Capitolo Ventuno

La notte autunnale avvolgeva l’auto mentre tornavamo a casa; tenevo lo sguardo fisso sul profilo di Poppy che, illuminato dalle luci del cruscotto, si stagliava contro la notte vellutata all’esterno.
Quello che era successo al locale… era stato sporco, liberatorio ed elettrizzante, anche se non ero in grado di spiegarne a me stesso il motivo preciso. La risposta era inaccessibile, risplendeva al di là di un velo che riuscivo solo sfiorare con i miei pensieri e, mentre uscivamo dalla città e ci addentravamo nella campagna, smisi di provarci e mi abbandonai ad ammirare la maestosità della mia Ester, la mia regina.
Volevo che diventasse mia moglie.
Voglio che sia la mia sposa.
Il pensiero mi colpì come una lama affilata, certo e vero, non più qualcosa che avevo percepito durante il sesso e nei momenti di comunione con Dio, ma qualcosa che provavo anche da sobrio e calmo. Amavo Poppy e volevo sposarla.
E poi il velo finalmente cadde e capii. Compresi quello che il Signore aveva cercato di dirmi negli ultimi due mesi. Mi resi conto del motivo per cui la Chiesa era chiamata la Sposa di Cristo, perché il Cantico dei Cantici era contenuto nella Bibbia e perché l’Apocalisse di Giovanni paragonava la salvezza del mondo a una festa di nozze.
Perché avevo pensato che la scelta fosse tra Poppy e il Signore? Non era mai stato così, non era mai stato o l’una o l’altro, perché Dio viveva nel sesso e nel matrimonio proprio come era presente nel celibato e nella messa, e una vita come marito e padre poteva essere altrettanto santa come una vita come prete. Aronne non era forse sposato? Re Davide? San Pietro? Perché mi ero convinto che un uomo potesse essere utile al Signore solo facendo parte del clero?
Poppy canticchiava insieme alla radio, un suono quasi impercettibile sopra al rombo sordo della Fiat in autostrada; chiusi gli occhi e la ascoltai mentre pregavo.
È questa la Tua volontà per me? Sto cedendo alla lussuria? O sto finalmente realizzando il Tuo piano per la mia vita?
La mente rimase tranquilla e il corpo immobile, mentre aspettavo di essere invaso dal senso di colpa o che una voce potente dal Paradiso mi dicesse che ero dannato. Ma sentii solo silenzio. Non il silenzio vuoto che avevo provato in precedenza, che mi spingeva a credere che Dio mi avesse abbandonato, ma una quiete pacifica, priva di colpa e di vergogna, la calma che si provava quando si era davvero con il Signore. Era la sensazione che avevo percepito davanti al tabernacolo, in chiesa con Poppy, sull’altare, dove finalmente l’avevo rivendicata come mia.
E, quando, più tardi, fummo nel suo letto, il mio viso tra le sue gambe, finalmente mi tornarono in mente i versi del capitolo 29 di Geremia, in risposta alle mie preghiere: “Prendete moglie e mettete al mondo figli e figlie… Io infatti conosco i progetti che ho fatto per voi, progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza.”
Non parlai a Poppy della mia epifania. Anzi, dopo averla fatta venire più volte, me ne andai per trascorrere la notte nel mio letto, poiché volevo dormire da solo con questa nuova consapevolezza, questa nuova certezza.
E quando la mattina seguente mi svegliai presto, per prepararmi per la messa, quella sicurezza era ancora lì e splendeva chiara e impalpabile nel mio petto, così presi la mia decisione.
Quella sarebbe stata l’ultima messa che avrei celebrato.

«Se la tua mano ti fa inciampare, tagliala; è meglio per te entrare nella vita mutilato che avere due mani e andare all’inferno… e se il tuo occhio ti fa inciampare, strappalo via, è meglio per te entrare nel Regno di Dio con un occhio solo che avere due occhi ed essere gettato all’inferno…» Guardai la mia congregazione in piedi davanti a me, la chiesa piena grazie a me, grazie a tre anni di continuo lavoro e fatiche. Abbassai lo sguardo sul leggio e proseguii con le letture del Vangelo di quel giorno: «Il sale è buono, ma se il sale perdesse sapore, con che cosa lo si potrebbe insaporire? Conservate il sale dentro voi stessi e vivete in pace l’uno con l’altro.» Presi un respiro profondo. «Parola di Dio.»
«Rendiamo grazie a Dio» i fedeli risposero e si sedettero.
Con la coda dell’occhio vidi Poppy seduta accanto all’uscita; indossava un vestito aderente, verde menta, con una cintura alta di cuoio. Il sole che passava attraverso le finestre la incorniciava alla perfezione, come se il Signore volesse ricordarmi la decisione che avevo preso e perché lo facevo.
Mi concessi di guardare ancora un attimo il mio Agnellino in quel fascio di luce brillante, poi mi piegai in avanti per baciare il testo che avevo appena letto, mormorai sommessamente la preghiera che dovevo recitare a quel punto e, infine, stetti un altro momento in silenzio per chiedere coraggio.
Chiusi con delicatezza il libro, portando in vista il telefono con gli appunti sull’omelia. A fatica, pochi giorni prima, avevo scritto il genere di predica che ci si aspettava con quella lettura: sulla natura del sacrificio per evitare il peccato, sull’importanza dell’abnegazione e della disciplina, su come rimanere santi per compiere l’opera del Signore.
