Capitolo Sedici

Quel giorno, per me, qualcosa cambiò, qualcosa che mi ero accorto essere già da un po’ in fase di mutamento. Fu come quando da bambino mi toglievo i pattini dopo averli usati per ore e sentivo i piedi insolitamente leggeri. O come quando andavo in campeggio con mio padre e Ryan, e finalmente potevamo mettere l’attrezzatura per terra dopo diverse ore di trekking, e mi sentivo così leggero che avrei giurato di poter fluttuare a qualche centimetro da terra.
Non sapevo definirlo meglio, ma era leggerezza e sospensione, e aveva a che fare con Lizzy. Riguardava l’aver condiviso con Poppy i ricordi della sua morte e le conseguenze di essa, e soprattutto riguardava la frase sussurrata da Poppy: “Lizzy è il motivo per cui hai paura di lasciarti andare con me?”
Mentre tenevo il rosario di Lizzy nel palmo della mano, mi resi conto che lei era la ragione di molte cose, il motivo di tutto. La sua morte era un peso che portavo sempre con me, un torto che dovevo riparare e, in qualche modo, vendicare. Ma se avessi cambiato atteggiamento? Se avessi potuto barattare la vendetta con l’amore? Dopotutto, era questo che veniva chiesto ai cristiani: scegliere l’amore sopra ogni altra cosa.
Amore. Quella parola era una bomba. Un ordigno inesploso che risiedeva nel mio petto.
Quella notte, mandai un messaggio a Poppy: Sei sveglia?
Un istante: Sì.
La mia richiesta fu immediata: Posso venire da te? Ho un regalo da darti.
Be’, stavo per dire di no, ma adesso che so che c’è un regalo… vieni dai.
Attraversai il parco con cautela e senza fare rumore, con indosso una maglietta scura e un paio di jeans. Era tardi e l’area verde si trovava in una vallata naturale, al riparo dalla vista; tuttavia ero nervoso mentre camminavo a passi svelti lungo il sentiero e mi facevo strada nel prato invaso dalle erbacce per arrivare al cancello di Poppy. Entrai, sussultando a ogni cigolio del chiavistello arrugginito, e, giunto davanti alla porta, bussai una volta con le nocche sul vetro.
Lei aprì e il viso le si illuminò di un sorriso tra i più belli che avessi mai visto.
«Wow» disse. «Sei qui. Come una persona vera.»
«Hai dubitato che fossi reale prima d’ora?»
Scosse la testa, si fece da parte per farmi entrare e chiuse la porta dietro di noi. «Non sono mai uscita con qualcuno che nella vita reale non posso frequentare. Mi ero quasi convinta che tu esistessi solo all’interno delle mura della chiesa.»
«Frequentare?» La mia voce suonò un po’ troppo entusiasta, eccitata. Mi schiarii la gola. «Voglio dire: stiamo uscendo insieme?»
«Non so come lo chiami tu quando scopi a sangue il culo di qualcuno, Padre Bell, ma io lo definisco così.»
All’improvviso, sentii un tonfo allo stomaco e mi avvicinai, le presi la mano e attirai Poppy verso di me, per poterla guardare negli occhi. «Ti fa male?» chiesi, preoccupato.
Sollevò lo sguardo verso di me. «Solo nel migliore dei sensi.» Si sporse per baciarmi la mascella e poi si spostò in cucina. «Vuoi qualcosa da bere? Fammi indovinare… un cosmo? No… un martini al melograno.»
«Oh. Whiskey, irlandese o scozzese, è lo stesso, ma liscio.»
Mi indicò la sala e andai lì, approfittandone per dare un’occhiata alla casa. C’erano soprattutto scatoloni e barattoli di vernice; benché l’arredamento fosse raffinato, e sulle pareti fossero appese foto e quadri, era evidente che a Poppy non interessassero molto le faccende domestiche.
Pile di libri erano accatastate contro il muro, in attesa di trovare il loro posto; feci scorrere le dita lungo il dorso, palesemente compiaciuto e segretamente invidioso di quanto fosse colta quella donna. C’erano i soliti noti, ovviamente, come Austen, Brontë e Wharton, ma anche nomi che non mi sarei aspettato: Joseph Campbell, David Hume e Michel Foucault. Sfogliavo Così parlò Zarathustra (una vecchia nemesi sia del mio Master in Teologia sia delle lezioni di storia) quando Poppy comparve con i drink.
Le nostre mani si sfiorarono quando presi il mio bicchiere di Macallan; poi lo posai assieme a quello di Poppy perché avevo voglia di baciarla. Desideravo far scorrere le dita su quel collo esile, prenderle il viso tra le mani ed esplorare la sua bocca, e avevo anche voglia di riportarla sul divano per farla sdraiare e sfilarle pian piano ogni strato di vestiti dal corpo.
Ma ero venuto per un motivo diverso, non per scoparla (be’, non solo per scoparla), quindi mi accontentai di un bacio e mi tirai indietro prendendo di nuovo i nostri drink. Mi sembrò un po’ stordita dal bacio, una specie di sorriso sognante le si dipinse sulle labbra mentre beveva un sorso del suo martini; poi mi disse che andava a prendere qualcosa da sgranocchiare.
Proseguii il mio accurato esame del salotto sentendomi rilassato e sereno.
Farò la cosa giusta.
Quello poteva essere un nuovo inizio per noi, per me. Qualcosa di ufficiale, che avrebbe segnato la nostra relazione, era così che funzionavano i riti, vero? Una cosa tangibile per segnare l’intangibile. Un regalo per dimostrare a Poppy cosa significasse per me, cosa volesse dire noi per me, per mostrarle la strana e al contempo divina trasformazione che stava avvenendo nella mia vita a causa sua.
