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Una volta che Trasporto ebbe completato il protocollo di attracco, scesi dalla brandina, recuperai la mia sacca (dentro c’erano un po’ di cose ma mi serviva più che altro per somigliare maggiormente a una viaggiatrice umana) e imboccai una scorciatoia lungo il cunicolo di manutenzione fino al portellone dei passeggeri. Gli altri sarebbero usciti attraverso la rampa di carico, a bordo di un modulo di trasporto che una gru avrebbe poi provveduto a trasferire sulla nave che li avrebbe portati fino alla loro nuova casa. Quell’operazione veniva fatta passare per una comodità a loro beneficio ma la verità era che il loro datore di lavoro non voleva che transitassero attraverso la stazione, dove avrebbero potuto ancora cambiare idea e fuggire.
Non avevo voglia di salutare nessuno. Non potevo salvare quegli umani dal luogo in cui stavano andando – dove pensavano di voler andare – ma non ero nemmeno costretta a vederlo succedere.
Salutai invece Trasporto, che mi fece uscire dal portellone e poi cancellò la mia presenza dal suo registro. Capivo che era triste di vedermi andare via, ma non era stato un viaggio che avrei ripetuto volentieri.
Ero diventata pratica nella manomissione dei diversi sistemi di sicurezza degli scali e degli anelli, per cui fu molto meno snervante superare gli scanner anti-armamenti. Le SecUnit sono progettate per essere degli elementi mobili di qualunque tipo di SecSystem, per far sì che la compagnia possa noleggiarci a più tipologie di clienti possibile, anche quelli dotati di equipaggiamento proprietario. Il trucco, quando si hackera un SecSystem, è fargli pensare che tu abbia tutto il diritto di essere lì, e la compagnia ci aveva gentilmente provvisto di tutto il codice necessario. La pratica – e il terrore che accompagnava la necessità – mi aveva fatto diventare brava a modificarli sul momento.
Mi fermai sulla spianata dell’anello, in un chiosco automatizzato che vendeva interfacce feed per umani non aumentati, schermi portatili e unità di memoria. Le unità di memoria servivano a immagazzinare dati extra ed erano grandi più o meno come la punta di un dito. Erano impiegate da umani che avevano bisogno di installare nuovi sistemi o viaggiare in luoghi che non avevano un feed, oppure che volevano immagazzinare dati in una posizione che non fosse accessibile via rete (i SecSystem della mia compagnia però avevano comunque modo di leggerle; capitava che i clienti cercassero di nasconderci i loro dati). Comprai un set di unità con la mia carta valuta (vidi che c’era dentro ancora parecchio credito; Tapan e lə altrə dovevano avermi pagato un sacco di soldi).
I moli privati non erano mai affollati quanto quelli pubblici: c’erano soltanto pochi umani in ingresso o in uscita, e un sacco di robot trasportatori impegnati a spostare i loro carichi. Eseguii una scansione in cerca di droni mentre attraversavo la zona d’imbarco ma ne trovai soltanto due, impiegati per monitorare l’attività dei robot trasportatori. Individuai il portellone della nave di appoggio e le inviai un ping per vedere se c’era qualcuno a bordo. Il bot pilota rispose al mio ping.
Era un bot di livello inferiore, privo di funzioni sufficientemente elaborate per potersi annoiare mentre aspettava all’ormeggio o per essere interessato all’idea di avere qualcosa da fare. Come gli altri trasporti robotizzati che avevo incontrato (a eccezione di ART), comunicava per immagini. Sì, era una nave di appoggio. Sì, era diretta a Milu; andava a Milu ogni quarantasette giorni. Dal controllo transiti era giunto un aggiornamento che le aveva dato istruzione di rinviare la partenza, ma si aspettava di ricevere il via libera entro i prossimi due cicli. Era come parlare con un’informativa di viaggio preregistrata.
Eppure pensai che, per una volta, ero stata fortunata.
Le feci credere di avere l’autorizzazione dell’Autorità Portuale e le chiesi di lasciarmi salire a bordo; Nave ottemperò alla mia richiesta. Dopodiché, rimossi con delicatezza il mio ingresso dalla sua memoria. Per quanto la riguardava, ero sempre stata a bordo. Non era una cosa che mi piaceva fare; in genere preferisco negoziare con i bot di pilotaggio. Quello però era talmente limitato che temevo fosse incapace di stringere un accordo e di rispettarlo. Non volevo rischiare che allertasse l’Autorità Portuale solo perché non si rendeva conto che era una pessima idea.
M’inoltrai per un breve corridoio fino al comparto principale e trovai il passaggio che portava alla stiva per i rifornimenti e le merci. Era di dimensioni ridotte, grande appena quanto bastava per la consolle usata per agganciare e rimuovere i due moduli di carico, e i ripostigli per le riserve di bordo. Entrambi i moduli erano già agganciati, perciò, se Nave fosse stata in attesa di un altro carico, sarebbe stato necessario sganciare e ricaricare uno dei due. Considerando la configurazione della sala equipaggio, però, la cosa non avrebbe dovuto crearmi problemi.
