CAPITOLO 8

Norman Chalmers abitava in uno stabile di tre piani. La lunga strada a senso unico curvava a destra e si immetteva in Rosemount Place. I palazzi sporchi e grigi occultavano il cielo fino a ridurlo a una strisciolina di nuvole che riflettevano la luce giallastra dell'illuminazione stradale. C'erano au-to parcheggiate sui due lati della strada, attaccate l'una all'altra. Ogni tanto le file di auto erano interrotte da enormi pattumiere comunali, incatenate in coppia, ognuna grande abbastanza da poter contenere i rifiuti settimanali di sei appartamenti.

Con la pioggia che continuava a tamburellare sul tetto dell'auto l'agente Watson fece di nuovo la strada, cercando un posto per parcheggiare.

Logan guardò i palazzi sfilare per la terza volta, ignaro del borbottare di Watson. Il numero diciassette non era diverso dagli altri casamenti. Tre piani di granito scarno, striato da decenni di ruggine delle grondaie in rovina. In tante finestre si intravedeva la luce da dietro le tende e il suono dei televisori era udibile anche al di sopra dello scrosciare della pioggia.

Entrarono nella strada per la quarta volta. Logan le disse di lasciar perdere e di parcheggiare in doppia fila di fronte all'appartamento di Chalmers.

Watson uscì dall'auto e s'infilò tra due auto parcheggiate, con la pioggia che le rimbalzava sulla visiera del berretto. Logan la seguì e disse subito una parolaccia: aveva messo il piede in una pozzanghera. Si avvicinarono all'ingresso del casamento: un portone bruno scuro, coperto da tanti strati di pittura da averne obliterato le incisioni originali. Da una rottura nella grondaia alla loro sinistra l'acqua schizzava sul marciapiede.

Watson schiacciò il pulsante di trasmissione sulla sua radio. «Pronti a intervenire?», chiese a bassa voce.

«Affermativo. L'uscita dalla strada è sotto controllo».

Logan diede un'occhiata e vide Bravo Sette Uno in posizione in fondo alla strada. Bravo Otto Uno confermò che anche loro erano in posizione, all'altra estremità della strada. La stazione di polizia di Bucksburn aveva dato a Logan l'assistenza di due auto e una manciata di agenti in divisa che conoscevano la zona. Una cosa era certa: gli agenti in auto stavano meglio di quelli a piedi.

«Pronto a intervenire».

Un'altra voce, fredda e infelice. L'agente Milligan o l'agente Barnett. Erano gli sfortunati. Per coprire il retro del numero diciassette i due poveri diavoli avevano dovuto scavalcare il muro di cinta dei giardini sul retro dello stabile. Al buio, nel fango e sotto la pioggia.

«In posizione».

Watson guardò Logan.

Lo stabile non aveva il citofono, ma su ogni lato del portone c'erano tre campanelli. Sotto ogni campanello c'era una piccola etichetta col nome dell'occupante. «Norman Chalmers» era stato scritto con la biro su un pezzettino di carta e appiccicato con lo scotch sopra il nome del precedente inquilino. Ultimo piano a destra. Logan fece un passo indietro e diede un'occhiata alle finestre: le luci erano accese.

«Bene. Si va». Si avvicinò ai pulsanti e suonò quello in mezzo, col nome

"Anderson". Due minuti dopo la porta fu aperta da un uomo sui venticinque-trent'anni, dai lineamenti pesanti e dall'aspetto dimesso. Indossava un vestito da poco prezzo e una camicia gialla tutta stropicciata. Aveva un livido vistoso su uno zigomo. Impallidì appena vide l'uniforme dell'agente Watson.

«Mr Anderson?», chiese Logan facendosi avanti e mettendo il piede tra lo stipite e il portone. Non si sa mai.

«Sono io». L'uomo aveva uno spiccato accento di Edimburgo, con le vo-cali che andavano su e giù. «C'è qualche problema?», aggiunse facendo un passo indietro nell'ingresso.

Logan gli sorrise rassicurandolo. «Niente di cui lei debba preoccuparsi, signore», gli rispose seguendolo nell'ingresso. «Vogliamo parlare con uno dei suoi vicini, ma il suo campanello non funziona». Che era una bugia.

Mr Anderson sorrise nervosamente. «Oh... Va bene... meglio così».

