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Salire fu peggio che scendere. Stavano sdraiati sulla schiena nei sedili di vinile della cabina di comando, mentre i motori cercavano di assordarli e la forza di gravità depositava loro pesi di piombo sul petto e sulla faccia. Ma, terminato quel supplizio, ecco che galleggiavano liberi in quel piccolo spazio sudicio, con i capelli sparati e privi di peso, la lanterna di Sundarban che brillava attraverso gli oblò.

«Le navicelle spaziali sono così poco romantiche» si lamentò Threnody. «E mai che ci sia una carrozza ristorante. Si può sapere perché la tua famiglia...»

«Cosa stiamo cercando?» chiese Kobi.

Prima non l’avrebbe mai interrotta a metà di una frase in quel modo, pensò Zen. Né Threnody glielo avrebbe permesso. Qualcosa nell’equilibrio di quei due era cambiato. Una volta sarebbe stato un onore per Kobi entrare di diritto, grazie a un matrimonio, a far parte della casata dei Noon. Adesso, però, la famiglia si trovava in tali e tanti guai che lui stava facendo un favore a Threnody non rompendo il fidanzamento.

Tutti quegli stravolgimenti, grandi e piccoli, erano frutto di un processo a catena iniziato nell’istante stesso in cui Zen aveva accettato di rubare la Pyxis.

«Un drone» rispose. «Uno scarafaggio addetto alla sicurezza dei Noon seriamente danneggiato. È stato scagliato via dallo Spindlebridge subito dopo l’incidente.»

«Allora dovrebbe rispondere a uno dei codici di attivazione dei Noon» disse Kobi. «Abbiamo ripescato dal buio un mucchio di aggeggi tecnologici dei Noon in questo modo.» Sbatté le palpebre per dare un’istruzione alla navicella e il mezzo cominciò a calcolare le probabili coordinate del drone e a radiodiffondere codici nello spazio.

«Come mai sei tanto interessato a questo drone?» domandò Threnody dopo un po’. «Ha immagazzinato una registrazione che ti serve?»

«Assolutamente no.»

«Magari contiene filmati di te di cui non vorresti che il mio ramo della famiglia venisse a conoscenza. Eri sul nostro treno per un motivo preciso, vero? Tutte quelle domande e il modo in cui ti sei fatto così benvolere da zia Sufra: tutti noi abbiamo pensato che ci hai messo davvero molto poco...»

«Non ho fatto niente di male al vostro treno» si difese Zen.

«Non ti credo. Forse se gli uomini della nostra sicurezza ti avessero interrogato avrebbero scoperto che lavoravi per zio Tibor fin dall’inizio.»

«Lascia perdere, Threnody» intervenne Kobi. «Ha quella registrazione, ricordi?»

«Dice di averla» lo contraddì lei. «Ma tu l’hai vista davvero? Tutta, intendo? Perché non vuole mostrarci la versione integrale?»

«Ovvio che ce l’ho» sbottò Zen.

«Zitti!» li ammonì Kobi. Non li stava più seguendo. Era in ascolto di una debole nota scricchiolante che filtrava attraverso gli altoparlanti della navicella. «È la registrazione di volo di un drone! E risponde ai codici di attivazione. È danneggiato molto seriamente... Morto, in pratica... C’è un altro pezzo di relitto, aggrovigliato a lui...»

Zen infilò le cuffie, mentre la navicella puntava verso la fonte del segnale. «Nova?» bisbigliò, approfittando che Kobi e Threnody stessero parlando fra loro.

Nessuna risposta. Il segnale proveniente dal drone si era interrotto, ma la navicella era in contatto visivo adesso. Zen premette il volto contro lo spesso boccaporto e guardò fuori, nell’oscurità. Davanti a loro qualcosa catturò la luce: stava ruzzolando nel vuoto. Il luccichio della corazza protettiva di un drone, una sagoma rannicchiata su se stessa che guizzò per un istante contro le lune di Sundarban. Annegata e alla deriva, pensò Zen. Si chiese cosa avrebbe fatto se, dopo essere arrivato fin lì, Myka avesse avuto ragione e Nova non fosse riuscita a salvarsi.