Usai il tempo che avevo per perlustrare i dintorni, più che altro perché ero un po’ tesa e il pattugliamento era comunque un’abitudine programmata. I droni di riparazione della nave mi seguivano, attratti da un corpo in movimento che non sarebbe dovuto essere lì ma, senza istruzioni specifiche da parte di Nave, non m’infastidirono. Non c’erano cabine private, solo un paio di brandine incassate nelle paratie, su nel ponte di comando, accanto alla postazione di pilotaggio, e un altro paio di cubicoli dietro la stiva, vicino al MedSystem di emergenza e a un minuscolo bagno. Io non ne avevo bisogno, e sarebbe stato un sollievo non dover fingere di usarlo abbastanza spesso da sembrare umana (anche se mi stavo abituando a usare le docce degli umani). Paragonate a una sala tattica della compagnia, quelle sistemazioni erano lussuose. Mi accomodai su una branda del ponte di comando e cominciai a setacciare i nuovi file scaricati (okay, forse avrei dovuto capire che i pacchetti di lenzuola e altri rifornimenti in uno dei ripostigli erano stati messi lì probabilmente per un motivo specifico).
Dopo aver provato e scartato qualche nuova serie, cominciai a guardare una prima puntata che sembrava promettente. La storia si svolgeva in un mondo alternativo pieno di magia e d’improbabili armi parlanti (dico improbabili perché ero un’arma parlante e sapevo bene come mi vedeva la gente).
Una ventina di ore dopo ero ancora immersa nella serie, intenta a godermi la mia vacanza dagli umani. Fortunatamente percepii l’incremento di pressione nel momento in cui si avviò il supporto vitale (io non ho bisogno di molto ossigeno e posso sempre mettermi in ibernazione qualora dovessi finire la scorta, per cui quel minimo di atmosfera che c’è a bordo dei trasporti automatizzati mi va più che bene).
Misi in pausa il programma e mi tirai a sedere. Contattai il pilota robotizzato e gli chiesi se stava salendo a bordo qualcuno. Sì, stavano salendo i due passeggeri, e aveva appena ricevuto un aggiornamento dall’autorità di transito in cui gli davano via libera per richiedere uno slot di partenza.
Un altro di quei momenti “oh, merda”.
Avevo già perlustrato la nave, perciò almeno avevo in mente un paio di nascondigli possibili. Rotolai giù dalla brandina, mi ricordai di prendere la sacca, mi lasciai cadere per il passaggio verticale fino al compartimento principale, poi lo attraversai e scesi nel passaggio che portava alla zona di carico. Scelsi il ripostiglio meno accessibile e ne spostai il contenuto finché non riuscii a incastrarmi sul fondo, nascosta dai pacchetti di rifornimento. Mi arruffianai il bot pilota e gli ricordai che la mia presenza lì era del tutto normale e che non c’era alcun bisogno di parlare di me con nessuno, inclusi i passeggeri e l’Autorità Portuale. Nave non aveva nessuna telecamera di sorveglianza (è raro che un trasporto non controllato da entità politiche corporative ne abbia) ma disponeva comunque di qualche drone. Grazie ai loro scanner avevo una buona visuale di tutti i compartimenti interni, una volta filtrati i dati di manutenzione di cui non avevo bisogno.
Sedici minuti dopo, la camera stagna di accesso si aprì e due passeggeri salirono a bordo. Si trattava di due umane aumentate che portavano con loro pacchetti di viaggio e un paio di casse che riconobbi immediatamente: equipaggiamento da combattimento, armi e corazze incluse.
Uhm. In genere, per combattere, era più comune impiegare robot che umani – per lo stesso motivo per cui le SecUnit erano più comuni per le mansioni di sicurezza: se non seguiamo gli ordini, ci friggono il cervello. Esistevano però trattati intercorporativi e tra altre entità politiche che regolavano l’uso dei robot da combattimento (benché sembrassero tutti molto bravi ad aggirarli; era un tema molto usato in alcune delle serie prodotte fuori da Corporation Rim).
Rimasi in ascolto tramite i droni e il feed di Nave ma le due umane non parlavano molto, limitandosi a sistemare l’equipaggiamento con qualche indicazione saltuaria. Dalla firma dei loro feed venni a sapere che si chiamavano Wilken e Gerth. Aspettarsi che si mettessero a chiacchierare del motivo per cui erano dirette a Milu mi pareva troppo, ma avevo altre frecce al mio arco.
In quanto SecUnit, gran parte delle mie funzioni erano dedicate ad aiutare la mia compagnia a registrare tutto ciò che i clienti facevano e dicevano, affinché la compagnia potesse poi estrarre i dati significativi e vendere tutto ciò che poteva avere valore (si dice che un buon servizio di sicurezza abbia un prezzo alto, e la compagnia lo interpreta piuttosto alla lettera). La maggior parte delle registrazioni è solo spazzatura da cancellare; prima però vengono vagliate e se ne estraggono le parti utili. Normalmente la cosa viene fatta in collaborazione con un SecSystem, ma ero anche in grado di farla da sola e avevo ancora il codice necessario. Anche se occupava spazio di memoria che avrei potuto usare per i file multimediali, era pur sempre del software che non sarei stato in grado di recuperare con facilità.
