Capitolo 21

Arthur era stato in ospedale quattro giorni. I sintomi erano un piccolo mistero per i dottori, che intuivano la sgradita presenza di un qualcosa, ma gli esami effettuati non mostravano nulla di particolare. Ora Arthur si sentiva abbastanza bene e non era preoccupato. Il Guardiano gli aveva proibito di comunicare con le proprie forze.

A casa da una mezza giornata, avrebbe avuto ampiamente occasione di contattare Raven, ma ancora non l’aveva fatto. Probabilmente lei pensava che Bian Shen si fosse verificato. Cosa doveva dirle? La verità? Non aveva idea se esistesse una qualche verità. Ma aveva bisogno di parlare con qualcuno, qualcuno che lo conosceva, così alla fine si decise a chiamarla.

«Pronto?» la voce di Raven.

«Ciao, sono io».

«Era ora. Si può sapere cos’hai fatto negli ultimi giorni?»

«Sono stato in ospedale. Son tornato a casa oggi».

«Come mai?»

Perché il mondo era stato capovolto da bizzarre creature.

«Sono stato ammalato».

«Per ammalato intendi investito da una macchina, o ti sei rotto una gamba?»

«No, malato. Disidratato, se vogliamo essere precisi».

«E perché?»

«Non lo sanno. L’esito di tutti gli esami è più o meno normale».

«E tutto è come al solito?»

C’era qualcosa nella sua voce che per un attimo lo stupì. «Vuoi dire tranne l’ovvia constatazione che da un momento all’altro posso ammalarmi?»

«Bah, non è più strano del fatto che in effetti tu ora hai quattordici anni. Ma stai meglio adesso?»

«Sì».

«Be’, non ci aspettavamo che tu morissi o qualcosa del genere. Niente scommesse o simili».

«Ah, ah... e quanto hai vinto?»

«Non tanto, ma qualcuno mi deve un favore o due».

La sua risata era irritante.

«Sempre buono a sapersi che posso fidarmi del tuo ottimismo sul mio conto». La frase suonò molto più dura di quanto fosse nelle sue intenzioni.

«Già, vero? Ma cosa posso fare per te? O hai qualcosa di importante da dirmi?»

«No. Nient’altro se non che sono ancora vivo. Pensavo che magari vi sareste preoccupati dopo quattro giorni senza mie notizie».

«Non sono neppure la tua baby-sitter. Ormai sei davvero diventato grande».

Arthur avrebbe voluto che quella fosse una videotelefonata, così che avrebbe potuto vederla. C’era qualcosa di strano nel comportamento di Raven.

«Molto divertente. Come mai sei così allegra?»

«E tu come mai sei così depresso? Sei tu che stai crescendo».

«Resta da vedere. C’è qualcosa che dovrei sapere, già che ci siamo?»

«Forse. Qualcuno di noi vuole andare a Parigi. Non avresti la possibilità di venire anche tu?»

Arthur non seppe cosa dire. Non era stato più a Parigi da quella volta. Ma chi era che voleva andare alla Biblioteca, e perché volevano che ci andasse anche lui?

«Eh già, perché è facile per me fare una gitarella di un giorno a Parigi. Perché ci volete andare?»

«Non posso dirti il perché, ma è importante che tu ci sia. All’aspetto pratico della cosa ci penso io».

Arthur si chiese che cosa volesse Raven. Non era possibile che sapesse qualcosa di ciò che gli era capitato, del suo incontro col Guardiano. Allora cos’era? E perché proprio lui?

Parlarono insieme per quasi un’ora. Tutto il tempo Arthur aveva in mente Paolo e i suoi piani, e più di una volta fu sul punto di raccontare a Raven quello che sapeva, ma non ci riuscì. Raven gli fece un riassunto delle ultime discussioni che si erano tenute nel Network, ma niente di interessante.

Niente che potesse essere messo in relazione a ciò che aveva appreso dal Guardiano. Raven non lo disse con chiarezza, ma Arthur capì che il Consiglio era in subbuglio perché lui ancora non era trasmutato. Non si sarebbe sorpreso che avessero dei piani pronti già da molto prima di sapere che lui poteva diventare adulto. In realtà ormai c’era ben poco in grado di sorprenderlo. Ma c’erano molte cose che lo annoiavano.

Le vacanze estive procedevano come al solito. Arthur era contento di avere tempo di fare quello che gli pareva, ma a volte il troppo tempo libero era un problema. Dopo il ricovero in ospedale aveva a malapena incontrato qualcun altro al di fuori della famiglia, e sfruttava quella scusa il più possibile.

Di regola era fuori casa solo quando andava a correre, come in quel momento. Scelse un percorso lungo il quale era poco probabile incontrare conoscenti: in quel periodo riusciva a rilassarsi del tutto unicamente quando era da solo. Per brevi attimi si perdeva nei sogni e si immaginava come sarebbe stato vivere da adulto. C’era qualcosa di assurdo in tutto ciò, perché sullo sfondo c’erano sempre i ricordi. Non era possibile sottrarsi all’incarico conferitogli dal Guardiano, un incarico per cui Arthur non si sentiva pronto. Faceva gli esercizi che il Guardiano gli aveva assegnato per tenere a distanza i ricordi, e l’allenamento si faceva sempre più intensivo. Lentamente guadagnava un controllo sempre maggiore, ma era spesso stanco, irritabile e impaziente. Perfino Emilie se ne accorgeva. Arthur si sentiva in colpa, e questo non migliorava la situazione. Gli sembrava che niente fosse come doveva essere.

