dai dubbi. Solo perché hai una possibilità di cambiare tutto non significa che tu debba farlo.

Fu la sfera a prendere la decisione per lui. Gli sgusciò via dalle dita e si inserì nella cavità. Si udì un rumore secco, una specie di scatto. Qualche collegamento ripristinato. Cose che andavano a posto.

Zen trasalì e rimase in attesa della fine del mondo.

Che non arrivò.

Solo una serie di rumori a incastro che si allargavano a macchia d’olio sotto il pavimento. Poi silenzio.

Cosa ho fatto?, si chiese. Ma ho fatto qualcosa?

Il Verme emise un sospiro. Si contrasse. Fruscii profondi cominciarono a serpeggiare dietro le pareti della stanza.

«Non ha più bisogno di noi» disse Malik.

Carlota salì le scale. «Ho parlato con il tuo treno» annunciò. «Dice che le razze se ne sono andate.»

«Non c’è più nulla che si muova là fuori, nulla che possa attirarle» osservò Nova.

Il Verme pareva diverso. C’era un senso di energia costruttiva, di cose che convergevano verso un climax. Un po’ la stessa sensazione di quando il treno su cui ti trovavi si avvicinava a un portale K.

Scesero insieme verso l’apertura, che si schiuse per lasciarli uscire. Prima di mettere il piede fuori Zen si voltò indietro. La scala si stava riavvolgendo, trascinando con sé il corpo di Raven.

Zen saltò giù dietro gli altri sulla superficie in ceramica dell’isola. Il Verme si stava agitando di nuovo, le braccia che disegnavano strane forme nell’aria. Controllando preoccupati il cielo in cerca delle razze, ripercorsero i propri passi fino al punto in cui Rosa di Damasco li stava ancora aspettando, fermo sui binari. Aprì le porte per farli salire e quando furono tutti a bordo disse: «Indietreggerò un pochino. Sta succedendo qualcosa di molto strano».

Si spostò all’indietro lungo il viadotto per qualche chilometro, finché non raggiunse il punto in cui i rottami del treno della Railforce ostruivano le rotaie. Da lì i passeggeri non riuscivano a vedere che cosa stesse accadendo sull’isola, ma Rosa di Damasco sì. Il treno creò uno schermo olografico a mezz’aria e vi riversò le immagini captate dalla telecamera che aveva sul muso.

Il Verme era in movimento. Si era sollevato da terra, sulle strane gambe coniche, e stava cominciando a spostarsi pian piano in avanti, spingendosi con la parte anteriore attraverso l’arcata che lui stesso aveva costruito. Intorno a quegli aculei che aveva sul dorso, giochi di una luce che non era una luce e di colori che non avevano nome. Mentre avanzava lasciava dietro di sé una scia: due lunghe strisce di un materiale lucido, molto regolari, perfettamente diritte.

«Sta mettendo delle rotaie» osservò Nova. «Per allungare la linea.»

Un lampo di quell’indefinibile colore guizzò da qualche parte davanti al Verme, senza proiettare alcun bagliore sull’umida superficie in ceramica né riflessi brillanti sulle onde. Da sotto l’arcata giunsero in risposta dei lampi di qualcosa che somigliava a una luce ma non lo era, non esattamente. Intricati intrecci luminosi danzavano sull’isola di ceramica, assumendo le forme allampanate di Angeli della Stazione che facevano dondolare le evanescenti membra in cenni di richiamo. Le corna da cervo volante del Verme parevano afferrare la luce e protendersi verso il suo margine esterno. Gli aculei sul dorso oscillarono in avanti come fili d’erba sbattuti da una tempesta, imprigionando filamenti baluginanti e trascinandoli indietro, a rivestire il corpo intero del Verme. Persino attraverso i finestrini di Rosa di Damasco riuscivano a sentire il rumore che faceva, il boato che riempiva il cielo.

«Sto intercettando la presenza di energia KH» li informò Rosa di Damasco. «Ma quella macchina non viaggia abbastanza veloce per attraversare il portale K...»

Il Verme pareva inconsapevole di questo. Si curvò, infilandosi dentro la spirale di luce. L’energia si inarcò fra i suoi aculei. Alzò la testa, rimase in piedi orgoglioso per qualche istante, si spinse in avanti, e un attimo dopo era sparito. Al suo posto, gli anelli di Hammurabi si riflettevano sulla ceramica bagnata dal mare, gli Angeli della Stazione danzavano e le rotaie nuove brillavano di un argento opaco, protendendosi verso una strana tenda di energia al di sotto dell’arcata.

«È un portale K» disse Nova.

«E dove conduce?» domandò Malik.

«Al di là di tutte le mappe» rispose Rosa di Damasco.

«Verso l’estremità della galassia» aggiunse Zen.

«Potrebbe esserci qualcosa in arrivo da lì, non pensate?» ipotizzò Nova.

«I Guardiani lo metteranno in quarantena» ribatté Malik. «La Railforce manderà rinforzi. Lo chiuderanno, se ci riescono, oppure distruggeranno la linea, qualcosa si inventeranno. Perciò, se volete attraversarlo, è meglio che vi sbrighiate.»