Mentre le due umane prendevano qualche pacchetto di rifornimento dal ripostiglio in cui non ero io e si sistemavano, modificai il codice dei droni per far sì che registrassero. Una volta che ebbi raccolto dati a sufficienza, potei far girare l’analisi in background.
Quando Nave si sganciò dagli ormeggi e cominciò il viaggio verso Milu, io ero già tornata alla mia nuova serie.
Per arrivare fino a Milu impiegammo venti cicli, secondo l’ora locale di Nave.
Non mi aspettavo che la cosa mi avrebbe infastidito. Mi era capitato di rimanere chiusa in una cassa da trasporto o in un cubicolo per molto più tempo, e molti di quei viaggi erano avvenuti prima che hackerassi il mio modulo di controllo e cominciassi a scaricare file multimediali. Ma la verità era che non ero più abituata a viaggiare come una merce, pur avendo a disposizione nuovi programmi, nuove serie e centinaia di libri. Il riposo nel cubicolo di transito non mi aveva fatto né caldo né freddo e avevo trascorso altri tre viaggi di trasporto, incluso quello con ART, perlopiù senza muovermi. Non capivo cosa ci fosse di diverso. Okay, forse lo capivo: in tutti gli altri spazi avevo avuto la possibilità di muovermi tutte le volte che volevo.
A ogni modo, quando Nave mi diede notizia di aver iniziato l’avvicinamento a Milu, fu un vero sollievo. Due minuti dopo mi accorsi di essere collegata al feed della stazione, ma era completamente vuoto.
Di solito ci si trovano informazioni di traffico e attracco, potenziali pericoli per la navigazione, notizie utili ai viaggiatori e roba del genere, ma in quel caso non c’era assolutamente niente. Chiesi a Nave, che mi confermò che non c’era altro traffico in avvicinamento ma, del resto, corrispondeva alle sue esperienze di attracco precedenti in quella stazione (una volta avevo visto una serie con una stazione infestata dai fantasmi e, per quanto improbabile, era sempre meglio accertarsi che così non fosse).
Quel silenzio però era stranamente snervante. La stazione aveva la forma di un triangolo ed era più piccola di RaviHyral. Dalle scansioni si vedevano due navi attraccate e qualche navetta sparsa: una frazione della sua capacità totale.
Nave si era mossa in posizione di attracco prima che riuscissi a percepire qualcosa sul feed. Il messaggio di benvenuto sembrava piuttosto normale ma l’indice della stazione dava a intendere che il sistema informativo avesse qualche problema. C’era una lista di negozi e servizi ma ogni voce era stata aggiornata con un avviso di chiusura per inattività. Poteva anche darsi che in quel posto non ci fossero fantasmi, in fondo, ma era comunque a un passo dalla morte.
Mentre aspettavo che Nave completasse l’attracco, controllai i risultati della mia analisi. Wilken e Gerth erano consulenti per la sicurezza assoldate da una squadra di ricerca che lavorava per conto della GoodNightLander Independent. Quest’ultima aveva già compilato tutta la documentazione per recuperare dallo stato di abbandono la piattaforma di terraformazione disertata da GrayCris e aveva installato il sistema di trazione per evitarne la disintegrazione, e ora stava dando il via al processo di presa in carico formale. Il compito della squadra di ricerca era recarsi sulla piattaforma e fare rapporto sulle sue condizioni.
Era esattamente il tipo di contratto per cui una compagnia fornisce le proprie SecUnit, il tipo di contratto che avevo fatto più volte di quante non me ne fossero rimaste in memoria. Dalle conversazioni di Wilken e Gerth in quegli ultimi venti cicli, però, emergeva chiaramente che in quella faccenda non era coinvolta nessuna compagnia e nessuna SecUnit. Cercai di non prenderla sul personale (peraltro, se fosse stata coinvolta una compagnia con le sue SecUnit, avrei dovuto annullare quel che stavo facendo… Qualsiasi cosa fosse quel che stavo facendo. La mia modifica di configurazione avrebbe ingannato gli scanner ma non un’altra SecUnit, e qualsiasi Unità che mi avesse individuato avrebbe immediatamente fatto rapporto al proprio SecSystem. Io al loro posto mi sarei denunciata – poco ma sicuro. Le SecUnit ribelli sono fottutamente pericolose, potete credermi sulla parola).
Mentre ero in attesa che Nave finisse la procedura di attracco, immaginai che i rumori di aggancio al molo avrebbero coperto quelli di qualche piccolo movimento. Tirai davanti a me la sacca, aprii la pelle sul mio braccio destro nel punto in cui incontrava il bordo dell’arma a raggio diretto e inserii tutte le schede di memoria che avevo comprato. Mi sembravano strane e ingombranti, ma mi ci sarei abituata. Avevo intenzione di lasciare la mia sacca lì nel ripostiglio.