Per un tempo infinito, lassù, non era stata sicura di niente. Nemmeno di che cosa fosse. Un oggetto rotto, in cerca di riparazione. Avvisi e resoconti del danno subito continuavano a interrompere i suoi sogni confusi. I menu di avvio colavano lungo gli schermi della sua mente come rivoli di pioggia su un vetro, ricordandole il momento in cui era nata, sul tavolo di Raven a Desdemor.

Alla fine aveva recuperato le funzioni visive e memoria a sufficienza per ricordare che era Nova, alla deriva nell’orbita di Sundarban, e che era ancora attaccata al drone.

Con cautela, mentre ruzzolava nella luce tagliente del sole di Sundarban, era riuscita a sfilare dal proprio corpo il rampino uncinato, facendo attenzione a non lasciar andare il cavo di microfilamento che lo teneva attaccato al drone. Si era avvolta un’estremità del cavo intorno alla vita e si era trascinata in avanti finché non era stata abbastanza vicina al drone per essere certa che fosse morto. Quindi si era legata a lui, come il marinaio di una nave alla deriva si sarebbe ancorato a un pezzo del relitto, e aveva aspettato.

Molto a lungo. Non sapeva bene quanto, perché all’inizio la sua connessione al Mare di Dati non funzionava e, quando era riuscita a ripararla, aveva avuto paura di usarla. Lei e Zen si erano macchiati di un crimine spaventoso. Chi poteva sapere quali guardie robot e programmi di spionaggio fossero in agguato nel Mare di Dati, pronti a farla prigioniera?

Così Nova se ne stava sospesa lì, parte della nuvola di detriti che erano stati scagliati nello spazio dopo che lo Spindlebridge era stato colpito. Ogni tanto le si avvicinava un altro frammento, a una tale velocità da ricordarle che anche lei si stava muovendo. A volte doveva usare i propulsori del drone per scansarsi dalla traiettoria di qualche scheggia affilata, che l’avrebbe tagliata in due. E registrava il passaggio di navicelle spaziali. Raccoglievano i relitti più grossi, ma nessuna si era spinta nel raggio di qualche migliaio di chilometri da lei. Probabile che nessuno avesse interesse a trarre in salvo un Motorik guasto.

Anche lo Spindlebridge era visibile all’inizio, circondato da navicelle spaziali e veicoli addetti alle riparazioni, ma a mano a mano che il tempo passava Nova si era separata anche da lui e il ponte era sprofondato fuori dal suo campo visivo, dietro la curva del pianeta.

Di tanto in tanto si divertiva a guardare il sole che filtrava attraverso il buco che l’arpione aveva aperto dentro di lei. Un dardo di luce le usciva dal petto, illuminando le scaglie di ghiaccio e rottami che galleggiavano lì intorno. Ma poi, poco alla volta, quel raggio luminoso si era fatto sempre più sottile, fino a scomparire del tutto. Il suo corpo aveva immagazzinato abbastanza energia dalla luce per autoguarirsi.

A un certo punto il drone si era risvegliato, comunicando le proprie coordinate su una frequenza di emergenza, e sopra il limbo di Sundarban era apparsa una nuova stella luminosa, che si era ingrandita fino a diventare un’orribile, gigantesca navicella color giallo zolfo...

Zen avvertì l’accelerazione spingerlo leggermente avanti e indietro mentre l’astronave eseguiva le proprie manovre. Udì il ronzio e il clangore metallico dei portelloni per il carico merci che si aprivano e dei bracci meccanici che si protendevano in fuori, ma ancora non vedeva nulla, solo il sole dello spazio che lo abbagliava. Poi, altri schianti metallici, altri ronzii.

«Obiettivo acquisito» annunciò la navicella.

«È così?» chiese Zen. «Voglio dire... lei è... a bordo?»

«Lei?» Kobi si guardò intorno. Poi annuì e sorrise. «È così. L’ho presa.»