L’ipocrisia mi aveva perseguitato mentre scrivevo ogni parola, l’ipocrisia e la vergogna, ma in quel momento, mentre fissavo gli appunti, riuscivo a malapena a ricordare l’agonia dell’uomo che ero stato, diviso tra due scelte che, in ultima analisi, erano false. La strada da seguire ormai era chiara: dovevo solo fare il primo passo.
Girai il telefono in modo che lo schermo fosse rivolto verso il basso e alzai gli occhi sui fedeli, persone che si fidavano di me, a cui importava di me, coloro che costituivano il corpo vivente di Cristo.
«Ho trascorso la settimana a scrivere un’omelia su questo passaggio. E poi, quando mi sono svegliato questa mattina, ho deciso di buttare tutto nella spazzatura.» Feci una pausa. «Parlo metaforicamente, visto che l’avevo appuntata sul telefono e nemmeno io sono abbastanza santo da rinunciare al mio iPhone.»
Le persone ridacchiarono e il suono mi riempì di coraggio.
«Questo passaggio, l’ultima dichiarazione di Gesù sulla necessità di abbandonare le tentazioni per non perdere la nostra occasione di salvezza, è stato usato spesso dai membri del clero come base per la condanna. E la mia omelia precedente non era tanto lontana da questa idea. L’abnegazione e la costante rinuncia alla tentazione sono il percorso verso il Paradiso, la nostra via per raggiungere quel cancello piccolo e stretto.»
Guardai le mie mani appoggiate sul leggio, il libro davanti a me.
«Ma poi mi sono reso conto del pericolo insito in quel tipo di omelia: dopo la mia predica, oggi, sareste usciti da questo edificio con un’immagine distorta di Dio, un Dio piccolo e limitato, proprio come quel cancello. Ho capito che vi avrei trasmesso un’idea errata, parziale, in base alla quale avreste potuto convincervi che, se sbagliate una volta, se commettete uno scivolone e vi comportate come gli imperfetti uomini che siete, quel Dio non vi vorrà più.»
I parrocchiani rimasero in silenzio. Stavo uscendo dal normale tracciato cattolico e loro se ne erano accorti, ma non avevo paura. Al contrario, mi sentivo più in pace di quanto fossi mai stato durante l’omelia.
«Il Gesù del Vangelo di Marco è uno strano Dio. È sintetico, enigmatico, imperscrutabile. I suoi insegnamenti sono rigidi e inesorabilmente esigenti. Ci mostra cose che consideriamo miracolose o folli: parla in altre lingue, maneggia serpenti, beve veleni. E, tuttavia, è anche lo stesso Dio che incontriamo in Matteo 22, il quale ci racconta che i più grandi comandamenti, le uniche regole che dobbiamo rispettare, sono amare Dio con tutto il nostro cuore, la nostra anima e la nostra mente, e amare il prossimo come noi stessi. Allora, quale Gesù ha ragione? Quale parte del Vangelo dovremmo tener presente quando affrontiamo una sfida e un cambiamento? Ci dobbiamo concentrare sull’estirpare tutti i mali, o ci dedichiamo a coltivare l’amore?»
Mi spostai da dietro il leggio, perché avevo bisogno di muovermi mentre parlavo, mentre pensavo a cosa volessi dire.
«Credo che la risposta sia di seguire la chiamata di Marco a vivere in maniera retta, ma a condizione di definire noi stessi quale sia il giusto cammino per ciascuno di noi. Com’è una vita giusta? È una vita in cui ami Dio e ami il tuo prossimo. Gesù ci insegna come amare, nel Vangelo di San Giovanni: “Non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici.” Gesù ci ha mostrato quell’amore quando ha dato la Sua vita. Per noi tutti.»
Alzai lo sguardo, incontrai gli occhi di Poppy e non riuscii a trattenere il sorriso che si disegnò spontaneo sulle mie labbra. Era così bella, anche in quel momento, in cui corrugava la fronte e si mordeva il labbro preoccupata.
«Dio è più grande dei nostri peccati. Dio ci ama per ciò che siamo, barcollanti, peccatori, confusi. Egli ci chiede solo amore, amore per Lui, amore per gli altri e amore per noi stessi. Non ci chiede di vivere come asceti, privi di qualsiasi piacere o gioia, ma di donare a Lui le nostre vite così che Lui possa aumentare la nostra gioia e accrescere il nostro amore.»
Osservai i loro visi volti verso l’alto, cercai di interpretarne le espressioni, che passavano da pensierose a ispirate a piuttosto dubbiose.
Andava bene così, avevo modellato quel sermone per loro. Quel pomeriggio avrei chiamato il vescovo Bove e pianificato la mia vita. Avrei rinunciato al clero. E poi sarei andato a cercare Poppy per chiederle di sposarmi. Avrei vissuto una vita ricca d’amore, proprio com’era il volere di Dio.
«Agire in questo modo non è facile per noi cattolici. In un certo senso, è più facile soffermarsi sul peccato e sul senso di colpa piuttosto che sull’amore e sul perdono, soprattutto sull’amare e perdonare noi stessi. Ma questo è ciò che ci è stato promesso e, per quanto mi riguarda, non rifiuterò la promessa di Dio di una vita completa, piena d’amore. E voi?»
Feci un passo indietro e sospirai di sollievo.
Ero riuscito a dire quello che sentivo il bisogno di esprimere.
Era tempo di lasciar andare la mia vecchia vita.