Attraccammo, poi Wilken e Gerth raccolsero le loro cose e uscirono dal portellone. Mentre sgusciavo fuori dal ripostiglio, usai il feed pubblico della stazione per hackerare il sistema di sorveglianza. La maggior parte delle telecamere non era attiva e le scansioni controllavano soltanto i livelli ambientali e gli eventuali danni. Erano più preoccupati da un eventuale malfunzionamento della propria strumentazione che da un furto o un sabotaggio – il che forse era dovuto all’esiguità del personale di stazione.
Una volta che ebbi sistemato il ripostiglio e controllato di non aver lasciato tracce evidenti della mia presenza, ficcanasai un po’ in giro per vedere se le umane si fossero lasciate qualcosa alle spalle. Non ebbi fortuna. Esitai, considerando di prendere i droni di Nave. Non avendo compagni su cui contare, dei droni potevano farmi comodo. I droni di riparazione però erano molto più grandi di quelli con cui ero abituato a lavorare, più che altro per l’ingombro dei braccetti di cui avevano bisogno per le riparazioni. Decisi che non valeva la pena di privare Nave dei suoi droni.
Presi però qualche altro accorgimento: iscrissi Nave come mezzo in riparazione nel registro portuale e la convinsi che aveva bisogno della mia autorizzazione per andarsene. Dato che Nave si riparava da sé e la compagnia a cui apparteneva non aveva nemmeno un chioschetto in quel sistema, pensai che nessuno si sarebbe preso il disturbo di controllare finché non si fosse fermata per più di qualche ciclo. Con così poche navi all’attracco, non volevo restare bloccata laggiù.
Quando attraversai la camera di compensazione di Nave, trovai la zona d’imbarco deserta. La scarsa illuminazione creava molte zone d’ombra, che però non bastavano a mascherare i segni di usura e le macchie sui grandi pannelli del pavimento. Una cartaccia solitaria andava alla deriva nel flusso d’aria del riciclatore di ossigeno, come se non facessero nemmeno più uscire i pulitori. Non c’erano droni né robot trasportatori. C’erano soltanto due grosse gru robotizzate, all’esterno, impegnate a rimuovere i moduli di carico di Nave per trasferirli, ed ero felice di sentirle sferragliare e mandarsi indicazioni nel feed peraltro muto della stazione. Non amo dovermi aggirare per spianate piene di umani che mi fissano e mi guardano negli occhi, ma la situazione opposta era, stranamente, altrettanto inquietante.
Trovai Gerth e Wilken grazie a una delle poche telecamere di sorveglianza funzionanti e cominciai a pedinarle. Si dirigevano verso la sala d’imbarco anziché verso i livelli abitativi. Nel feed non c’era nessuna mappa informativa per i turisti ma, hackerando le telecamere, riuscii a ottenere l’accesso al sistema di manutenzione della stazione, e da lì recuperai le piantine. Tutte le aree, tranne quelle essenziali per mantenere l’operatività minima della stazione, erano state chiuse. Mi chiesi se la istanza della GoodNightLander Independent per il recupero della piattaforma dall’abbandono fosse ben vista su quella stazione di transito. Quel posto già mi piaceva poco, e non mi toccava nemmeno viverci.
Ho un programma speciale per bloccare le telecamere e cancellarmi dalla loro memoria che mi è capitato di usare in circostanze molto più complesse; in quel caso lo manipolai per far sì che funzionasse con il sistema di sorveglianza proprietario della stazione. Anche se, in verità, il pericolo maggiore era che un umano mi notasse dal fondo del terminal e pensasse: “Ehi, e quella chi è?”. Per fortuna, la stazione era perlopiù buia.
Seguii Wilken e Gerth fino in fondo alla sala d’imbarco e su per la passerella, verso quelli che la piantina indicava come gli uffici dell’Autorità Portuale e del Controllo Merci.
Mentre oltrepassavo lo snodo in cima alla passerella, qualcosa di luminoso e colorato mi si parò all’improvviso davanti al naso e per poco non lanciai un grido. Era la pubblicità di un servizio di trasporto merci, realizzata con una vernice fluorescente sul pavimento che reagiva al movimento. Provvedeva anche a inviarti un piccolo video sul feed, qualora fossi riuscito chissà come a non notare quell’affare abbagliante davanti alla faccia. Di solito, quei segnalatori sono usati per le procedure di emergenza perché funzionano anche senza corrente. Non li avevo mai visti usare per una pubblicità prima di allora. Il motivo per cui si usano i segnalatori è che sono l’unica cosa visibile in caso di guasto elettrico, per cui diventano facilmente individuabili. Era già abbastanza difficile cercare di far seguire agli stupidi umani i segnalatori fino alla zona sicura senza che quelle pubblicità a comparsa si mettessero a oscurare le vie di fuga…
Ricordai a me stessa che portare gli umani in salvo non era più il mio lavoro.