Era proprio grazie alla mancanza di controllo che Arthur si era sempre permesso di affezionarsi alle sue famiglie. Ogni vita era di breve durata, ma lui non aveva la possibilità di cambiare quel fatto. Il pensiero di abbandonare la famiglia di sua volontà era molto più difficile di quanto avesse pensato.

Adesso aveva le pulsazioni al massimo. Era tutto bagnato di sudore e quasi svuotato di ogni forza, ma non aveva intenzione di arrendersi prima di essere arrivato sullo spiazzo antistante alla casa. Se non si prefiggeva chiari obiettivi, non si sforzava abbastanza.

C’era una macchina sconosciuta fuori dal garage. Vernice nera metallizzata, Lexus, nuova fiammante. I suoi genitori avevano visite.

Arthur si fermò di fianco alla macchina, si accoccolò sulle ginocchia piegate e recuperò il fiato. Poi andò verso l’ingresso e aprì il rubinetto della pompa da giardino. Non valeva la pena rischiare di disidratarsi di nuovo. Fiotti d’acqua gli si riversarono in parti uguali in bocca e sul corpo. Si sfilò la maglietta, la strizzò, si asciugò alla meglio ed entrò in casa. Accanto alla porta c’erano un paio di eleganti scarpe di pelle nera. Arthur si deterse il sudore dalla fronte con la maglietta, gettò quest’ultima nella lavanderia e si avviò verso la cucina. Lanciò uno sguardo in salotto: i genitori erano seduti sul divano e leggevano una pila di fogli. Su una sedia era seduto un uomo, che indossava un completo scuro dall’aria troppo pesante.

L’uomo si accorse di Arthur, si alzò e gli fece cenno di avvicinarsi. «Arthur, presumo».

I genitori guardarono il figlio ciascuno con un’espressione diversa: la madre come se lui ne avesse combinata una, il padre semplicemente sorpreso. Arthur si asciugò la mano sui calzoncini e la tese all’uomo. Lo sconosciuto gliela strinse forte, come fa solo chi ci mette intenzione.

«Einar Wilhelmsen. Piacere».

«Salve» replicò Arthur a bassa voce.

«E così fai jogging con questo caldo? Complimenti». Gli lasciò la mano e si risedette sulla sedia.

«Io rappresento il gruppo Children’s Initiative in Norvegia». E fece una pausa, come se ciò avesse un significato speciale.

Arthur guardò i suoi genitori, e i suoi genitori guardarono lui.

«Okay?» Gli venne un brutto sospetto.

«Come ho spiegato ai tuoi genitori, e come tu già sai, la Children’s Initiative è un’organizzazione che lavora per i bambini di tutto il mondo, con la particolare intenzione di aiutarli a far sentire la propria voce».

Arthur fece un cauto cenno di assenso.

«Forse hai capito perché mi trovo qui adesso?» L’avvocato guardò la madre di Arthur e sorrise orgoglioso.

Arthur avvertì una preoccupazione crescente. Imprecò dentro di sé e fece un sorriso teso alla madre. Decise di non dire niente. Quella era opera di Raven. Avrebbe avuto occasione di dirgliene quattro più tardi.

«Sei mesi fa hai partecipato a un concorso per ragazzi fra i dodici e i quindici anni, e hai inviato un tema. Be’, per farla breve il tuo tema è stato notato, e ho il piacere di invitarti a una conferenza che l’organizzazione tiene a Parigi. Tutte le spese saranno coperte, e in aggiunta riceverai una piccola somma che potrai utilizzare durante il viaggio. Desideriamo che le famiglie non debbano sostenere alcuna spesa».

Passò troppo tempo perché uno scoppio di gioia potesse sembrare naturale, ma neppure la nonchalance era una buona reazione. In ogni caso, fintantoché lui non diceva niente, avrebbe parlato qualcun altro. L’avvocato perlomeno non sarebbe stato zitto.

«Ho appena spiegato ai tuoi genitori che devono darti il permesso di partire, ma che durante il viaggio sarai assolutamente al sicuro. Come ho detto, tutte le spese saranno coperte, e avrai un compagno di viaggio».

«Un compagno di viaggio?!» esclamò Arthur.

L’avvocato annuì. «Uno dei direttori ti accompagnerà dalla Norvegia».

Il primo pensiero di Arthur fu in una lingua che nessuno avrebbe capito, e poi sarebbe certo stato improprio, così si limitò a un sorriso confuso. Raven non avrebbe potuto almeno discuterne con lui, prima che le saltasse in mente di sorprendere i suoi genitori a quel modo?

E che cosa diamine significava quella storia dell’accompagnatore?

Lo stavano guardando tutti.