Logan lo guardò. «Mi permetta di dirlo, ma quello è un gran brutto livido. Come se l'è fatto?».

Anderson si toccò la faccia. «Sono andato a sbattere in una porta». Ma evitò di guardare Logan negli occhi mentre lo diceva.

Lo seguirono su per le scale, ringraziandolo mentre lui si rinchiudeva nel suo appartamento al primo piano.

«Era nervosissimo», disse Watson sentendo la porta che si chiudeva, il chiavistello che scorreva e la catenella di sicurezza che veniva inserita.

«Avrà forse qualcosa da nascondere?».

Logan annuì. «Abbiamo tutti qualcosa da nascondere. E hai visto quel livido? Sbattuto in una porta, col cavolo. Qualcuno gli ha dato un bel destro sul faccione, altro che porta!».

Watson continuò a guardare la porta. «E ha paura di sporgere denuncia?»

«Probabilmente. Ma sono cose che non ci riguardano».

Le scale erano coperte da una moquette lisa e consunta, ma solo fino al primo piano. Il resto degli scalini di legno scricchiolava a ogni passo. Sul pianerottolo c'erano tre porte: quella dirimpetto alle scale conduceva all'at-tico condominiale e le altre due ai due appartamenti dell'ultimo piano.

Norman Chalmers abitava in quello di destra.

La porta era stata pitturata in blu scuro e un numero sei in ottone era stato avvitato sotto lo spioncino. L'agente Watson si appiattì contro il muro per non rendere visibile l'uniforme. Logan bussò leggermente, come avrebbe fatto un vicino che voleva farsi prestare della panna fresca o una pera avocado.

Si sentì una porta interna che si apriva, il suono di un televisore e poi un chiavistello che veniva retratto. Una chiave che veniva girata nella serratura.

La porta fu aperta da un uomo sui trent'anni dai capelli lunghi, naso storto e una barbetta ben curata. «Salv...», fu l'unica cosa che riuscì a dire.

Watson gli si lanciò addosso, gli afferrò un braccio e glielo girò dietro la schiena, in un modo non previsto nei movimenti naturali.

«Cosa dia...».

Lo spinse nell'appartamento.

«Aaaaaaaaaaaa! Mi rompi il braccio!».

Watson tirò fuori le manette. «Norman Chalmers?», gli chiese metten-dogliele ai polsi.

«Non ho fatto niente!».

Logan entrò nel piccolo ingresso dell'appartamento, spingendo leggermente Watson e il suo prigioniero che continuava a dimenarsi, per poter chiudere la porta. Nel piccolo ingresso triangolare c'erano tre porte in pino, oltre a un passaggio aperto dal quale si accedeva a un cucinino. Il tutto dipinto in colori tanto sgargianti da far venire le lacrime agli occhi.

«Allora, Mr Chalmers», disse Logan, aprendo una porta a caso e scoprendo un bagno in verde luminoso. «Perché non andiamo a sederci e a fa-re una chiacchierata?». Provò un'altra porta che rivelò un ampio soggiorno in arancione, con un divano in velluto marrone a coste, una stufetta a gas nel caminetto, un impianto stereo e un computer. Sulle pareti tanti poster di film e un'enorme rastrelliera carica di CD.

«Che bella casa, Mr Chalmers. Posso chiamarla Norman e darle del tu?».

Logan si sistemò sull'orrendo divano marrone; si accorse troppo tardi che era pieno di peli di gatto.

Chalmers fremeva dalla rabbia, ammanettato con le mani dietro la schiena e con Watson che lo tratteneva, impedendogli qualsiasi movimento.

«Cosa diavolo state facendo?».

Logan sorrise, come un pescecane. «Una cosa alla volta, signore. Agente Watson, sia gentile e informi questo signore dei suoi diritti».

«Mi state arrestando? Perché? Non ho fatto niente!».

«Stia calmo, signore; non è il caso di urlare. Agente, proceda...».

«Norman Chalmers», disse Watson, «la trattengo in detenzione provvisoria perché sospetto dell'omicidio di una bambina di quattro anni, non ancora identificata».

«Cosa?». Chalmers dimenò le braccia ammanettate mentre Watson continuava a recitare quanto previsto dal regolamento; continuò a gridare che non aveva fatto niente e che stavano commettendo un grosso errore. Non aveva ucciso nessuno.

