Capitolo 30

L’aria gli accarezzava fresca il braccio sul finestrino abbassato. Le dita della mano destra appoggiata sul volante tamburellavano a ritmo di musica. Il sole era basso sull’orizzonte e mandava raggi abbaglianti contro cui gli occhiali scuri servivano a poco. Ancora una macchina, una BMW nera, li superò nella corsia di fianco, sfrecciando a una velocità che loro potevano solo sognare. Nathaniel la seguì invidioso con gli occhi.

Ci avevano messo un giorno intero a procurarsi una macchina. Un arnese con pochi cavalli di potenza, un colore che con un po’ di buona volontà si poteva definire rosso, e un nome che Nathaniel aveva problemi a pronunciare. Di spazio, invece, ne aveva abbastanza. C’era voluta un’altra giornata per radunare tutta l’attrezzatura, e non si erano curati dei suggerimenti estremi di Raven. Arthur non voleva portare con sé armi da fuoco, ma si erano procurati dei coltelli del genere non adatto a una cucina.

Ma Nathaniel non era convinto delle priorità di Arthur: un’arma era un’arma, no?

Arthur era seduto con il computer sulle ginocchia e guardava una carta geografica. Con l’aiuto del nuovo programma creato da Nathaniel erano riusciti a ridurre il raggio della ricerca a un chilometro e mezzo. Paolo non era più nel Galles, ma si era trasferito sulla costa occidentale degli USA.

La nasale voce femminile con l’accento di Oxford del navigatore li pregò di uscire dall’autostrada di lì a due chilometri, prima che la ventosa del GPS decidesse di lasciare la presa sul parabrezza e piombare tra i piedi di Arthur.

«Perfino al GPS non piace questa macchina» constatò Nathaniel.

Arthur lo tirò su per il cavo, asciugò la ventosa e la collocò di nuovo al suo posto. «Se avessi scelto tu, avremmo finito col prendere un Humvee o qualcosa di equivalente. Uno giallo, per sicurezza».

«Certo, con la roulotte».

Il computer emise un lungo pigolio per segnalare che la batteria stava finendo.

Arthur lo spense e collegò l’adattatore all’accendisigaro, chiedendosi tra sé e sé come mai non ci avesse pensato subito. «Non è possibile migliorare quell’algoritmo? Sette chilometri quadrati non è esattamente un’area ristretta, quando ci sono sopra delle case».

«Non che io sappia. È matematica abbastanza standard. Certo, è possibile che a qualcuno sia venuta un’idea molto brillante, ma noi non abbiamo la migliore delle banche dati».

Arthur guardò assente fuori dal finestrino.

«E il Guardiano?» chiese Nathaniel. «Un’intelligenza artificiale come lui potrebbe pure darci qualche dritta».

«Lui non è utile. Non sa niente. Non sa far altro che pescare fuori un ricordo dopo l’altro».

«Ma non è logico pensare che chi vi ha creati abbia previsto l’eventuale necessità di localizzarvi?»

Arthur sbuffò. «Forse la loro religione glielo impedisce».

Nathaniel raddrizzò la schiena. «La loro religione?»

«Lascia perdere. In realtà non è una religione».

«Che cosa non è una religione?»

Arthur trovò una lattina di coca-cola e l’aprì con precauzione. «Ne vuoi una anche tu?»

Nathaniel tese la mano. «Dammi quella che hai lì, e spiegami cosa intendevi dire con religione».

«È qualcosa che ha detto il Guardiano. Il motivo per cui per i creatori è così importante far sviluppare altre forme di vita».

«Non mi hai scritto che era perché desideravano dei compagni di gioco, o roba simile? ‘Creature solitarie nell’universo’ credo che li abbia chiamati Raven».

Arthur annuì. «Sì, ma il Guardiano dice che c’è dell’altro. Ha scelto di chiamarlo ‘religione’ in mancanza di altre parole».

«Cosa intendi per religione? Non venirmi a dire che vogliono salvare l’universo».

«Proprio così, sono missionari intergalattici. No, chiaro che è una faccenda un po’ più complessa».

«Davvero? Puoi spiegare?»

«Quanto bene conosci la teoria dell’evoluzione?»

«Come tutti gli altri che l’hanno studiata all’università, suppongo. Ma cosa diavolo c’entra questo?»

«Ok, proverò a spiegartelo nel modo più semplice possibile da come lo capisco io. Il Guardiano non ha una grande abilità pedagogica. Come sai, l’evoluzione avviene quando si verifica un cambiamento nel materiale genetico, tale da far progredire un organismo. Adesso non importa come questo accada, in dettaglio. Supponiamo solo che accada. Ok?»

«Va bene».

Arthur si girò, dal sedile posteriore prese un bloc notes e una penna e si mise a scrivere. «Ecco. Cosa c’è scritto qui?»

Nathaniel lanciò una rapida occhiata al blocco. «Questo è vero».

«Ok, immagina che questo sia un codice genetico. Ogni lettera è un mattoncino».

«Così come lo sono i nucleotidi nel nostro materiale genetico» commentò Nathaniel, soddisfatto di se stesso.