Zen cominciò a correre, ricordando solo dopo che non era molto utile in assenza di gravità. Si aggrappò alle paratie di ceramica e si portò fuori dalla cabina di comando, imboccando i cunicoli fluttuanti imbottiti di vinile fino al portello sigillato che immetteva nella stiva merci. Si stava ancora ripressurizzando e le luci sulla porta lampeggiavano di rosso. Zen vi picchiò sopra con il palmo delle mani, come se questo potesse accelerare il processo. Strizzò gli occhi per sbirciare attraverso il minuscolo oblò lo spazio in cui il corpo di Nova galleggiava a mezz’aria, intrappolata in sfilacciature di cavi sottili come capelli d’angelo.

La porta si aprì. Zen volò dentro a prenderla. I suoi occhi lo fissavano senza vederlo da dietro una patina ghiacciata. Aveva le labbra cianotiche. Il foro sulla tunica era circondato di macchioline bluastre.

«Uno scarafaggio rotto e una ragazza morta?» disse Kobi, osservando la scena dalla soglia insieme a Threnody. «È per questo che ci hai trascinati fin qui?»

«Non è una ragazza» precisò Thren. «Quella è una bambola elettronica. La tipa strana.»

«E si è fatto tutta questa strada per una bambola elettronica guasta? Forse hai ragione, deve avere davvero qualche rotella fuori posto...»

Threnody non rispose. Stava estraendo qualcosa dal suo dispositivo audio-video, voltando il viso in modo che, se anche Zen si fosse girato, non la vedesse premerselo contro la tempia.

Zen però non si girò. E anche se lo avesse fatto non sarebbe riuscito a vedere molto attraverso la cortina di lacrime senza peso che gli velava gli occhi. Nova era morta. Era morta e il suo viaggio fin lì era stato solo una perdita di tempo.

Poi, mentre cercava di asciugarsi le lacrime – che gli si appiccicavano alla faccia e alle dita –, notò che sotto il foro che il gancio le aveva aperto sul davanti della tunica la carne sintetica di Nova stava guarendo in una spessa, orribile chiazza di tessuto cicatrizzato. L’amo del drone non era più dentro di lei. Se lo era tolto e si era avvolta il cavo intorno alla vita.

«Nova?» la chiamò Zen.

Lei sbatté le palpebre.

«Stai bene?» le chiese.

Il viso le si contrasse nel tentativo di accennare un sorriso. Il ghiaccio si stava sciogliendo e le brillava sulle guance. La polvere dello spazio le aveva scavato piccole cicatrici e buchi nella faccia, ma questo la faceva sembrare più umana, in un certo senso. Zen avrebbe voluto abbracciarla, ma era impossibile con Threnody e Kobi lì che lo guardavano.

«Zen!» Nova gli stava sorridendo. «Sei tornato a prendermi?»

«Sì!»

«Be’, è stata una cosa stupida da parte tua. Ma molto dolce.»

Zen stava ancora piangendo, ma insieme rideva anche. Ce l’aveva fatta, proprio come gli aveva predetto Myka. Era arrivato fin lì e aveva trovato Nova. Viva. Ma mentre si avvicinava per aiutarla a slegarsi dal drone qualcosa lo indusse a voltarsi. Threnody lo fissava dalla soglia con un’espressione di scherno e di trionfo come se, in qualche modo che Zen non aveva ancora ben capito, lo avesse superato in astuzia.

Quando Nova si fu liberata dal cavo, la navicella stava rientrando nell’atmosfera, sobbalzando come un motoscafo in un mare agitato. Macchioline di plasma sfrecciavano come mosche accanto agli oblò della cabina di comando, mentre Zen si assicurava al sedile.

Il Moto gli stava parlando in privato attraverso le cuffie. Era un fiume in piena, quasi volesse recuperare tutto il tempo che si era persa. Quando il drone si è svegliato e ha cominciato a inviare segnali ho pensato che qualche navicella di salvataggio stesse venendo a recuperarmi, credevo che mi avrebbero rottamata, o resettata, e che tutti i miei ricordi sarebbero andati perduti. È per questo che ho fatto finta di essere morta, ma quando ti ho sentito parlare e mi sono resa conto che eri tornato a prendermi...