Logan lo fece sfogare; aspettò che si fosse calmato e poi gli fece vedere dei documenti debitamente firmati e autenticati. «Questo è il mandato di perquisizione per quest'appartamento. Sei stato poco furbo, Norman. Abbiamo trovato il corpo della bambina».

«Ma io non ho fatto niente!».

«Avresti dovuto usare un sacco pulito, Norman. Invece l'hai uccisa e l'hai buttata via col resto del pattume di casa. Ma non hai guardato se potesse esserci qualcosa di incriminante, vero?». Gli mise davanti agli occhi la bustina di plastica con dentro lo scontrino del supermercato. «Pere avocado, cabernet sauvignon, panna fresca e dodici uova. Hai per caso una Clubcard dei supermercati Tesco?».

«Questo è pazzesco! Non ho ucciso nessuno!».

L'agente Watson guardò il sedere di Chalmers: nella tasca posteriore dei pantaloni c'era un portafoglio. Nel quale, tra una carta di credito e la carta di appartenenza al locale videonoleggio, c'era una Tesco Clubcard. Il numero corrispondeva a quello dello scontrino.

«Prenda il cappotto, Mr Chalmers. Andiamo a fare un giretto».

Nella saletta "Interrogatorio 3" faceva caldo. Non c'erano finestre e la valvola del termosifone si era bloccata al massimo. Per cui erano costretti a sopportare il caldo e l'aria viziata.

Presenti: sergente Logan McRae, agente Watson, Norman Chalmers, ispettore Insch.

L'ispettore non aveva detto una parola da quando era entrato nella stanza. Era rimasto appoggiato alla parete, con una busta di caramelle alla liquirizia. Sudava.

Mr Chalmers aveva deciso di non cooperare con la polizia. «Ve lo ripeto. Non apro bocca se non in presenza del mio avvocato!».

Logan sospirò. Avevano già discusso questa richiesta di Chalmers diverse volte. «Norman», rispose, spazientendosi. «Avrai un avvocato alla fine dell'interrogatorio».

«E invece voglio il mio avvocato adesso!».

Stringendo i denti, Logan chiuse gli occhi e contò fino a dieci. Li riaprì e disse: «Norman, ascoltami bene. Quelli della scientifica stanno esaminando il tuo appartamento minuziosamente. Troveranno le prove della presenza della bambina. Tu lo sai e io lo so. Se parli adesso, quando sarai davanti al giudice le cose si metteranno molto meglio per te».

Norman Chalmers continuò a guardare avanti a sé senza rispondere.

«Ascolta, Norman; mettimi in condizione di poterti aiutare! Una bambina è morta e...».

«Ma allora sei sordo! Voglio il mio fottutissimo avvocato!». Incrociò le braccia e si appoggiò allo schienale della sedia. «Conosco i miei diritti!».

«I tuoi diritti?»

«Sì, i miei diritti. Ho diritto a essere assistito da un avvocato. E voi non potete interrogarmi se non alla sua presenza». Un sorriso virtuoso gli increspò le labbra.

L'ispettore Insch grugnì, ma Logan scoppiò a ridere. «Ti sbagli! Siamo in Scozia e puoi avere un avvocato solo quando noi avremo finito d'inter-rogarti. Non prima».

«Voglio il mio avvocato!».

«Oh, Cristo in cielo!» gridò Logan, buttando la cartella dell'investigazione sul tavolo. Ne vennero fuori diversi fogli e una foto. La foto di un corpicino avvolto in nastro adesivo. Norman Chalmers non la degnò di uno sguardo.

L'ispettore Insch parlò per la prima volta. Nell'affollata saletta la sua vo-ce rintronò come il brontolio di un tuono.

«Chiamategli l'avvocato».

«Come ha detto, signore?», reagì sorpresissimo Logan, girandosi di scatto verso l'ispettore.

«Mi hai sentito, sergente. Chiamagli l'avvocato».

Tre quarti d'ora dopo stavano ancora aspettando.

Insch si mise in bocca un'altra caramella e la masticò rumorosamente.

«Lo sta facendo apposta. Quel verme lo fa per farci imbestialire».

La porta della saletta si aprì proprio mentre pronunciava queste ultime parole.

