CAPITOLO 4

L'agente Watson lo stava aspettando alla reception. Era imbacuccata fino alle orecchie in un giaccone nero della polizia, imbottito, impermeabile e luccicante di pioggia. Aveva raccolto i capelli in uno chignon che aveva poi infilato sotto il berretto della divisa; e aveva il naso così rosso che sembrava lo stop di una moto.

Lo vide avvicinarsi, mani in tasca, che pensava ancora all'autopsia, e gli sorrise.

«Buongiorno, signore. Come va lo stomaco?».

Logan si sforzò di sorridere, con l'odore del bambino morto ancora nelle narici. «Meglio, grazie. E tu?».

Sorrise. «Lieta di essere tornata ai turni di giorno». Si guardò intorno, nella reception vuota. «E allora? Qual è il programma per oggi?».

Logan guardò l'orologio. Quasi le dieci. Un'ora e mezzo prima che l'ispettore Insch uscisse dalla sua riunione.

«Ti va di fare un giretto?».

Firmarono e ritirarono una vettura dal parco auto del CID. L'agente Watson guidò la vecchia e arrugginita Vauxall, con Logan al suo fianco. Avrebbero avuto appena il tempo di fare una puntatina attraverso la città fi-no al ponte sul Don, dove le squadre di ricercatori se la stavano godendo sotto la pioggia, cercando qualcosa che probabilmente non c'era più e forse non c'era mai stato.

Mentre erano fermi a uno stop, un vecchio autobus attraversò la strada davanti a loro, spruzzando acqua sul loro parabrezza. Watson aveva i ter-gicristalli alla massima velocità; il monotono wheek-whonk della gomma sul parabrezza e il ronzio della ventola del riscaldamento erano gli unici rumori in macchina. Nessuno dei due aveva detto una parola da quando erano partiti dalla Centrale.

Finalmente Logan ruppe il silenzio. «Ho detto al sergente di servizio di lasciar andare Charles Reid con una cauzione verbale».

Watson annuì. «Immaginavo che sarebbe andata così». Si inserì dietro un 4x4 dall'aspetto molto costoso.

«In effetti non era colpa sua».

Watson strinse le spalle. «Non sta a me giudicare, signore. Ma lei è quello che quasi quasi ci lasciava la pelle».

L'autista del 4x4, trazione integrale permanente, capace di superare tutte le asperità, ma che molto probabilmente non aveva mai viaggiato su niente di più sterrato dei tombini di Holburn Street, improvvisamente decise di svoltare a destra, inserendo l'indicatore di direzione all'ultimo secondo e fermandosi nel bel mezzo del crocevia. Watson frenò e riuscì a evitare il tamponamento, ma non riuscì a soffocare un paio di parolacce mentre cercava di inserirsi nell'altra corsia.

«Uomini al volante...», borbottò prima di rendersi conto che Logan era in macchina con lei. «Scusi, signore».

«Non ti preoccupare...». Ricadde nel silenzio, pensando a Charles Reid e alla corsa al pronto soccorso della sera prima. In effetti non era stata colpa di Mr Reid. Uno stronzo telefona a tua figlia e le chiede come si sente ora che il suo bambino di tre anni, scomparso da tre mesi, è stato trovato morto in un fossato. Quindi non c'era da sorprendersi che si fosse sfogato col primo bersaglio che gli era capitato a tiro. La colpa era di chi aveva fatto la soffiata al «Press and Journal».

«Ho cambiato idea», disse a Watson. «Vediamo se riusciamo a trovare un giornalista, di quelli schifosi».

«The Press and Journal. L'informazione locale dal 1748». C'era scritto così, su ogni edizione. Ma lo stabile che il giornale condivideva con l'altro quotidiano dello stesso gruppo, l'«Evening Express», non aveva un aspetto così vetusto. Era una mostruosità di due piani in cemento armato e vetro, ubicato appena dietro la Lang Stracht. Lo si intravedeva al di là di una palizzata, tozzo e accovacciato, come un rottweiler imbronciato. Non essen-dovi accesso dalla strada principale, Watson imboccò una stradina laterale che attraversava una piccola zona industriale piuttosto dimessa, piena di rivenditori di auto usate e pullulante di auto parcheggiate in doppia fila.