«Attraversarlo?» ripeté Zen. «Ma io non ho nessuna intenzione di farlo! E se fosse impossibile tornare indietro?»

«Tu non potresti tornare indietro comunque, Zen» gli fece notare Malik. «Se rimani qui sarai costretto a dare delle spiegazioni ai Noon. E anche ai Guardiani. E non illuderti che io non scaricherò la colpa su di te quando Anais Six verrà a chiedere conto della fine della sua fantastica interfaccia. Quale sarà la loro punizione io non sono in grado di prevederlo. Ma una cosa è certa: non rivedrai mai più casa tua. Hai passato il punto di non ritorno il primo giorno in cui hai messo piede sul treno di Raven. Non c’è posto per te da questa parte di quel nuovo portale. Dall’altra... chi può dirlo? Potresti voltare pagina e rifarti una vita.»

«E tu mi lasceresti andare?» chiese Zen.

Malik sollevò le spalle. «La mia missione è finita. Tu non sei affar mio, Zen Starling. E non credo tu abbia mai avuto intenzione di fare del male a qualcuno.»

Rosa di Damasco aveva colto l’odore di quel nuovo portale, o la vibrazione o l’armonia o qualsiasi fosse la cosa che il portale K emanava e che i treni adoravano. I passeggeri ne avvertivano il fremito, mentre Rosa si sforzava di tenere i freni tirati.

Nova era ferma accanto a Zen. «Vengo anch’io.»

Malik annuì.

«Potresti unirti a noi» propose Nova. «Non sei curioso? Non vuoi sapere che cosa c’è al di là del portale?»

Malik sorrise. «Io sono vecchio, Moto. L’unico viaggio che farò è quello che mi riporterà verso un posto dove ci sia qualcosa da mangiare e un letto vero in cui dormire. Anzi, sarà meglio che mi avvii.»

«Ma le razze...» obiettò Zen.

Carlota diede un colpetto al fucile. «Io posso riaccompagnarla fino all’Hotel Terminal, signore.»

«Se rimanete immobili non vi attaccheranno» li mise in guardia Nova.

Rosa di Damasco aprì le porte. Carlota si incamminò sul viadotto, sbirciando incuriosita in direzione del portale. Malik esitò un istante prima di seguirla. Si voltò a guardare Zen.

«Ho sempre pensato che a Raven non importasse niente di nessuno, ma mi sbagliavo. Credo che a te tenesse davvero, Zen. Non so per quale motivo. Forse ha trovato in te qualcosa che gli ricordava se stesso quando era giovane. Tutto quello che so è che l’ho visto morire un mucchio di volte, ma questa è stata la prima in cui ho avuto la sensazione che fosse un essere umano ad andarsene.»

Malik raggiunse Carlota. Un’ultima occhiata, un cenno di saluto con la mano e si diressero a nord, facendosi strada fra i resti acuminati del treno della Railforce.

Nella carrozza Nova e Zen si sedettero insieme. Rosa di Damasco mandò su di giri il motore. Un insetto Monaco randagio sbatteva contro le lampade. Zen posò la testa sulla spalla di Nova, che fremeva di eccitazione proprio come un essere umano. Esattamente come lui. Fuori dal finestrino Hammurabi riempiva il cielo.

«Mi mancherà questo posto» disse Nova.

«Ce ne saranno altri più belli» ribatté Zen.

«A te cosa mancherà?»

Zen la guardò. Gli sarebbero mancati Cleave, Desdemor, Summer’s Lease, il bazar di Ambersai. Gli sarebbe mancata Myka. E anche Raven. Gli sarebbe mancata sua madre. Gli sarebbero mancati il ragazzo che era stato, i sogni che aveva fatto. Gli sarebbe mancato tutto. Ma immaginò che fosse normale: ognuno era destinato a perdere delle cose, a lasciarne indietro altre, a restare aggrappato ai vecchi ricordi mentre correva verso il futuro. Chiunque era il passeggero di un treno in corsa. Certo, Zen si sarebbe spinto più lontano di tutti. Ma adesso, se non altro, non sarebbe stato solo.

«Non mi mancherà niente» rispose.

Rosa di Damasco iniziò a muoversi, sempre più veloce lungo le vecchie rotaie e in direzione di quelle nuove. Zen prese Nova per mano mentre la luce del portale di Raven li avvolgeva. I due ragazzi si avvicinarono ai finestrini e sollevarono il volto verso il firmamento glorioso, i cieli sconosciuti, i soli che mai nessun essere umano aveva visto. Quel viaggio singolare e precipitoso cancellò tutto ciò che avevano fatto e ogni ruolo che erano stati costretti a interpretare. Ormai erano solo loro stessi: due ragazzi innamorati, eroi, Viaggiatori che spingevano il loro vecchio treno rosso verso nuove vite fra le scintillanti e ignote stazioni degli Angeli.

Rosa di Damasco alzò la sua voce di sirena e cominciò a cantare.