52

«Jacob! Scendi! Subito!»

Mi ci volle un momento per riconoscere la voce di Maggie.

D’un tratto udii delle sirene. Una forte luce si riversò nella stanza attraverso la finestra.

«Jacob! Per favore! Sbrigati!»

Fu così che abbandonai la prospettiva di una pacifica mattinata a Goosen Valley. In boxer e canotta bianchi, uscii di corsa dalla stanza e mi precipitai giù per le scale due gradini per volta.

Nell’ingresso trovai Maggie Pine insieme a una decina di persone, alcune delle quali erano dovute rimanere fuori. Impiegai giusto una manciata di secondi per capire che non si trattava né di un intervento dei vigili del fuoco né di un’operazione di polizia. Era tutta gente che conoscevo: Megan, Alex e Lindsay, e poi Sam, Bette e Bud. Porca puttana. C’era anche la capa del vicinato, Marie DiManno.

I volti che mi erano familiari ma ai quali non sapevo dare un nome erano quelli dei giovani «addetti al colloquio» di San Francisco e dei due gorilla che si erano impossessati del mio portatile e dei miei documenti personali soltanto un paio di sere prima, a New Burg.

«Che diavolo sta succedendo?» dissi sottovoce, in preda alla confusione e allo stupore.

«Siamo tutti qui per aiutarti», disse Maggie.

Oh, santo cielo. Quindi anche Maggie era una di loro.

«Che razza di storia è questa?» chiesi, continuando a spostare lo sguardo da una faccia all’altra. Avevano tutti un’espressione triste e seria. «Aiutarmi a fare cosa?» Adesso stavo gridando.

Lindsay fece un passo in avanti e mi prese la mano. Mi parlò come se si stesse rivolgendo a un bambino di tre anni che aveva appena fatto cadere il suo cono gelato: «È un intervento, papi».

Ritrassi di scatto la mano. «No, è assurdo!»

I due gorilla, il pelato e il biondo, si fecero avanti pronti a bloccarmi. Quando si spostarono, riuscii a vedere fuori dalla porta. Un furgone della tv. Un altro furgone con degli altoparlanti. Quattro uomini e due donne. Due indossavano delle cuffie, altri due reggevano dei microfoni a giraffa.

Stavano filmando l’intervento.

La ragazza del colloquio avanzò e si mise di fianco a Lindsay. «Cerchiamo di non agitarci», disse, con una tranquillità e una dolcezza esagerate. «Perché non andiamo da qualche parte a parlarne con calma? È possibile, signora Pine?»

«Certo. Andiamo in sala da pranzo. L’ho sistemata in modo che ci fosse spazio per tutti.»

Fui spinto di peso da quell’ammasso di gente, al quale si unirono anche alcuni membri della troupe.

Mi ritrovai in sala da pranzo. Maggie aveva spinto il vecchio tavolo di pino contro la parete, disponendo a semicerchio non solo le sedie della cucina, ma anche parecchie sedie pieghevoli.

«Ma porca miseria, non sono nemmeno vestito!» gridai.

Megan mi posò una mano sulla spalla e con dolcezza cercò di farmi sedere sulla sedia al centro. Era la prima volta che mia moglie apriva bocca. «Tesoro, non essere così formale. Non importa quello che indossi.»

«Certo che importa! A meno che uno non sia pazzo, malato di mente. Fuori di qui, tutti quanti.»

Nessuno reagì. Nessuno perse il controllo.

Era così, allora? Credevano che fossi pazzo e avevano intenzione di trattarmi come tale?

Guardandomi le gambe nude e i piedi scalzi, e osservando l’espressione vuota sui volti dei miei figli, per un momento pensai che potessero avere ragione. Bette stava muovendo le labbra senza che ne uscisse alcun suono. Stava forse pregando? I due addetti al colloquio stavano prendendo appunti sui loro palmari. I gorilla erano seduti uno alla mia destra e uno alla mia sinistra, per precauzione.

Il pensiero di essere effettivamente pazzo, però, svanì con la stessa rapidità con cui si era formato. Ero arrabbiato. Incosciente, forse. Ma di sicuro non ero pazzo. D’un tratto ebbi la certezza che Anne Gutman dovesse avere quel manoscritto. E sapevo esattamente come farlo arrivare nelle sue mani.

The Store - Edizione Italiana
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