Arrivati all'entrata del parcheggio del giornale, la guardia al cancello notò l'uniforme dell'agente Watson e con un sorriso sdentato alzò subito la sbarra.

Vicino alla porta girevole c'era una piastra di granito lucido sulla quale, a caratteri dorati, era scritto «Aberdeen Journals Ltd» e una piastra d'ottone che rivelava l'età del giornale: «Fondato da James Chalmers nel 1748...»

bla bla bla. Logan non si preoccupò di leggere il resto.

Le mura spoglie della reception erano pitturate in lilla. Una tabella in legno, con su i nomi dei dipendenti del giornale deceduti nella seconda guer-ra mondiale, era l'unico cenno di sfarzo nel monotono arredamento dell'ingresso. Logan si aspettava qualcosa più consono all'attività di un giornale: prime pagine incorniciate, premi ricevuti, attestati, fotografie di qualche giornalista. Invece sembrava che il giornale avesse appena traslocato lì da un'altra sede e non avesse ancora cominciato ad arredare i locali.

Un pavimento in linoleum dai colori violenti e chiassosi, con quadrati in finto marmo blu incorniciati in un pattern in oro e rosa, e qualche vaso con delle piantine striminzite contribuivano all'aria dimessa dell'ambiente.

L'addetta alla reception non era molto meglio: occhi con make-up rosa e capelli biondi senza vita. Emanava un forte odore di caramelle al mentolo e all'eucalipto. Li guardò con occhi appannati, mentre si soffiava il naso in un fazzoletto sgualcito.

«Benvenuti all'Aberdeen Journals», disse con entusiasmo zero. «In cosa posso aiutarvi?».

Logan tirò fuori il tesserino e glielo mise sotto il naso colante. «Sono il sergente McRae. Vorrei parlare con la persona che ieri sera ha telefonato alla signora Alice Reid».

La ragazza esaminò il tesserino, guardò Logan, guardò l'agente Watson e sospirò. «Non ho la più pallida idea di chi possa essere stato»; s'interruppe per tirar su col naso. «Io sono qui solo il lunedì e mercoledì».

«Chi potrebbe saperlo?».

La ragazza strinse le spalle e tirò ancora su col naso.

Da una rastrelliera sul muro l'agente Watson tirò fuori una copia del giornale di quella mattina e la sbatté sul banco della reception. Trovato cadavere di bambino assassinato! ; puntò il dito sulle parole «di Colin Miller». «E lui lo saprà?».

La ragazza prese il giornale e lo guardò con occhi gonfi dal raffreddore.

Il suo volto divenne improvvisamente dimesso: «Oh... lui».

Accigliata, fece un numero al telefono. Dall'altoparlante una voce di donna rispose: «Sì?». Prese la cornetta e il suo accento passò rapidamente da costipato e gentile a costipato e sguaiato aberdoniano.

«Lesley? Sono Sharon. Senti, c'è Superman?». Pausa. «Sì, c'è la polizia... non so, aspetta un attimo». Mise una mano sul microfono e guardò Logan, speranzosa. «Siete qui per arrestarlo?» chiese, tornata tutta gentile.

Logan aprì la bocca, la richiuse. «Vogliamo solo fargli qualche domanda», finì col dire.

«Oh...», Sharon sembrò delusa. «No», disse nella cornetta. «Non sono qui per arrestare il piccolo pezzo di merda». Continuò ad ascoltare, annuendo diverse volte e poi sorrise. «Aspetta che glielo chiedo». Sforzandosi di sembrare seducente fece gli occhi dolci a Logan e con la bocca a cuo-ricino gli chiese: «Se non siete qui per arrestarlo, potreste almeno dargli una strapazzata? Magari a suon di sberle?».

Con un aria di complicità Watson ammiccò a Sharon. «Vedremo cosa si può fare. Dov'è?».

Sharon indicò una porta sulla sinistra. «Non abbiate paura di mutilarlo».

Sorrise e schiacciò il pulsante che sbloccava la porta.

La redazione era come un enorme magazzino, ma con la moquette. Spazio aperto, con un paio di centinaia di scrivanie, ammucchiate e divise in tanti settori: notizie, servizi speciali, editoria, impaginazione... le mura erano pitturate nello stesso pallido lilla della reception e ugualmente spoglie. Non c'erano partizioni e le scrivanie sembravano traboccare l'una sull'altra. Montagne di scartoffie, post-it gialli e appunti scribacchiati che si propagavano da una scrivania all'altra come una valanga al rallentatore.