Zen le sorrise. Quanto gli era mancata quella voce. Ma non riusciva a concentrarsi su quanto Nova gli stava dicendo. Stava ancora pensando a Threnody. Che cosa significava quello sguardo?

Presto gli scossoni finirono. Stavano volando nell’aria limpida e calma. Sotto di loro la luce lunare striava d’argento gli oceani di Sundarban.

«Cambia rotta» disse a un tratto Zen.

Kobi si guardò intorno. «Ma siamo su quella giusta. Una mezz’ora e saremo alle piattaforme di lancio.»

«No» obiettò Zen. «Saranno lì ad aspettarci. Threnody ci ha già traditi. Probabilmente ha spedito un messaggio alla sua famiglia mentre noi cercavamo il drone.»

«Io non ho fatto niente del genere!» protestò lei, mettendo il broncio e facendo l’offesa, come se qualcuno l’avesse accusata di barare al gioco degli anelli sul treno. «Hai rotto le mie cuffie, ricordi?»

«Ne hai un altro paio» obiettò Zen. «Oppure hai usato il computer di bordo della navicella per allertare la sicurezza dei Noon.»

«Threnody non farebbe mai una cosa simile» intervenne Kobi. «Lo sa che sarei finito se tu rendessi pubblica quella registrazione.»

«Non c’è nessuna registrazione» ribatté Threnody.

Zen tirò fuori la pistola. Non la puntò esattamente contro Kobi, ma la impugnò come se stesse pensando di farlo. «Facci atterrare sul lato nord di Sundarban City.»

Kobi guardò Threnody. «È vero? Hai parlato con la tua famiglia?»

«Qualcuno doveva pur farlo. Abbiamo catturato il responsabile della catastrofe dello Spindlebridge, Kobi, e anche il Motorik che lo ha aiutato. Non credo sia nemmeno chi dice di essere! Ho sentito il Moto quando lui lo ha riattivato: lo ha chiamato “Zen”. È un impostore. Credi che qualcuno presterà attenzione a una registrazione su di te quando questa storia finirà nei notiziari? Saranno contenti che tu abbia provato a farlo fuori.»

«Cambia rotta!» gridò Zen.

Threnody guardò la pistola nella sua mano. «Cosa farai se non ti obbediamo, Tallis, o Zen o qualunque sia il tuo vero nome? Ci ucciderai?»

Zen sapeva che avrebbe dovuto. È quello che farebbe Raven, pensò. Ucciderli entrambi e gettare i corpi di sotto, nell’oceano. La gente a terra non conosceva né lui né Nova. Senza quei due a identificarlo, forse in un modo o nell’altro sarebbe riuscito a farla franca, avrebbe raccontato che c’era stato un incidente, lassù nello spazio...

Ma Nova lo avrebbe saputo. Li stava guardando, i suoi occhi saettavano da lui a Threnody mentre parlavano.

Zen ripose l’arma. «Non vi farò del male» disse, molto calmo.

Lui non era Raven, né poteva assomigliargli. Anche se in quel momento avrebbe tanto voluto.

«Tu non sei affatto un Noon, vero?» gli chiese Threnody.

«Mi chiamo Zen Starling» rispose. Avrebbe potuto provare a bluffare, ma sentiva di doverle qualcosa. E la verità era tutto ciò di cui disponeva.

«Ho sempre pensato che fosse un po’ strano» disse Threnody a Kobi. «Non ho mai capito perché alla povera zia Sufra piacesse tanto.»

Cavalletta Spaziale oltrepassò un litorale. Scese in picchiata sopra foreste che, da quell’altezza, parevano broccoli illuminati dalla luna. Attraverso i boccaporti Zen vide strade e linee ferroviarie che convergevano sulla stazione cittadina. Kobi continuò a impartire ordini alla navicella. Gli occhi di Threnody mandavano lampi. Sulle distese pianeggianti davanti a loro si scorgevano le incastellature di lancio del porto spaziale commerciale. Zen credette di riuscire già a vedere i rotori dei droni armati che pattugliavano il cielo sopra la piattaforma 50.