«Come ha detto, ispettore?», chiese qualcuno dalla soglia; qualcuno che evidentemente aveva sentito gli ultimi commenti dell'ispettore Insch. L'avvocato di Norman Chalmers era arrivato.

Logan si girò per vedere chi era e soffocò un'imprecazione. Era un signore alto e magro, con un cappotto e un doppiopetto costosissimi; camicia bianca, cravatta di seta blu e un atteggiamento serio e professionale. I capelli erano un po' più grigi dall'ultima volta che Logan lo aveva visto ma aveva sempre lo stesso sorriso irritante. Sorriso che Logan ben ricordava.

Se lo era trovato di fronte quando l'avvocato lo aveva interrogato nel processo Robertson, cercando di convincere la giuria che la polizia aveva co-struito l'evidenza contro il suo cliente e che in effetti la vera vittima era "il mostro di Mastrick", al secolo Angus Robertson.

«Non si preoccupi, Mr Moir-Farquharson». Insch pronunciava il cognome così com'era scritto "Far-Quhar-Son" anziché il tradizionale "Fa-cherson" perché sapeva di infastidirlo così facendo. «Parlavo di un altro vermiciattolo. È ben gentile da parte sua venirci a trovare».

L'avvocato sospirò: si tolse il cappotto e lo appoggiò sullo schienale dell'unica sedia ancora disponibile nella saletta e andò a sedersi al fianco di Norman Chalmers. «La prego, ispettore; non mi dica che dobbiamo rifare questa tiritera tutte le volte che c'incontriamo». Tirò fuori dalla borsa un sottilissimo laptop e l'attivò. Il lieve ronzio del computer che si avviava era quasi impercettibile nell'affollata saletta.

«Rifare cosa, Mr Far-Quhar-Son?».

L'avvocato lo guardò male. «Sa benissimo cosa. Io sono qui per assistere il mio cliente, non per essere insultato da lei. Non mi costringa a sporgere un'altra denuncia per il suo comportamento ai suoi superiori».

Insch si rabbuiò in viso e non disse nulla.

«Allora», continuò l'avvocato destreggiandosi con la tastiera del computer. «Ho qui una copia delle accuse contestate al mio cliente. Prima di rilasciare una dichiarazione vorrei parlare con lui in privato».

«Davvero?». Insch lasciò la sua postazione vicino alla porta e poggiò i pugni sul tavolo, chinandosi verso Chalmers e il suo avvocato. «E noi vor-remmo chiedere al suo "cliente" perché ha ucciso una bambina di quattro anni e ne ha buttato via il corpo, assieme alla spazzatura!».

Chalmers saltò su dalla sedia.

«Non sono stato io! Volete ascoltarmi, brutti bastardi? Non ho fatto niente!».

Sandy Moir-Farquharson appoggiò una mano sul braccio di Chalmers.

«Stai calmo. Tu non devi dire assolutamente niente. Stattene seduto e lascia che sia io a parlare, va bene?».

Chalmers guardò il suo avvocato che gli sorrise per rassicurarlo; annuì e lentamente si rimise a sedere.

Insch non si era mosso.

«Allora, ispettore», disse Moir-Farquharson. «Le ripeto; vorrei parlare col mio cliente in privato. Dopodiché saremo ben lied di assisterla nella sua indagine».

«Questa non è la prassi», gli rispose Insch, buio in volto. «Lei non ha alcun diritto di accesso a questo stronzetto. La sua presenza qui è tollerata solo come un gesto di cortesia». Si avvicinò all'avvocato fin quando i loro nasi quasi si toccarono. «Qui valgono le mie regole, non le sue».

Moir-Farquharson gli sorrise con calma, per nulla turbato dall'aggressi-vità dell'ispettore. «Conosco i capricci della legge scozzese, ispettore. Comunque, per una dimostrazione di buona fede, le chiedo di lasciarmi parlare col mio cliente in privato».

«E se non glielo permetto?»

«In tal caso staremo qui fino a quando ne saremo stufi. Oppure fino alla scadenza delle sei ore di detenzione provvisoria che le consente la legge.

Decida lei».

Insch lo guardò per alcuni attimi; si mise la busta delle caramelle in tasca e uscì dalla saletta, seguito da Logan e da Watson. Nel corridoio c'era più fresco, ma le parolacce fioccavano.