Il contrasto tra l’entusiasmo dell’avvocato e lo scetticismo della madre sarebbe stato perfetto per un film muto. Per fortuna, non sembrava che il padre condividesse l’atteggiamento di sua moglie.

Arthur aveva deciso di non dire ancora niente. Se cercava di insistere per averla vinta, la madre avrebbe potuto opporsi.

Vide che lei desiderava dire qualcosa. «Arthur, avresti potuto chiedercelo prima di partecipare a un concorso di questo tipo».

Arthur guardò il pavimento, poi la parete, poi si toccò la testa. «Non mi aspettavo certo di vincere».

Il padre ridacchiò improvvisamente per qualcosa che aveva letto, e lanciò un’occhiata di sottecchi alla moglie, che ricambiò invece con uno sguardo alquanto duro. Il padre cercò di assumere un’espressione seria, ma non ci riuscì.

Puntò invece sull’avvocato. «Quanto tempo dura questa conferenza?»

«È divisa in due parti, ciascuna delle quali dura due settimane» rispose l’avvocato.

«Un mese?!» proruppe la madre. «Non se ne parla nemmeno».

L’avvocato sorrise tranquillo ed equilibrato. «La conferenza dura un mese, ma Arthur è invitato a partecipare solo alla prima parte».

La madre guardò il padre, e di colpo si fece insicura. Arthur applaudì l’avvocato dentro di sé.

«Certo che è un programma molto nutrito» disse il padre.

«Sì, è abbastanza unico nel suo genere. Non è una chance che si presenta spesso nella vita». L’avvocato si chinò in avanti con i gomiti sulle ginocchia giungendo i polpastrelli, e guardò la madre. «Mi rendo conto che siete preoccupati per Arthur, ma ho parlato con il suo accompagnatore, e posso garantire che vostro figlio sarà in ottime mani. È ovvio che ha un talento a cui si deve dare l’opportunità di svilupparsi. D’altro canto, capisco bene che questa è una cosa a cui dovete pensare e di cui dovete discutere tra voi. Non ho bisogno di una risposta nei prossimi giorni, ma devo sottolineare che questa è un’occasione unica per Arthur».

Arthur sapeva di cosa era preoccupata la madre. Se non fosse stato male di recente, tutto sarebbe filato molto più liscio.

«C’è del materiale che posso leggere?» chiese Arthur.

«Certo, è qui, assieme alla copia del tuo tema».

Arthur lanciò una rapida occhiata alla prima pagina e lesse il titolo. Poté quasi avvertire il sangue affluirgli alle guance: Sui bambini e la sessualità in una prospettiva storica. Cominciò a scorrere veloce le righe: era ben scritto, serio ma con passaggi umoristici, ma più di tutto Arthur era ammirato dal modo in cui Raven era riuscita a imitare il suo stile. La mamma non poteva aver letto molto, perché c’erano cose che l’avrebbero fatta sentire in imbarazzo. Raven aveva pescato liberamente dal contenuto delle lettere che si erano scambiati.

L’avvocato si schiarì discretamente la voce. «È un testo incredibilmente maturo, e non solo: è anche audace. Io, personalmente, non ho nessun problema a immaginare un grande futuro per te, se questo è un talento che desideri coltivare. Ma come ho detto, leggete il materiale informativo, e io vi contatterò di nuovo tra qualche giorno. Chiaro che potete telefonarmi in qualsiasi momento: il mio biglietto da visita è insieme al materiale».

Nessuno sentì il bisogno di aggiungere nulla. I genitori accompagnarono l’avvocato fuori di casa e lo ringraziarono di essere venuto. Arthur andò in cucina e lasciò scorrere l’acqua dal rubinetto mentre si prendeva un grande bicchiere. Guardò il dépliant che reclamizzava la conferenza. Raven aveva fatto un lavoro minuzioso: c’era perfino il nome dell’accompagnatore, e anche un numero che i genitori potevano chiamare in caso avessero delle domande.

I suoi entrarono in cucina e sedettero al tavolo.

«Hai già scritto cose simili in passato?» domandò il padre, tra lo scettico e l’ammirato.

Arthur si strinse nelle spalle.

«Dipende da cosa intendi. Forse».

«Ma non ci hai mai mostrato niente del genere, giusto?»

«No». Arthur strascicò la sillaba come se stesse pensando a qualcos’altro mentre rispondeva. L’acqua aveva raggiunto il massimo del freddo. Riempì il bicchiere a metà, bevve tutto d’un fiato e lo riempì di nuovo. «Mi lasciate partire?»

«Dobbiamo pensarci» rispose il padre alla fine.

Parigi. Arthur non c’era preparato. Erano passati quasi settant’anni dall’ultima volta che c’era stato. Da allora erano cambiate molte cose, ma alcune sarebbero state ancora le stesse. Aveva la sensazione che tutto ciò che gli accadeva fosse fuori dal suo controllo, ma al tempo stesso era lui a esserne al centro. Dietro al viaggio a Parigi c’era Raven, ma evidentemente con gli auspici del Consiglio. E che cosa mai ci stava a fare l’accompagnatore? Non lo avrebbe sorpreso che quel Nathaniel Wilkins fosse solo una delle invenzioni di Raven.