Poi, senza alcun preavviso, Kobi disse: «Cambia rotta, navicella. Atterra fuori dalla città».

La navicella si inclinò, virò e si allontanò dal porto spaziale. «Che stai facendo, Kobi?» strillò Threnody. L’orizzonte girava rapidamente. L’aria fischiava contro le ali tozze, i motori ulularono. Qualcosa colpì lo scafo con un clangore spaventoso. Seguì un’oscurità in cui ruzzolarono senza peso, rischiarata da fiotti di scintille. Poi uno schianto, un sussulto improvviso, una lunga corsa strisciata, parti di soffitto che cadevano, terra e vegetazione che irrompevano attraverso i boccaporti.

E il silenzio.

«Ci stavano sparando?» chiese Threnody. «Erano degli spari? Hanno fatto fuoco su di noi per abbatterci?» La sua voce suonò indistinta e tremula. «Perché hai cambiato rotta, Kobi?»

Lui fissò Zen attraverso la cabina di comando distrutta. Era uno sguardo di orgoglio. Diceva: Visto? Ora siamo pari. Abbiamo avuto i nostri dissidi, ma tu mi hai salvato la vita una volta e adesso io sto salvando la tua. Forse era convinto che lui e Zen fossero i nobili guerrieri di un film in 3D, ed era così che loro si comportavano. Per un momento parve quasi volergli stringere la mano. Ma Threnody piagnucolava – mentre atterravano un pezzo di soffitto l’aveva colpita alla testa – e Kobi si voltò, chinandosi su di lei.

«Vieni con noi?» gli chiese Zen. «Se rimani qui passerai dei guai con i Noon. Abbiamo un treno. Possiamo portarti via.»

Kobi scosse la testa senza alzare gli occhi. «No, grazie Tallis, o comunque tu abbia detto di chiamarti. Io resto.» Trovò da qualche parte un kit di pronto soccorso e cominciò a tamponare preoccupato la ferita di Threnody. Poi sollevò lo sguardo, solo per un momento. «Lo so che pensi che io sia solo un ragazzino ricco e viziato, e che il fidanzamento fra me e Thren sia solo un accordo politico. È quello che crede anche lei. Ma io le voglio bene davvero. E non ho intenzione di lasciarla.»

Zen guardò Threnody e si accorse che condivideva il suo stesso stupore.

«Meglio che tu vada» proseguì Kobi. «La Railforce starà per arrivare. Diremo ai Corpi Blu che hai dirottato la navicella, l’hai fatta schiantare e sei fuggito.»

Zen si convinse a muoversi. Prese Nova per mano e scavalcarono i boccaporti rotti, posando i piedi nella fanghiglia di un canale di scolo ai margini di Sundarban City. Un drone ronzò sopra le loro teste facendoli acquattare, ma era solo il concimatore robotico di un contadino venuto a ispezionare il danno che quell’inatteso atterraggio aveva arrecato al suo raccolto. In lontananza, oltre i campi, udirono altri droni in avvicinamento.

Avanzarono nel fango fino alla fine del canale, dove si immetteva in un tubo sotterraneo, e corsero tra le spighe in un campo adiacente, si fecero largo fra granai e capanni dei trattori fino a una strada che girava ad anello intorno alla città. Il manto sotto i loro piedi brillava, rilasciando un po’ della luce del sole che aveva immagazzinato durante il giorno. Curiosi e automobili terrestri si fermavano nelle vicinanze, i passeggeri ne uscivano per guardare il fumo che si alzava dal luogo in cui si era schiantata la navicella. Il rombo scoppiettante dei motori dei jet ronzava nel cielo. Zen spinse Nova in una delle auto vuote, saltando a bordo dietro di lei. Il Motorik fece qualcosa con il proprio cervello e il veicolo si accese.

«Dove si va?» chiese.

Zen non aveva la minima idea di dove Kobi li avesse fatti atterrare. «In città» rispose.

L’auto eseguì una perfetta inversione a U e imboccò una rampa di uscita, mentre le luci dei droni cominciavano a perlustrare i campi.