A ogni modo, detestavo quei segnalatori pubblicitari.
Controllai nuovamente le telecamere e vidi che Wilken e Gerth avevano trovato tracce di vita nella zona dell’Autorità Portuale. Erano in piedi fuori da un centro amministrativo con tre livelli di vetrate a bolla che affacciavano su ciò che sarebbe dovuta essere la spianata della stazione. Si trattava di un’ampia piazza aperta con un paio di tubi di trasporto sopraelevati e un grosso schermo globulare che aleggiava, spento, per aria; era circondata da più livelli di blocchi abitativi ammantati nell’ombra e facciate vuote di quelli che sarebbero dovuti essere bar, alberghi, intermediari di trasporto merci, uffici di transito, officine tecniche e via dicendo. La maggior parte delle strutture pareva incompiuta, come se nessuno ci si fosse mai trasferito, e il resto aveva chiuso, lasciandosi dietro soltanto qualche schermo fluttuante dimenticato in giro.
Mi voltai verso un corridoio che avrebbe dovuto portare fuori dal distretto dell’Autorità Portuale verso il blocco abitativo principale, se tale si poteva definire. Procedetti in un’oscurità quasi totale finché non trovai uno scomparto vuoto, pensato per qualcosa che non era mai stato installato, e mi ci accovacciai dentro. Ora potevo tenere d’occhio le telecamere senza dovermi preoccupare di essere individuata dal personale della stazione. Un drone di manutenzione dotato di scanner anti-armamenti sfiorò il mio feed; io lo intercettai e ne presi il controllo. Stava effettuando una routine di pattuglia all’esterno dell’edificio amministrativo, e lo usai per ottenere una visuale e un audio migliori rispetto alle telecamere fisse.
Wilken e Gerth stavano parlando con altre due umane. Accanto a queste ultime c’era anche un bot umanoide. Non ne vedevo da un po’, se non sul feed d’intrattenimento. Non sono molto popolari nei territori corporativi perché non ci sono molte cose che sappiano fare meglio dei robot specializzati, e, con un feed normale, la loro capacità di memoria ed elaborazione non è un granché. A differenza dei costrutti, non sono dotati di nessun tipo di tessuto umano clonato: hanno soltanto un corpo di metallo nudo, da robot, in grado di alzare cose pesanti – solo non così bene come un robot trasportatore o qualsiasi altro tipo di sollevatore meccanizzato.
In alcune delle serie che avevo visto, venivano usati per fare la parte delle perfide SecUnit ribelli che minacciavano i protagonisti. Non che la cosa m’infastidisse, o chissà che. In realtà era un bene, perché così gli umani che non avevano mai lavorato con delle SecUnit si aspettavano che avessimo l’aspetto di bot umanoidi, e non quello che avevamo realmente. Non ero per niente infastidita, no no. Neanche un po’.
Ero stata talmente impegnata a domare quella fitta di non-fastidio che dovetti riguardare le immagini riprese dal drone per rimettermi in pari. La prima delle due nuove umane disse: «Sono Don Abene». Fece un gesto verso l’altra umana. «Questi sono la mia collega Hirune e il nostro assistente Miki.» Esitò. «L’intermediario ha avuto il tempo di darvi indicazioni?»
«Ci hanno detto che servono due guardie del corpo.» Wilken scoccò un’occhiata al robot, che, a quanto pareva, si chiamava Miki. Se ne stava lì con la testa inclinata da un lato e gli occhi grandi, globulari, fissi su di lei. Era insolito che un umano facesse le presentazioni di un robot, per usare un eufemismo. Gerth sembrò fare uno sforzo per mantenere un’espressione professionalmente impassibile. Wilken proseguì. «Sappiamo che intendete scendere sulla piattaforma di terraformazione per una prima perizia, e il vostro contratto con la GoodNightLander Independent richiede la presenza di una squadra di sicurezza.»
Abene annuì. «Spero che non avremo davvero bisogno di voi. La compagnia che ha abbandonato la piattaforma, però, ha disattivato il monitoraggio satellitare e nessuno è più stato lì da quando se ne sono andati. Immaginiamo che sia deserta ma non abbiamo modo di saperlo con certezza.»
«L’intermediario in effetti ci ha detto che questo potrebbe essere un problema» confermò Gerth. «La schermatura della terraformazione impedisce le scansioni dall’esterno?»
«Sì» rispose Hirune. «Sappiamo che è stabile grazie al sistema di trazione installato dalla GI, nient’altro. La stazione ha continuato a sorvegliare la piattaforma ma, come potete vedere, qui non ci sono navi pattuglia.»
Stava sottintendendo la possibilità che dei razziatori si fossero trasferiti sulla piattaforma. Tralasciando però il fatto che, se così fosse stato, non dovevano essere un granché come razziatori, dal momento che avevano ignorato la stazione su cui ci trovavamo. Inoltre, i razziatori tendono a fare toccata e fuga, evitando di piantare le tende su una piattaforma di terraformazione in deterioramento.