Tante persone erano chine sulle tastiere dei loro computer, intente a preparare l'edizione dell'indomani. Oltre all'onnipresente ronzio dei computer e della fotocopiatrice, la sala stampa era stranamente silenziosa.

Logan fermò la prima persona che gli venne a tiro. Un uomo di mezza età, pantaloni di velluto bruno a coste, camicia poco pulita e cravatta con su le macchie di almeno tre delle cose che aveva mangiato a colazione.

Quasi tutti i capelli gli avevano detto addio tanto tempo fa; ma lui stendeva sulla calvizie quei pochi che gli erano rimasti, illudendosi di coprirla.

«Cerchiamo Colin Miller», disse Logan, mostrandogli il tesserino.

«Davvero? Volete arrestarlo?»

«Non ero venuto qui per questo», rispose Logan rimettendosi in tasca il tesserino, «ma ci sto facendo un pensierino. Perché me lo chiede?».

L'anziano giornalista si tirò su i pantaloni e sorrise. «Nessun motivo».

Pausa; due, tre, quattro...

«Allora», disse Logan. «Dov'è?».

Il vecchio gli strizzò l'occhio e girò la testa verso i gabinetti. Con parole cariche di allusioni disse: «Non ne ho la più pallida idea, sergente». Terminò dando un'occhiata esplicita verso la porta del gabinetto per uomini.

Logan annuì. «Grazie, lei mi è stato di grande aiuto».

«E invece no», rispose il giornalista. «Anzi, sono stato "vago e impreci-so" da quel "vecchio rincoglionito" che sono».

Mentre il vecchio tornava alla sua scrivania, Logan e Watson si diresse-ro rapidamente al gabinetto uomini. Con gran sorpresa di Logan, Watson aprì la porta ed entrò nel locale, a mattonelle bianche e nere. Logan la se-guì, scuotendo la testa.

Watson gridò «Colin Miller?» e questo provocò un piccolo pandemonio tra gli uomini presenti. Tutti si affrettarono a tirarsi su le cerniere dei pantaloni e a sgattaiolare fuori dal gabinetto. Rimase solo un uomo. Basso, tarchiato, spalle larghe, ben pettinato e dall'aspetto muscoloso, con addosso un costoso vestito grigio scuro. Restò all'orinatoio, fischiettando un'a-rietta senza melodia e ondeggiando avanti e indietro.

Watson lo guardò dalla testa ai piedi. «Colin Miller?», chiese ancora.

Si girò e la guardò, con aria disinvolta. «Mi aiuteresti a scrollare questo coso?», le chiese strizzandole l'occhio; il suo accento indicò che veniva da Glasgow. Continuò: «Il mio dottore dice che non devo sollevare cose pesanti...».

Watson fece una smorfia di compatimento e senza mezzi termini gli disse quel che pensava della sua richiesta di assistenza.

Logan si intromise tra i due prima che Watson potesse dimostrare perché la chiamavano "Braccio di Ferro".

Il giornalista sorrise compiaciuto alla sua battuta e si girò, tirandosi su la cerniera. Aveva un anello d'oro su quasi ogni dito e una catena d'oro al collo, sopra la cravatta e la camicia di seta.

«Mr Miller?», chiese Logan.

«Sì, cosa volete, un autografo?». Pavoneggiandosi, si diresse al lavandino, spingendosi un po' in su le maniche e rivelando un pesante braccialetto d'oro a maglia larga al polso destro e un orologio grande come un frullatore su quello sinistro. Non c'era da sorprendersi che fosse muscoloso: per portare in giro tutta quella gioielleria doveva esserlo per forza.

«Vogliamo parlarle di David Reid, il bambino di tre anni che...».

«So chi è», interruppe Miller aprendo il rubinetto. «Ho fatto un servizio in prima pagina sul poveretto». Ghignò e si pompò del sapone liquido dal distributore. «Tremila parole di puro oro giornalistico. Vi dico una cosa: l'assassinio di un bambino è oro colato, credetemi. Un bastardo dal cervello bacato uccide un povero bambino e improvvisamente tutti muoiono dalla voglia di leggerne i particolari mentre fanno colazione. Merda, roba da non crederci».