Quando ebbe finito di maledire l'avvocato ai quattro venti, Insch disse a Watson di tenere d'occhio la porta della saletta, nel caso quei due avessero cercato di sgattaiolare alla chetichella.

Watson si sentì scocciata dall'ordine appena ricevuto. Ma questo era ciò che ti spetta se sei una semplice agente in divisa. Sperava di superare presto gli esami per passare al CID, così un giorno sarebbe toccato a lei dire a qualcuno in divisa di piantonare porte chiuse.

«A proposito, agente». Insch le si avvicinò con fare cospiratorio. «Hai fatto un bel lavoro investigativo, ricuperando quella ricevuta. Brava. Parlerò bene di te a chi di dovere».

«Grazie, signore». Watson sorrise, soddisfatta e compiaciuta dell'encomio.

Logan e l'ispettore la lasciarono di guardia e si recarono al centro investigazioni. «Perché proprio Farquharson!», imprecò Insch, appoggiandosi come al solito sull'orlo della scrivania. «Adesso non riusciremo a cavar fuori niente da Chalmers! E io devo essere in teatro per le prove tra venti minuti!». Sospirò: sapeva che non ce l'avrebbe fatta. «Dio ci protegga da avvocati del genere!».

Sandy Moir-Farquharson era un avvocato di fama. In tutta la città non c'era un penalista par suo. La sua reputazione era tale da far impallidire qualsiasi procuratore che se lo trovasse contro. Per anni l'ufficio del Pubblico Ministero1 aveva tentato invano di farlo passare dalla loro parte, a essere l'accusa e metter dentro i criminali, invece di aiutarli a farla franca.

Ma il viscido figlio di buona donna non ne voleva sapere. Era intento in una missione di prevenzione di errori giudiziari. Di protezione degli inno-centi. E pronto a farsi intervistare da chiunque gli puntasse in faccia una telecamera o un microfono. Era un pericolo pubblico, un piantagrane.

Suo malgrado, Logan dovette ammettere in cuor suo che se si fosse trovato in qualche megapasticcio sarebbe stato ben lieto di aver Sandy il Viscido come difensore.

«E allora perché gli ha concesso di parlare con Chalmers in privato?»

«Perché Chalmers non ci avrebbe detto niente. Almeno adesso sentiremo cosa ci dirà tramite il suo avvocato».

«Credevo che Sandy il Tortuoso stesse difendendo Gerald Cleaver, il nostro caro molestatore di bambini».

Insch fece spallucce e tirò fuori le caramelle. «Sappiamo tutti com'è Sandy. Il processo Cleaver durerà ancora una settimana, dieci giorni al massimo. Per cui Sandy ha bisogno di un nuovo caso per poter presentare la faccia davanti alle telecamere». L'ispettore offrì la busta di caramelle a Logan che ne prese una alla noce di cocco e liquirizia.

«Quelli della scientifica troveranno qualcosa», disse Logan masticando.

«La bambina è stata in quell'appartamento, ne sono certo. Nel sacco c'erano le bottiglie di vino vuote e altri resti di alimentari. Chalmers non avrebbe potuto metterla nel pattume da nessun'altra parte... a meno che non mangi e beva in un altro appartamento».

Insch annuì, rovistando nella busta delle caramelle. «Telefona al Muni-cipio, domattina. Chiedi se c'è un altro indirizzo registrato a nome suo.

Non si sa mai». Trovò quel che cercava: una caramellona all'anice, e se la mise in bocca. «A proposito», continuò. «Alle 19,45 c'è l'autopsia...». S'interruppe, guardandosi le scarpe. «Mi chiedevo se non ti dispiacerebbe...».

«Vuole che ci vada io?».

«Io sono l'investigatore più alto in grado e quindi toccherebbe a me, ma...».

Insch aveva una bambina su per giù della stessa età della vittima. Per cui, star lì a guardare il corpo di una bambina dell'età di sua figlia mentre la tagliavano come un quarto di vitello, sarebbe stata un'esperienza poco piacevole. Ma non sarebbe piaciuto neanche a Logan. Specialmente se l'autopsia fosse stata effettuata dalla dottoressa Isobel MacAlister.

«Va bene, ci andrò io», disse cercando di non sospirare mentre lo diceva.