La casa era piccola, ma ristrutturata di recente, con eleganti pavimenti in parquet, il grande caminetto originario, spazi ampi e linee pulite. C’era una bella scrivania accanto alla finestra, unica prova di una seria intenzione di voler disfare le valigie e fermarsi, con sopra un computer, una stampante, uno scanner, pile ordinate di cartelline e un piccolo contenitore in legno dall’aspetto costoso, pieno di penne.
Accanto alla scrivania, in uno scatolone aperto, c’erano i suoi diplomi incorniciati, sepolti tra vari articoli per ufficio, blocchetti di Post-it utilizzati a metà e buste varie.
Dartmouth, laurea in economia, 110 e lode.
Tuck School of Business presso la Dartmouth, MBA, 110 e lode.
E poi uno che non mi aspettavo, Università del Kansas, Laurea in Belle Arti, Danza. Risaliva alla primavera precedente.
Lo tenevo sollevato per leggerlo con attenzione, quando Poppy tornò con un tagliere pieno di formaggio e pere affettate.
«Hai preso un’altra laurea?»
Lei parve arrossire mentre sistemava con fin troppa cura il vassoio sul tavolino per tenersi occupata. «Avevo molto tempo libero quando mi sono trasferita a Kansas City, e una volta che ho iniziato a guadagnare un bel po’ di soldi al locale, ho pensato di farne buon uso. Questa volta, non avevo i miei genitori intorno a criticare la mia scelta, così mi sono buttata e basta. Sono riuscita a farcela in tre anni invece di quattro.»
Mi avvicinai a lei. «Ti va di ballare per me qualche volta?»
«Potrei farlo adesso» disse, premendo una mano contro il mio sterno e spingendomi sul divano.
Si mise a cavalcioni su di me e il mio uccello reagì subito, mostrando un certo interesse. Ma con la coscia schiacciò la tasca dei miei pantaloni e mi ricordai del motivo principale per cui ero lì.
La bloccai con un braccio intorno alla vita e la obbligai a rimanere ferma mentre estraevo dalla tasca il pacchettino avvolto nella carta velina.
Inclinò la testa mentre glielo passavo. «Questo è il mio regalo?» chiese, e sembrava felice.
«È…» Non sapevo come spiegarle di cosa si trattasse. «Non è nuovo» conclusi con una frase stupida.
Lo scartò e fissò la fila di perle di giada. Con calma tirò fuori il rosario, la croce d’argento roteava nella luce bassa. «È bellissimo» sussurrò.
«Tutti dovrebbero avere un bel rosario. Almeno, questo è quello che diceva sempre mia nonna.» Feci scivolare le mani all’esterno delle cosce di Poppy, spostando lo sguardo su di esse per evitare di fissare il rosario. «Era di Lizzy.»
Sentii il suo corpo irrigidirsi sul mio grembo.
«Tyler» disse con delicatezza. «Non posso accettarlo.»
Provò a restituirmelo, ma le afferrai la mano nella mia e strinsi le sue dita.
«Dopo la morte di Lizzy, nessuno voleva niente di suo che ricordasse cosa aveva subito in chiesa. La sua bibbia, le preghiere e le candele, mio padre buttò via tutto.» Trasalii al ricordo della sua furia incontrollata, quando mi aveva scoperto a tirar fuori il rosario dalla pattumiera. «Ma volevo qualcosa di suo. Volevo mantenere ogni parte di lei viva nella mia memoria.»
«Non lo vuoi più?»
«Certo, ma dopo che abbiamo parlato l’altra notte… ho capito che alcune cose devo imparare a lasciarle andare. E quando penso a lei… Be’, so che ti avrebbe adorata.» Incrociai il suo sguardo. «Ti avrebbe amata quanto ti amo io.»
Le labbra di Poppy si schiusero, gli occhi si spalancarono, ma prima che potesse rispondere a ciò che le avevo detto, liberai le sue dita e proseguii: «Lascia che ti insegni come si usa.»
Sì, ero un vigliacco. Avevo paura che lei confessasse di non amarmi e allo stesso tempo temevo che mi dicesse che mi amava davvero. Avevo paura del legame palpabile tra noi, e di scoprire che il nastro cucito tra le mie costole e intorno al mio cuore fosse allacciato anche intorno al suo.
Il suo sguardo non abbandonò mai il mio mentre le riprendevo la mano per spostarla dalla sua fronte al cuore e poi su ogni spalla. «Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo…» recitai. Poi portai le sue dita sul crocifisso. «Adesso recitiamo il Credo dell’Apostolo…»
Recitammo insieme tutto il rosario, con lei sulle mie ginocchia. Poppy ripeteva con voce debole dopo di me; le nostre dita si muovevano insieme tra le perline e fu più o meno verso l’ultima decina che divenni consapevole della mia eccitazione, e di come i suoi capezzoli puntavano duri contro la canotta morbida e ampia. Consapevole di quei grandi occhi color nocciola, dei lunghi capelli ondulati e dell’intelligenza vigile che emergeva da ogni sua espressione.
Questo è amore, pensai frastornato, meravigliato. Ecco cosa si prova a togliersi una croce dalle spalle. E iniziare una nuova vita… è come Poppy Danforth. E mentre intonavo le ultime parole del rosario, quasi dimenticai chi stessi pregando.
Ave Regina… nostra dolcezza e nostra speranza.
Più tardi, quella notte, mentre mi muovevo sopra e dentro di lei, quelle parole mi rimbalzarono in mente, inscindibili da Poppy, così rappresentative, in maniera indelebile, della sua mente brillante e del corpo paradisiaco.
Santa. Regina. Dolcezza.
Speranza.