A dire il vero, con l’esperienza che avevo accumulato nel campo della sicurezza, chi avesse scelto di vivere su una piattaforma di terraformazione in deterioramento mi avrebbe preoccupato ben più dei razziatori.
Gerth e Wilken si scambiarono un’occhiata. Forse avevano pensato la stessa cosa. «È possibile che sulla piattaforma siano rimasti organismi attivi, quando è stata abbandonata?» chiese Wilken.
«Le matrici biologiche dovrebbero essere state sigillate e probabilmente distrutte prima della partenza del personale» rispose Hirune. Fece un gesto noncurante con la mano. «Se poi non dovessero averlo fatto, le possibilità che possano aver dato origine a qualche contaminante aereo pericoloso sono decisamente remote.»
L’espressione di Wilken rimase professionale ma insisté: «Non parlavo di batteri. Possono esserci organismi abbastanza grandi da rappresentare un pericolo fisico?».
Uhm… Quindi perfino io ne sapevo più di quelle due, sulla terraformazione.
Il viso di Hirune aveva assunto quell’espressione imperscrutabile, accompagnata da un labbro mordicchiato, che attribuivo agli umani quando cercavano di non mostrare i propri sentimenti, in particolar modo quelli suscitati da un commento involontariamente comico (ecco perché ero tanto reticente ad abbandonare la corazza: nascondere le espressioni facciali era difficile, perfino per gli umani).
Don Abene sorrise con gli occhi, ma lo fece sembrare più come se lei e Wilken stessero condividendo una battuta personale. «La matrice non funzionerebbe con organismi più grandi di un batterio. E non ci sarebbe motivo, a dire il vero, di portare organismi più grandi dalla superficie del pianeta alla piattaforma. Ovviamente non abbiamo la certezza che non l’abbiano fatto, per cui mi sembra giusto esercitare una certa cautela.»
Wilken parve accettarlo – o perlomeno non fece altre domande. Aveva senso. Mostrarsi scettici quando i clienti assicuravano che era tutto a posto faceva parte del lavoro di un consulente per la sicurezza (i clienti delle SecUnit, almeno, si limitavano ad assicurarsi l’un l’altro che andava tutto bene mentre tu fissavi il muro e aspettavi che andasse tutto a carte quarantotto).
Abene e Hirune accompagnarono le due consulenti per la sicurezza all’interno dell’Autorità Portuale, dove avevano stabilito il proprio quartier generale insieme al personale della stazione, ridotto all’osso. Volevano organizzare un briefing completo, preparare una squadra e partire di lì a sedici ore. Miki il robot umanoide fece per seguirle, poi si fermò. Si voltò e alzò lo sguardo verso il drone che stavo usando. Inclinò il capo e capii che si stava concentrando sulla telecamera.
Lasciai andare il drone, cancellandogli dalla memoria quella momentanea requisizione. Quello mandò una richiesta confusa di re-orientamento al sistema dell’Autorità Portuale, poi tornò alla sua routine di pattuglia.
Miki non si mosse, continuando a fissare l’oscurità con la superficie opaca degli occhi. Il feed era vuoto. Non poteva sapere che ero lì.
Poi emise un ping generico, non direzionale. Era solo un segnale al buio; un tentativo di vedere se c’era qualcuno, là fuori, che aveva voglia di rispondere.
Controllai di non avere nessuna perdita di segnale, misi in sicurezza i miei firewall e ricordai a me stessa che dovevo stare in campana. Il fatto che il feed della stazione fosse silenzioso non significava che non ci fosse nessuno in ascolto. La spedizione della GoodNightLander Independent avrebbe fatto girare il proprio feed grazie agli equipaggiamenti di sistema che avevano portato con loro, ma sulla stazione c’era qualcuno che dava ordini ai robot trasportatori e che forse continuava a tenere d’occhio i rapporti dei sistemi di sicurezza.
Quel posto era talmente silenzioso… Forse Miki aveva intercettato il segnalatore pubblicitario in cui ero incappata. O forse aveva percepito un sussurro nel feed, altrimenti vuoto, e la cosa era sufficientemente inquietante da farmi preoccupare. Alla fine si voltò e seguì le sue padrone nell’edificio dell’Autorità Portuale.
Scivolai fuori dalla nicchia e percorsi il viale buio in cerca di un nascondiglio migliore.
Feci il giro dei condotti di manutenzione e dei corridoi di scarico fino a giungere in uno spazio commerciale vuoto non lontano dall’Autorità Portuale. Dopo un po’ di attento lavoro, riuscii a ottenere una visuale delle due telecamere all’interno degli uffici dell’Autorità Portuale. Già. Due. Era strano trovare degli umani che non controllassero costantemente tutto ciò che facevano tutti gli altri attraverso SecSystem, HubSystem o droni, affidandosi a supervisori umani. Una telecamera era piazzata nello snodo centrale, per tenere d’occhio il traffico portuale, l’altra in un centro direzionale improvvisato che fungeva da stazione di controllo – i due posti in cui, se qualcosa andava storto, era necessario saperlo subito; in altre parole, non c’erano telecamere nella mensa, né nei bagni, né negli alloggi privati. Era quasi come se a nessuno, lì, importasse ciò che gli altri facevano o dicevano fintantoché non cercavano di far saltare in aria la stazione o distruggere i trasportatori robotizzati (dopo migliaia di ore passate ad analizzare e cancellare video di umani che mangiavano, facevano sesso, si lavavano ed espellevano fluidi corporei in eccesso, era un sollievo; anche se, comunque, faceva strano).