«E comunque lei dovrebbe interrogare Chalmers... in qualità di investigatore di grado, no?»

«Grazie», rispose Insch. In segno della sua stima offrì a Logan l'ultima caramella alla liquirizia.

Logan prese l'ascensore per andare all'obitorio, sperando che fosse la serata libera di Isobel. Magari sarebbe stato fortunato e gli sarebbe capitata una delle sue assistenti. Ma da come si stava comportando la dea bendata nei suoi confronti ne dubitava proprio.

Quella sera l'obitorio era stranamente arioso e illuminato, con le luci che facevano splendere le tavole di dissezione e le celle frigorifere. C'era freddo, quasi quanto fuori. Nonostante il forte odore di disinfettante, il fetore di decomposizione del cadavere dell'autopsia della mattina permeava ancora l'aria. Il fetore di David Reid.

Arrivò in tempo per assistere allo scarico del corpo della bambina dalla body-bag che era troppo grande per lei. Era ancora avvolta nel nastro adesivo, solo che adesso il nastro era coperto della polverina bianca per il pre-lievo delle impronte digitali.

Il cuore gli cadde nelle budella. Al tavolo, a sorvegliare la sistemazione del cadavere c'era Isobel, non una delle sue assistenti. Indossava la sua uniforme da lavoro, il grembiule di gomma rossa ancora senza alcuna traccia di sangue. Il procuratore e il patologo d'osservazione erano già lì, con addosso dei camici, e parlavano del cadavere con Isobel che raccontava loro come e dove era stato trovato.

Notò l'arrivo di Logan e non fece nulla per nascondere la sua noia. Si ti-rò giù la mascherina e gli chiese: «Credevo che l'ispettore Insch fosse l'investigatore responsabile per questo caso. Dov'è?»

«Sta interrogando l'indiziato».

Si rimise a posto la mascherina, mostrando tutta la sua scocciatura.

«Non si è fatto vedere all'autopsia di David Reid e adesso non si prende la briga di presentarsi a questa. Non so neanche perché me la prendo così tanto...». Il suo scocciato borbottare si perse nel nulla. Montò il suo microfonino e cominciò con i preliminari. Il procuratore diede un'occhiata a Logan e scosse la testa; era ovviamente d'accordo con quanto Isobel aveva detto.

Mentre Isobel stava elencando i presenti lo squillo del cellulare di Logan la interruppe: lo guardò arrabbiatissima. «Non permetto l'uso di cellulari nel corso delle mie autopsie!».

Scusandosi profondamente Logan tirò fuori il cellulare e lo spense. Se fosse stato qualcosa d'importante, lo avrebbero richiamato.

Ribollendo di rabbia Isobel concluse i preliminari. Prese una scintillante forbice in acciaio inossidabile e cominciò a tagliare il nastro adesivo che avvolgeva il corpicino della bambina, descrivendone le condizioni man mano che veniva scoperto.

Sotto l'adesivo la bambina era nuda.

Una grossa ciocca di capelli era rimasta attaccata al nastro adesivo e si stava staccando dal cuoio capelluto. Isobel la staccò dal nastro con dell'a-cetone, il cui acuto odore si fece sentire al di sopra dell'odore di disinfettante e del fetore di decomposizione avviata. Ma almeno questo corpo non era stato in un fossato per tre mesi.

Isobel rimise a posto le forbici e il suo assistente inserì i ritagli di nastro adesivo in una busta di plastica, etichettandola come prova. Il corpo della bambina era ancora curvo nella posizione rannicchiata del feto. Gentilmente, quasi con tenerezza, Isobel ne eliminò il rigor mortis dagli arti, muo-vendoli avanti e indietro fino a quando riuscì a stenderla sulla schiena.

Come se stesse dormendo.

Era una bambina di circa quattro anni, bionda, con qualche chilo di troppo, con diversi lividi sulle spalle e sulle cosce, contusioni che spiccavano contro il pallore della sua carnagione.

Mentre Isobel lavorava, un fotografo che Logan non riconobbe cliccava in continuazione.

«Ho bisogno di una buona inquadratura, testa e spalle», gli disse Logan.

L'uomo annuì e inquadrò la fredda faccia del cadaverino.

Flash, whirrr, flash, whirr.

