Capitolo 13

L’estate procedeva bella, calda e con lunghe giornate luminose, eppure per Arthur ogni mattina era come l’inizio di un giorno d’autunno buio e un po’ freddo, in cui il piumino assumeva magici poteri di persuasione e il cuscino era il miglior amico del mondo. I genitori avevano mormorato qualcosa a proposito dei profondi cambiamenti nel corpo degli adolescenti, e Arthur avrebbe voluto che fosse proprio quello a dargli tanta stanchezza e malessere. Ma nel suo corpo c’era qualcosa che non andava. Ogni mattina si svegliava annebbiato, a volte quasi con allucinazioni, come se il confine tra sogno e realtà fosse sul punto di dissolversi. Il mal di testa arrivava a ricordargli in continuazione quanto male dormisse. Andare a letto la sera era diventato un tormento. Il sonno non era più una fuga dalla stanchezza, ma una via per entrarci. Forse il suo corpo non era fatto per diventare adulto? E se non ce l’avesse fatta fisicamente?

Non mancava molto all’inizio delle vacanze estive. La scuola in realtà le aveva già cominciate ufficiosamente: tutti i compiti in classe importanti erano stati svolti, e perfino gli insegnanti avevano cambiato stile, anche se alcuni di loro ancora tentavano di mantenere un qualche grado di disciplina. Il giorno successivo sarebbero andati ancora in gita, stavolta nel bosco con il prof di scienze naturali. Arthur aprì gli occhi e fissò il soffitto. Erano appena passate le dieci, ma lui era a letto già da mezz’ora. Si girò su un fianco, chiuse gli occhi e tirò su le ginocchia. Sentì che i genitori discutevano di qualcosa giù in salotto, ma le voci erano troppo lontane.

La pioggia stendeva un tappeto di tamburi sulla giungla, interrotto solo da qualche grido d’uccello. Arthur si voltò a guardare l’albero. Era più possente che mai. Appoggiò la mano sul tronco, un tronco che aveva visto accadere molte più cose di lui. Anche se tutti i bambini del villaggio si fossero tenuti per mano, non era certo che sarebbero riusciti a circondarlo. Arthur era seduto sulla cima, e lasciava vagare lo sguardo sul tranquillo mare di foglie che si allargava in tutte le direzioni fin dove poteva spingersi la vista. Il vento giocava a incidere disegni su quell’infinito tappeto verde. In lontananza si ergevano le montagne: lance bianche che segnavano la fine del mondo. Al di là c’era il mondo degli dei, dove ai mortali non era permesso entrare. Ricordava l’antica fede, sapendo al tempo stesso che si trattava di superstizione.

Sentì dei colpi contro il tronco dell’albero, che assunsero la stessa cadenza dei battiti del suo cuore. Si udì a malapena attraverso il vento un flauto che suonava. Il suono smorzato giungeva in riprese lunghe e sommesse. Nel suono si indovinava una melodia, ma la successione delle note era troppo lenta per riconoscerla. Infine Arthur la ricordò. Era una vecchia canzone per bambini. Le parole gli ritornarono in mente, una a una.

 

Io son qui e tu sei lì, ma che triste lontananza

incontrarci noi possiamo e colmare la distanza.

Vola in cielo, spicca il salto, col pensiero vola in alto

di’ il tuo nome e pensa a me, sarò io a protegger te.

 

Arthur se la ricordava in diverse lingue, addirittura in ogni singolo idioma che conosceva. Dove aveva imparato quella canzone? Si appoggiò all’indietro e canticchiò tra sé e sé. A ogni parola il flauto aumentava di intensità, come se potesse udirlo suonare. Arthur aprì gli occhi e si guardò attorno. La foresta era sparita, e avrebbe potuto giurare di essersi appena svegliato da un sogno. I ricordi c’erano tutti ma erano annebbiati, come dopo essere stati strappati al sonno, ma in quel momento lui non era nel suo letto.

Davanti ai suoi occhi c’era un’enorme pianura che si stendeva piatta in tutte le direzioni. Il cielo era azzurro e quasi ricoperto da piccole nuvole. Qualcosa lo turbava. C’era troppo silenzio. Un silenzio innaturale, come se il paesaggio fosse isolato dal suono. Arthur non aveva dimenticato la canzone, si ricordava che esisteva in tutte le lingue di sua conoscenza. Ogni piccolo dettaglio del sogno era insolitamente nitido, e al tempo stesso tutto era fuori posto. Non poteva essere sveglio, ma era più sveglio che mai. Quel luogo era reale, ma anche del tutto assurdo. Scosse la testa: a sognare sapendo di sognare, ci era abituato. Ma quella era una sensazione del tutto diversa. Si pizzicò il braccio nell’infantile tentativo di svegliarsi, ma invano. Cosa stava succedendo?