Per fortuna, i membri della spedizione e il personale della stazione sembravano avere un rapporto piuttosto rilassato e, dalle loro conversazioni, fui in grado di intercettare quanto bastava da sapere che la prima perlustrazione sarebbe stata breve: appena dodici ore sulla piattaforma per una stima iniziale delle condizioni; sarebbero poi rientrati alla stazione per analizzare i risultati del sopralluogo e riposare prima di tornare sul posto. Mi sembrava perfetto. Dodici ore erano più che sufficienti per trovare ciò che mi serviva.
Seppi anche da quale molo sarebbe partita la navetta e il momento in cui avrebbero caricato le provviste. Non mi rimaneva che trovare un aiuto per salire a bordo. Con quella penuria di sistemi attivi da potermi lavorare, però, non avevo molta scelta.
Avrei dovuto fare amicizia con quello stupido robot da compagnia.
Ciao, Miki.
Quello rispose immediatamente. Ciao! Chi sei?
Avevo usato l’indirizzo che Miki aveva inviato nel ping per stabilire una connessione sicura. Abene e gli altri avevano finito la preparazione e si stavano riposando prima di partire alla volta della piattaforma di terraformazione. Avevo dunque circa tre ore per sedurre il robot. Non pensavo di metterci tanto.
Sono una consulente per la sicurezza, risposi a mia volta. La GoodNightLander Independent ha sottoscritto un contratto con la mia compagnia per accertarsi che la vostra squadra completi la missione in sicurezza. Il robot cercò d’inviare un messaggio ad Abene tramite il feed ma io lo bloccai. Non devi dire a nessuno che sono qui. Mi aspettavo che mi chiedesse come avessi fatto a prendere il controllo del suo feed, o come fossi arrivata sulla stazione. Pensavo di essere riuscita a prevedere la maggior parte delle sue domande e avevo già pronte le risposte da dare.
Perché no?, mi chiese. Io dico tutto a Don Abene. È mia amica.
A essere sincera, pensavo di aver esagerato quando l’avevo chiamato un robot da compagnia. Le cose sarebbero state ancor più fastidiose di quanto non avessi previsto, e avevo previsto un livello di fastidio piuttosto elevato, probabilmente intorno all’ottantacinque per cento. Ora avrei detto novanta, forse novantacinque per cento.
Riuscii a mascherare la mia reazione, escludendola dal feed. Non fu facile. Dev’essere un segreto, dissi. Per far sì che Don Abene e gli altri siano al sicuro. Non possiamo rischiare che qualcuno lo scopra.
Okay, disse quello. Non sapevo se fosse serio. Non poteva essere così facile. Forse mi stava solo dando corda finché non avesse avuto l’occasione di smascherarmi. Poi però aggiunse: Promettimi che Don Abene e tutti i miei amici saranno al sicuro.
Ebbi l’orribile sensazione che dicesse sul serio. Non mi ero aspettata un bot al livello di ART, ma cazzo… Che gli umani avessero impostato il suo codice affinché fosse infantile, o simile a un animale da compagnia? Oppure il suo codice si era sviluppato autonomamente, in risposta al modo in cui lo trattavano?
Esitai perché, anche se avrei preferito non veder morire (di nuovo) un gruppo di umani, non ero la loro SecUnit, e nemmeno la loro consulente per la sicurezza travestita da umana aumentata. È difficile tenere al sicuro gli umani quando non puoi permettere che ti vedano. Miki però era rimasto in attesa e io volevo che si fidasse di me, per cui dissi: Promesso.
Okay. Come ti chiami?
Mi colse di sorpresa. I robot non hanno nomi, così come non ne hanno le SecUnit (io mi ero data un nome, ma era una cosa molto personale). Usai il nome che avevo dato ad Ayres e agli altri – i miei poveri, sciocchi umani che si erano venduti a una compagnia e che si erano ormai probabilmente resi conto dell’errore che avevano commesso. Rin. Consulente per la sicurezza Rin.
Non è il tuo vero nome. Dal feed capivo che era genuinamente confuso. Non ti somiglia.
Era ovvio che dal feed riuscisse a percepire più cose di quel che avevo pensato. La mia solita fortuna. Non mi ero preparata a quella discussione e, poco ma sicuro, nel buffer non avevo niente che potesse essere anche solo lontanamente utile. Decisi di cedere alla sincerità (lo so, ero sorpresa anch’io) e dissi: Rin è il nome con cui voglio essere chiamata. Non dico a nessuno il mio vero nome.