«C'è un profondo taglio tra la spalla sinistra e il braccio. Sembra che va-da...». Isobel tirò il braccio, rivelando il taglio profondo. «...Sì, va fino all'osso». Toccò la parte tagliata con un dito inguantato. «È stata inflitta dopo la morte. Un colpo solo, con una lama piatta e tagliente, probabilmente una mannaia». Si avvicinò al taglio quasi fino a toccarlo col naso.

Annusò e disse: «Nell'area del taglio c'è un forte odore di vomito»; stese una mano. «Passami le pinzette».

L'assistente gliele passò e lei rovistò nel taglio, fino a estrarne qualcosa di grigio e cartilaginoso.

«Nel taglio ci sono dei resti di cibo parzialmente digerito».

Logan cercò di non visualizzare la scena. Non ci riuscì. «Stava cercando di farla a pezzi», disse. «Stava cercando di disfarsi del corpo».

«E cosa te lo fa pensare?», gli chiese Isobel, con una mano leggermente appoggiata al petto della bambina.

«I giornali parlano spesso di corpi fatti a pezzi. L'assassino vuole eliminare l'evidenza, quindi cerca di farla a pezzi con una mannaia da macellaio. Solo che non è così facile come ha immaginato. Ci prova, ma il tentativo lo fa vomitare». La voce di Logan era spenta e monotona. «Allora l'avvolge in nastro adesivo, la infila nel sacco dell'immondizia e la mette nella pattumiera condominiale per farla portar via dai netturbini».

Il procuratore rimase colpito da questa considerazione di Logan. «Ottima deduzione, sergente», disse. «Credo che lei abbia ragione». Si rivolse a Brian, l'assistente di Isobel, che stava mettendo i pezzettini recuperati dalla ferita in un tubicino di plastica. «Si assicuri che siano sottoposti alle analisi del DNA».

Ignorandoli Isobel continuava nel suo lavoro. Aprì la bocca della bambina, le schiacciò la lingua con un apposito strumento e indietreggiò.

«Sembra che abbia ingerito un liquido detersivo. Un bel po', infatti, a giudicare dalle condizioni della bocca. La pelle e i denti indicano contatto con un liquido corrosivo, probabilmente candeggina. Ne saprò di più quando esaminerò il contenuto dello stomaco». Con una mano chiuse la bocca della bambina, reggendole il capo con l'altra. «Oh oh...», fece segno al fotografo di avvicinarsi. «Fotografi la nuca. Il retro della testa ha subito un forte colpo». Cercò con le dita nella zona dove il cranio si unisce al collo. «È

stato inflitto con un corpo contundente con uno spigolo».

«Qualcosa come l'angolo di un tavolo?» suggerì Logan. Non gli piaceva la piega che stavano prendendo le cose.

«No... qualcosa di acuto, solido, come l'orlo di un caminetto. O un mattone».

«È stato il colpo che ha causato la morte?», chiese Logan.

«Se non l'ha uccisa la candeggina che ha bevuto... per essere più precisa dovrò aprirle il cranio».

Sul carrello degli strumenti c'era una sega per le ossa. Logan non voleva star lì a vedere quello che stava per succedere.

Al diavolo l'ispettore Insch e la sua bambina. Avrebbe dovuto esserci lui a godersi lo spettacolo di un patologo che faceva a pezzi una bambina di quattro anni, non Logan.

Isobel passò il bisturi da un orecchio all'altro, incidendo la pelle. Senza batter ciglio, inserì le dita nel taglio e tirò lo scalpo in avanti, come se si stesse togliendo una calza. Logan chiuse gli occhi cercando di non ascoltare il rumore della pelle che si staccava dalla sottostante struttura muscola-re: il rumore di una lattuga che viene tagliata con le mani.

Lo stridulo rumore della sega che lavorava sul cranio della bambina era insopportabile. Lo stomaco di Logan stava per cedere.

E durante tutto questo Isobel mantenne la sua fredda e staccata professionalità, continuando a descrivere nel microfonino ciò che stava facendo.

Logan si sentì ben lieto del fatto che loro due non stessero più insieme. Se lo fossero stati, non le avrebbe permesso di toccarlo. Non con quelle mani.

Non dopo quello che le aveva visto fare.

1 Nell'originale: CPS, Crown Prosecution Service (n.d.t.).