La canzone gli si insinuò di nuovo nella testa. Doveva per forza significare qualcosa. Arthur ne ripercorse il testo, parola per parola. Qualcuno voleva incontrarlo, questo perlomeno era ovvio.

Vola in cielo, spicca il salto.

Arthur fece un balzo verso l’alto e cercò di volare. Non accadde nulla, se non che quasi arrossì del proprio tentativo.

Col pensiero vola in alto.

Significava che doveva pensare di volare? Arthur sedette sulla terra arida, chiuse gli occhi e cercò di sollevare il corpo. Stava quasi per rinunciare, quando il corpo perse qualunque peso e gli sembrò di essere sul punto di cadere. Aprì gli occhi, ed eccolo seduto compostamente a terra. Arthur conosceva bene l’effetto di trance e autosuggestione, e come fossero nati i miti sui monaci tibetani e la levitazione. In quel momento però lui non era in trance. Provò ancora una volta, e di nuovo quella strana sensazione di completa leggerezza. Strinse più forte gli occhi.

Di’ il tuo nome e pensa a me.

Pensa a me? Chi era quel ‘me’? E qual era il suo vero nome? Ora si chiamava Arthur, ma aveva scelto il nome di Eshu la prima volta che aveva fatto il suo ingresso nel Network. Alcuni Bambini si identificavano solo con il nome che si erano scelti da soli, ma lui non la pensava in quel modo. Entrambi i nomi erano lui in quel momento, ma non poteva dirli contemporaneamente.

Ne provò uno alla volta.

La sua voce non si udì. Arthur gridò, ma sentì a malapena se stesso, come se l’aria intorno a lui proteggesse quel silenzio innaturale. Provò a gridare ancora una volta. Pensò a persone che conosceva, cominciando con tutti i Bambini che riusciva a ricordarsi e continuando con le famiglie. Pian piano, nella sua testa si affollarono immagini di persone a cui non aveva pensato da lungo tempo. Alcune di quelle persone gli provocarono ricordi spiacevoli e dolorosi, ma più di tutto gioia.

Un soffio di vento lo accarezzò sul viso e lo spinse quasi ad aprire gli occhi. Il vento aumentò di forza, e all’improvviso giunsero nuovi suoni. Cominciò con un sussurro, centinaia di voci diverse parlavano tutte insieme. Arthur cercò di ascoltarne una per sentire cosa diceva, ma ogni volta una nuova voce si intrometteva e rendeva impossibile capire. Le parole si fecero più forti, eppure Arthur non riuscì ad afferrarle. C’erano al tempo stesso troppe voci che dicevano troppo. Stava per aprire gli occhi, quando tutte le voci si fecero chiare e vicinissime. Respiri gli sfiorarono l’orecchio, la nuca e la gola, e tutto il corpo ebbe un sussulto di sorpresa.

Arthur fissò il suolo sotto di sé.

La sensazione di essere senza peso sparì, e subito ebbe inizio la caduta. Arthur non sapeva perché lo sapesse, ma quello non era un normale sogno. Se si fosse schiantato a terra, sarebbe morto. Chiuse gli occhi e cercò ancora di fluttuare, ma era impossibile. Tese il corpo e allargò braccia e gambe, distese ogni singolo dito delle mani e dei piedi. Il vento lo frustava e lo strattonava con braccia invisibili che volevano rovesciarlo, fuori controllo, ma Arthur tenne a bada la paura canticchiando la canzone. Fece un mezzo salto mortale in aria e si guardò intorno, poi rivolse di nuovo il corpo verso la Terra. Niente poteva salvarlo. Il suolo era un ragno che lo voleva intrappolare nella sua rete. Arthur espirò e chiuse gli occhi.

Tutte le voci si fecero limpide come il cristallo. Udì lingue che da tempo aveva dimenticato. Ogni voce parlava il proprio idioma, ma tutte dicevano la stessa cosa. Una parola gli risuonò nella testa: Guardiano.