Okay. Capisco, Rin. Non dirò a nessuno che sei qui. Sarò tuo amico e aiuterò Don Abene e la nostra squadra.
Certo (dissi quasi “okay”). Non riuscivo capire se quella fosse una risposta preimpostata oppure se Miki mi stesse facendo una promessa solenne. A ogni modo, poteva parlare di me agli umani oppure no, e, se avevo intenzione di procedere con il piano, dovevo pensare che non l’avrebbe fatto. Puoi darmi l’accesso al sistema della vostra navetta? Voglio accertarmi che sia sicura.
Okay. M’inviò i dati attraverso il feed.
Ciò che chiamavano navetta era in verità un veicolo di transito ed esplorazione spaziale locale, con due livelli di alloggi per l’equipaggio più una rampa di carico che era stata convertita in laboratorio biologico. Non disponeva di un propulsore in grado di farle attraversare un varco spazio-temporale ma poteva andare ovunque all’interno di quel sistema. Nessun pilota robotizzato, soltanto uno di quei piloti automatici piuttosto essenziali che ero più abituata a vedere sulle navette da atmosfera. Non sarebbe stato di grande aiuto, se chi doveva gestire le funzioni superiori della nave fosse stato ferito o incapacitato. D’altra parte, non essendoci nessun bot pilota da uccidere, non era soggetta a killware.
La navetta non aveva nemmeno un SecSystem indipendente. In alcuni video provenienti dall’esterno di Corporation Rim avevo visto che la sicurezza interna era considerata meno fondamentale, lì, che ci si concentrava più sulle potenziali minacce esterne che sul controllo della propria gente. Non pensavo fosse vero ma, in effetti, coincideva con la mancanza di interesse nel monitoraggio del personale della stazione all’interno degli alloggi privati. E anche con il modo in cui si erano comportati i miei clienti di PreservationAux. La cosa mi spinse a chiedermi come potesse essere Preservation, ma scansai quel pensiero. Con ogni probabilità era un posto noioso in cui la gente fissava le SecUnit, come tutti gli altri posti.
Miki mi aveva dato accesso completo, per cui mi feci un giretto nello storico dei viaggi precedenti. Era una bella navetta, molto più bella di qualsiasi cosa la compagnia avesse mai fornito; perfino la tappezzeria interna era pulita e riparata – un altro segnale dell’impegno della GoodNightLander Independent nei confronti del proprio progetto di recupero. Doveva essere arrivata lì all’interno di un modulo di trasporto nella pancia di una grande nave cargo, o al traino di una nave rifornimenti dedicata come Nave.
Avrei avuto bisogno di agganciarmi al feed interno di Miki così come ART aveva fatto con il mio, anche se, a differenza di ART, non ero in grado di farlo da una stazione a un pianeta. La buona notizia era che c’erano un sacco di posti in cui nascondersi a bordo della navetta, anche senza dovermi incastrare in un ripostiglio. La cattiva notizia era che non avrei avuto nessun sistema attraverso cui controllare la situazione; niente occhi, né orecchie, eccezion fatta per Miki.
Wow. Ero elettrizzata.
Miki, avrò bisogno di usare i tuoi sistemi per monitorare i tuoi… Per poco non dissi “clienti”; mi ci volle quasi un secondo intero per riuscire a pronunciare la parola che Miki voleva sentirsi dire. … I tuoi amici. Ho bisogno che tu funga da telecamera per me, e che mi permetta di usare il tuo scanner. A volte potrei aver bisogno di parlare attraverso di te, facendo finta di essere te, per mettere in guardia Don Abene e i tuoi amici da cose che ritengo essere pericolose. Me lo lasci fare?
Ovviamente, con il livello di accesso che mi aveva già concesso, avrei potuto impossessarmi di Miki, fare quel che volevo e poi cancellare tutto dalla sua memoria. L’avevo fatto con Nave, ma Nave era un bot di livello inferiore e non aveva abbastanza coscienza di sé da potersene risentire. Farlo con Miki era un altro paio di maniche… Ma non sapevo cosa avrei fatto se mi avesse detto di no.
Okay, disse Miki. Va bene, Consulente Rin. La cosa mi spaventa un poco ma voglio essere sicuro che nessuno faccia del male ai miei amici.
Sembrava perfino troppo facile. Sospettavo quasi una trappola. E se invece… Miki, hai ricevuto istruzione di rispondere affermativamente a ogni richiesta?
No, Consulente Rin, rispose Miki, aggiungendo poi: Simbolo divertito 376=sorriso.
Oppure Miki era un robot che non era mai stato maltrattato, a cui non avevano mai mentito e che non era mai stato trattato in altro modo se non con gentile indulgenza. Pensava davvero che i suoi umani fossero suoi amici, perché era così che lo trattavano.
Segnalai a Miki che mi sarei ritirata per un minuto. Avevo bisogno di dar sfogo a un’emozione in privato.