Logan riuscì a dire: «Ieri sera lei ha chiamato la famiglia», tenendo le mani in tasca per controllare la voglia sempre crescente di afferrarlo per il collo e sbattergli la faccia su un orinatoio. «Chi le ha detto che lo avevamo trovato?».

Miller alzò la testa e sorrise all'immagine di Logan nello specchio sopra il lavandino. «Per certe cose non ci vuole mica un genio, ispettore...?».

«Sergente», rispose Logan. «Sergente McRae, CID».

Il giornalista strinse le spalle e azionò l'asciugatrice ad aria calda. «Appena sergente, eh?». Alzò la voce per farsi sentire sopra il rumore della ventola. «Non importa. Mi aiuti ad acciuffare lo stronzo che lo ha ucciso e farò in modo che lei sia promosso ispettore».

«Io aiutare lei... ?», inorridito Logan chiuse gli occhi e non vide altro che il naso rotto di Miller che sanguinava nell'orinatoio. «Chi le ha detto che avevamo trovato il cadavere di David Reid?», ripeté a denti stretti.

Click. L'asciugatrice si fermò.

«Gliel'ho detto: non c'è voluto un genio. La polizia trova il cadavere di un bambino, chi altro avrebbe potuto essere?»

«Non avevamo detto che si trattava del cadavere di un bambino: questo particolare non era stato divulgato».

«Davvero? Allora dev'essere stata una coincidenza».

Logan gli si avvicinò, guardandolo torvo. «Chi - glielo - ha - detto?», chiese scandendo le parole.

Miller sorrise e spinse in fuori i polsini della camicia controllando che ci fossero almeno due centimetri di polsino inamidato fuori da ogni manica della giacca.

«Avete mai sentito parlare di immunità giornalistica? Io non ho l'obbligo di rivelare le mie fonti d'informazione. E voi non potete costringermi a farlo!». Fece una pausa, cambiando tono. «Ma se quella bella poliziotta che è con lei volesse fare la Mata Hari con me, potrei cambiare idea... Quanto mi piacciono le donne in divisa!».

Watson fece una smorfia e tirò fuori il suo manganello telescopico.

Improvvisamente la porta del gabinetto si spalancò, facendo entrare un donnone dai capelli ricci che si fermò al centro della stanza con le mani sui fianchi e il fuoco negli occhi. «Cosa diavolo succede qui?», chiese guardando torva Logan e Watson. «Ho gran parte della redazione con i pantaloni bagnati di piscio!». Prima che qualcuno potesse rispondere si rivolse a Miller. «E come mai tu sei ancora qui? Tra mezz'ora c'è una conferenza stampa sul bambino morto! La stampa popolare si accaparrerà la storia.

Guarda che questa fottutissima storia è nostra e voglio che lo rimanga!».

«Mr Miller ci sta assistendo in una nostra indagine», disse Logan. «Voglio sapere chi gli ha detto che avevamo trov...».

«Siete qui per arrestarlo?», lo interruppe la donna.

Logan tardò un secondo, ma fu abbastanza.

«No, lo sapevo. Tu!», puntò un dito a Miller. «Muovi le chiappe e corri alla conferenza stampa. Non ti pago per fare il cascamorto con le poliziotte nei gabinetti!».

Miller sorrise e salutò l'astiosa donna. «Subito, capo!». Si girò verso Logan e gli sorrise, strizzando l'occhio. «Spiacente, ma devo andare. Il dovere mi chiama... sapete com'è».

Fece un passo verso la porta ma Watson gli sbarrò il passo, manganello alla mano. «Signore?», chiese sperando di poterlo usare sulla testa di Miller.

Logan guardò da lei al giornalista che sorrideva, sornione e compiaciuto e ancora a lei. «Lascialo andare», disse finalmente. «Continueremo la nostra chiacchierata un'altra volta, Mr Miller».

Il giornalista ghignò. «Quando vuole». Fece il gesto di una pistola con la mano destra e sparò un colpo all'agente Watson. «Alla prossima, Sherlock Holmes».

Fortunatamente Watson non reagì a questo sarcasmo.

Tornati nel parcheggio, corsero alla loro macchina. Watson aprì la portiera, buttò il berretto sul sedile posteriore, si inserì al posto di guida, richiuse la portiera e bestemmiò.

