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«Ehi!» gridò Zen, mentre Pensiero Volpe imboccava gallerie dimenticate. «Dove mi state portando?»

«Lontano da Cleave» rispose Raven in tono calmo. «Quelli della Railforce saranno furiosi per come abbiamo ridotto il loro treno da guerra. Se restassi incolperebbero te. Starai molto meglio qui con me.»

Non era difficile da credere. Il sedile su cui Zen era atterrato era in legno vivo, e talmente comodo che sembrava essere stato progettato appositamente per lui. Rimase seduto lì, a guardare Raven che armeggiava, per nulla infastidito dai movimenti del treno, aprendo sportelli senza cerniera nelle pareti e tirandone fuori bicchieri e bottiglie. Le gallerie scorrevano fuori dal finestrino, dissolvendosi di tanto in tanto per lasciare posto alla fugace visione di caverne fiocamente illuminate e depositi merci abbandonati. La musica si alzò, sognante.

«È tuo questo treno?» chiese Zen.

«Pensiero Volpe è l’ultimo degli Zodiak C12» rispose Raven.

«Wow!» Ne aveva sentito parlare. Alcune delle locomotive più veloci e più belle mai uscite dalle rivendite di motori della famiglia Albayek, su Luna Verde. «Credevo non ne fosse rimasto neanche uno...»

«Ho trovato Volpe su un binario di servizio. Un pezzo fatiscente, abbandonato lì quando hanno chiuso la linea.» Raven versò del whisky mischiato con qualcos’altro per sé e un bicchiere di una bevanda viola per Zen. «Povero Volpe. Ho dato una mano con le riparazioni. E adesso acconsente a portarmi dove voglio.»

«Il suo drone ha sparato a Zio Bugs.»

«Già. Che sfortuna. Temo che abbia problemi di gestione della rabbia: una specie di appetito per la distruzione. Non è vero, Volpe

Pensiero Volpe non rispose, ma Zen sentì che era in ascolto. «Suppongo che nessuno possa davvero possedere un treno.»

«Esatto.» Raven tornò al tavolo e posò i bicchieri, poi si fermò mentre Pensiero Volpe sussultava con violenza passando attraverso un portale K. La carrozza scintillò un istante nella strana non-luce e subito dopo sfrecciavano lungo distese di fango grigio-azzurro. Zen si sporse in avanti, bramoso di capire in quale mondo lo avesse portato quella linea ferroviaria dimenticata. In lontananza si stagliavano le montagne e le strutture scheletriche di edifici in disuso.

«Tashgar» annunciò Raven.

«Come?»

«Questo posto. Si chiama Tashgar. Un mondo industriale precedente molto simile a Cleave, dismesso secoli fa. La maggior parte delle stazioni della Dog Star Line è come questa. Attraversa luoghi ancora vivi – Ambersai e Cleave, come sai, oltre a Sundarban e qualche altro –, ma le stazioni della Dog Star sono ben nascoste nelle profondità di quei mondi.»

Imboccarono un altro tunnel e attraversarono un secondo portale. Passarono ruggendo da una stazione fantasma.

«Perché mi stavi cercando?» chiese Zen.

«Potresti essermi utile.»

«Per cosa?»

«Mi serve un ladro. Devi rubare qualcosa per me.»

A Zen piacque il suono di quelle parole. Così Raven era un ladro come lui. E con l’accesso a quella K-bahn segreta sarebbero potuti andare dappertutto, rubare qualsiasi cosa e farla franca. Ma non voleva sembrare troppo entusiasta, perciò disse solo: «Okay», come se ci stesse pensando su.

«Non preoccuparti» proseguì Raven, quasi gli avesse letto nel pensiero. «Pago bene. Ti renderò ricco. E quando il lavoro sarà finito potrai rifarti una vita e avere tutto ciò di cui hai bisogno. Una bella casa, un nuovo nome. Cure per tua madre. Potrebbe guarire abbastanza facilmente se non vivesse in una topaia come Cleave. Penserò a tutto io. Tu dovrai solo occuparti di fare un lavoretto per me.»

Sembrava troppo bello per essere vero. Zen sentiva puzza di raggiro: o la ricompensa non sarebbe stata grande come promesso, oppure ciò che gli chiedeva si sarebbe rivelato tutt’altro che un «lavoretto». Tuttavia, come quando aveva deciso di seguire Nova, non riteneva di avere molta scelta. E a prescindere dagli svantaggi, lavorare per un uomo come Raven sarebbe stato pur sempre un primo passo per lasciarsi alle spalle la sua vecchia vita, no?

«Okay» ripeté.

Raven sorrise, come se questo mettesse il sigillo al patto, e Pensiero Volpe attraversò un nuovo portale entrando in un altro mondo, poi in un altro ancora. E sebbene fosse teso, strafatto di adrenalina da Viaggiatore per il fatto che stava percorrendo una vecchia linea ferroviaria ed eccitato per la nuova svolta che stava prendendo la sua vita, Zen cominciò ad avere sonno. Non riusciva a ricordare quante ore fossero passate da quando era salito sulla K-bahn per uscire da Ambersai, convinto che le sue avventure fossero finite. Stava diventando davvero un drogato di treni.