Logan dovette ammettere che aveva ragione. Miller non avrebbe mai rivelato la sua fonte. E in un pistolotto durato dieci minuti, quella riccioluta megera (che era il suo editore) glielo aveva fatto capire senza mezzi termini. Era più probabile che l'Aberdeen Football Club vincesse la Premier Le-ague piuttosto che lei ordinasse a Miller di rivelare l'identità della sua fonte d'informazioni.

Qualcuno bussò sul finestrino del passeggero. Logan sussultò e vide una facciona con un sorriso accattivante che si chinava verso di lui, tenendosi una copia dell'«Evening Express» sulla testa per non bagnarsi i pochi capelli. Era il giornalista che "non" gli aveva detto che lo schifosissimo Mr Miller si era nascosto nel gabinetto degli uomini. Aprì il finestrino.

«Lei è Logan McRae!», disse l'uomo. «Lo sapevo! Sapevo di averla riconosciuta!».

«Davvero?», borbottò McRae, affondando sempre più nel sedile.

L'uomo annuì, felice della sua scoperta. «Io scrissi un articolo, vediamo... un anno fa? Eroico poliziotto accoltellato dal "Mostro di Mastrick"!

Merda, quella fu una bella storia!». Infilò la mano destra nel finestrino aperto. «Martin Leslie, servizi speciali».

Logan gliela strinse, sentendosi sempre più imbarazzato dall'incontro.

«Chi l'avrebbe detto, Logan McRae...», continuò il giornalista. «È ispettore adesso?».

Logan gli disse di no, che era ancora sergente e il vecchio reagì sdegnato. «Soltanto sergente? Dice sul serio? Brutti bastardi! Lei meritava la promozione! Quello stronzo di Angus Robertson era un bastardo sballato!...Ha saputo cosa gli hanno fatto gli altri detenuti a Peterhead? Gli hanno fatto l'appendicectomia col "fai da te"». Abbassò la voce. «Un cacciavite affilato, proprio nelle budella. Adesso gli tocca fare la cacca in un sacchetto...».

Logan non rispose e il giornalista infilò la testa nel finestrino.

«In quale indagine è impegnato adesso?», chiese.

Logan continuò a guardare dritto davanti a se, alla grigia Lang Stracht.

«Ma...», disse. «Veramente io...».

«Se le interessa Colin Coglione», mormorò; si rese conto di ciò che aveva detto e si coprì la bocca con una mano. Guardò la Watson: «Mi scusi, agente... mi è scappata».

Watson si strinse nelle spalle: lei stessa aveva dato a Miller epiteti ben peggiori.

Leslie sorrise imbarazzato. «Allora... quel pezzo di merda è venuto a noi dallo "Scottish Sun", convinto di essere un dono di Dio alla razza umana...

ma ho sentito dire che al "Sun" lo avevano buttato fuori a calci nel sedere».

Si rabbuiò in volto. «Vede sergente, c'è gente tra noi che crede ancora nell'etica professionale. Non si deve cercare di farsi belli facendo le scarpe a un collega! Non si telefona alla mamma di un bambino scomparso per dirle che è stato trovato morto, non prima che la polizia abbia comunicato la triste notizia! Ma quel bastardo è convinto che può farla franca ogni volta, basta che ne tiri fuori una storia». Fece una piccola pausa. «E come se non bastasse, la sua ortografia fa schifo!».

Logan lo guardò attentamente. «Lei sa chi gli ha detto che avevamo trovato il cadavere?».

Il vecchio giornalista scosse la testa. «No, davvero. Ma se vengo a saperlo, la chiamerò subito! Sarà un piacere fare le scarpe a lui, tanto per cambiare!».

Logan annuì. «Bene, la ringrazio». Forzò un sorriso. «Ma adesso dobbiamo andare...».

Watson uscì dal posto auto, lasciando il vecchio sotto la pioggia.

«Dovrebbero farla ispettore!», gridò mentre la macchina si avvicinava all'uscita del parcheggio. «E subito!».

Mentre si allontanavano Logan si sentì arrossire.

«Quell'uomo ha ragione, signore», disse l'agente Watson, mentre Logan diventava color barbabietola. «Lei è d'esempio e d'ispirazione per tutti noi».