Appoggiò la testa contro lo schienale e rimase a guardare il panorama che scorreva fuori, mentre Pensiero Volpe sfrecciava attraverso quegli strani, immensi paesaggi. Era ormai notte in quel mondo immerso in una sorta di nebbia, il cielo una coda di pavone di gigantesche stelle splendenti. L’alba su mari di metano sotto brandelli di luna. Non-esplosione. Non-esplosione. Non-esplosione. La musica e il tranquillo, familiare dondolio della carrozza gli conciliarono il sonno.

Quando si svegliò il treno si era fermato. Una luce verde-dorata filtrava nella carrozza. La porta era aperta. Raven era sparito, ma Zen riusciva a sentire un rumore simile al lento respiro di un enorme animale addormentato.

Balzò su dal sedile e per poco non batté la testa contro il soffitto. La gravità era inferiore a quella cui era abituato. Il bicchiere vuoto che aveva appena urtato cadde dal bracciolo così lentamente che ebbe il tempo di raccoglierlo prima che toccasse il pavimento.

E quel respiro era un suono distante di onde che si infrangevano su una spiaggia.

Scese dal treno e si ritrovò in una grande, vecchia stazione. La luce verde proveniva da un lucernario. Si incamminò lungo il binario e oltrepassò i tornelli aperti, fino all’atrio. Scorse Raven in piedi fra i pilastri, dove la luce arrivava a intermittenza. Cosa stava facendo? Degli esercizi, ipotizzò Zen in un primo momento. Spostava l’equilibrio da un piede all’altro, si muoveva a scatti come una marionetta, contorcendo il corpo allampanato vestito di nero in forme che Zen non avrebbe mai pensato possibili.

Poi i raggi di luce provenienti dal soffitto si spensero e, mentre l’atrio si riempiva di nuovo di ombre, Zen vide che Raven non era solo. Due Angeli della Stazione si libravano sul posto, fasci pluriramificati di luce che si annodavano e contorcevano.

Gli Angeli della Stazione erano una specie di energia innocua che a volte baluginava nella scia dei treni. Sembravano quasi dei fantasmi di mantidi religiose giganti, anche se tutti sapevano che, in realtà, quelle erano solo le sembianze che il cervello umano riusciva ad attribuire alle interferenze create dall’apertura di un portale K. Ma quei due Angeli, invece che svolazzare qua e là e svanire, sembravano quasi imitare i movimenti di Raven, come se tutti e tre stessero danzando al suono della stessa musica.

Non c’era musica, però. Solo il lamento del vento, la luce che si inseguiva attraverso i binari polverosi e il cuore di Zen che faceva tum, tum, tum, mentre un terrore di cui non comprendeva la ragione cresceva dentro di lui.

Una mano fresca gli strinse il polso. Nova lo trascinò indietro, al riparo di una bancarella di alimentari abbandonata.

«Non lo devi disturbare» lo ammonì, abbassando così tanto il volume della voce che quasi Zen non riusciva a sentirla. «È occupato. Sta parlando con gli Angeli.»

Lui la fissò. «Ma non si può parlare con gli Angeli della Stazione! È come parlare con i gas delle paludi o gli arcobaleni. Loro non sono vivi.»

«E chi l’ha detto?»

«Tutti. Gli esperti. Hanno anche eseguito dei test.»

«Oh» sussurrò Nova. «Be’, nemmeno io sono viva, non come lo sei tu. Però Raven mi parla.»

Zen li guardò. «È un trucco, vero? Si tratta solo di magnetismo o elettricità statica, o qualcosa...»

D’un tratto gli Angeli non c’erano più. Per un attimo Zen pensò che fosse stato un gioco di luce a nasconderli. Invece, semplicemente, se n’erano andati.

Il ragazzo restò fermo un istante, a lisciarsi i capelli. Raddrizzò le spalle, poi lui e Nova si incamminarono lungo il binario per tornare a bordo di Pensiero Volpe. Un momento dopo Zen sentì che i motori del treno K si stavano avviando.

«Sta partendo!» esclamò. «Sta partendo senza di me!» E cominciò a correre verso il convoglio, ma Nova lo prese di nuovo per il polso.

«Va tutto bene. Fa parte del piano.»

«Che piano?»

«Il piano di Raven. Mi ha detto di portarti all’hotel, ma non volevo svegliarti. Dobbiamo aspettarlo qui.»

«Dove siamo?»

«Nella città di Desdemor, sulla luna d’acqua Tristesse.»

Era il capolinea. Il posto della Rete più lontano dalla casa di Zen.

«Anche questo mondo è abbandonato?» chiese.

«All’hotel c’è qualcuno» rispose lei. «Ma solo Motorik.»

Zen fu sorpreso dal suo tono sprezzante. «Sei un Moto anche tu, lo sai?»

Nova arricciò il naso. «Io non c’entro niente con loro. Quelli sono solo delle marionette. Io invece faccio come mi pare.»

I motori di Pensiero Volpe brontolarono e il treno lasciò la stazione contromano, accelerando verso l’imbocco della galleria alle sue spalle, verso il portale K.

«Dove sta andando Raven?» chiese Zen.

Nova fece spallucce, con affettata noncuranza.

«Chi è lui?»

«È Raven. Punto.»

«Perché mi vuole? Perché ha scelto proprio me?»

«Non ne ho idea» rispose Nova, squadrandolo da capo a piedi. «Forse è il nome. Starling e Raven. Lo storno e il corvo. Sono entrambi nomi di uccelli, sulla Vecchia Terra. E Raven trova divertenti simili coincidenze.»