«Sì. E poi si verifica un cambiamento». Arthur scribacchiò di nuovo sul foglio. «Cosa c’è scritto adesso?»

Nathaniel dovette contorcere la lingua per pronunciarlo. «Qursto è vero».

«Tu capisci cosa si intende, ma un programma automatico di traduzione ti direbbe che c’è un errore. Qursto non è una parola. Ma cosa succede se...» Arthur scrisse ancora qualcosa e rimise il foglio davanti al compagno.

«Questo è nero» lesse Nathaniel ad alta voce.

«La grande domanda è: cosa sto cercando di dimostrare?»

Nathaniel scosse con enfasi la testa. «Adesso devo rispondere a delle domande?»

«Oui, monsieur».

«Be’, nel primo caso c’è stata una mutazione che ha creato un intoppo, mentre l’altra mutazione ha un senso compiuto. È così, la maggior parte delle mutazioni sono dannose per l’organismo».

Anche Arthur si prese una coca-cola. «Giusto di per sé, ma non è quello a cui volevo arrivare. Perché alcune mutazioni sono positive per l’organismo e altre dannose?»

«Adesso stai parlando della selezione naturale?» Nathaniel cercò di ricordarsi quel poco che aveva letto. Non gli piaceva la sensazione di non riuscire a capire cosa intendeva Arthur, neppure se aiutato.

«No, quella è una stupidaggine. Aspetta, te lo dico in un’altra maniera: perché alcune mutazioni hanno un effetto positivo e creano un cambiamento, e altre no?»

«Continuo a non capire dove vuoi arrivare».

«Sto parlando dell’interpretazione».

Nathaniel si strinse nelle spalle. «Adesso ho perso il filo».

«La prima frase è stata rovinata, la seconda ha cambiato significato. L’abbiamo potuto stabilire perché siamo stati in grado di interpretare le frasi. La stessa cosa dovrebbe valere per il materiale genetico. Una mutazione nel materiale genetico può risultare in un nuovo organo. Be’, perlomeno se facciamo finta che possano avvenire dei balzi enormi nello sviluppo. Il punto è che questo è stato deciso in precedenza. Le possibilità di sviluppo sono insite nelle possibilità di interpretazione, mi segui?»

Nathaniel tamburellò di nuovo sul volante, tenendo gli occhi sulla strada. «Credo di sì. Quello che vuoi dire è che ogni frase, o materiale genetico, se vuoi, può mutarsi in un certo numero di modi, e il risultato di ciascun cambiamento è già deciso a partire dal meccanismo di interpretazione. Ma anche quest’ultimo può modificarsi, no?»

«Sì, ma ignoriamolo per il momento. Il punto è che, se segui questa logica fino alle sue estreme conseguenze, ottieni delle idee interessanti».

«Idee? È qui che entra in gioco la religione? E quali conseguenze?» Nathaniel cercò di immaginarsi dove Arthur stava andando a parare, ma non ci riuscì.

«Per cominciare, significa che lo sviluppo dell’essere umano, ma anche di tutta la vita sulla Terra, è stato già deciso dal codice della prima cellula, o forse è più corretto dire cellule al plurale. Immagina di avere una copia perfetta del materiale genetico della cellula, e di apportare uno o più cambiamenti che non la rovinano, e continui a farlo finché non ci sono rimaste altre possibilità, comprese anche le estensioni del codice. Allora otterrai una serie di nuove cellule, tutte con un codice un po’ diverso. Fa’ lo stesso con tutte queste. E poi lo ripeti ancora, e ancora, fino ad arrestarti per motivi naturali. Cosa abbiamo allora?»

Nathaniel rifletté, trovò la risposta, e si irritò leggermente per non essere giunto da solo alla prima conclusione. «Hai ottenuto tra l’altro una mappa di tutte le possibili forme di vita sulla Terra. Ma perché il processo dovrebbe arrestarsi?»

«Boh, vai a saperlo. Non deve necessariamente arrestarsi, ma è ragionevole supporlo. Non ci sono molti organismi che continuano a esistere per tutta l’eternità. Pensa alla prima cellula come il tronco di un albero, e per ogni cambiamento nasce un ramo. Se supponiamo che ogni cambiamento porti a un’ulteriore specializzazione, è logico sostenere che la prima cellula conteneva il maggior numero di possibilità di cambiamento, e che più in alto si arriva sull’albero, più diminuiscono le possibilità di cambiamento per l’organismo».

«Non mi convince l’argomento che la prima cellula abbia il numero maggiore di possibilità. Ma ok, capisco cosa vuoi dire».

Arthur sospirò. «Be’, è qui che nasce l’idea della perfezione».

Nathaniel lo guardò e inarcò le sopracciglia.

«È importante ricordare cosa la parola ‘perfezione’ significa in questo contesto» continuò Arthur. «La perfezione è semplicemente il risultato migliore a cui si può aspirare date le possibilità esistenti».

«Ok, ma allora ci sono un bel po’ di cose che sono perfette, no?»

«Sì. Se pensi di nuovo all’albero, e immagini che ogni foglia sia un vicolo cieco, cioè un organismo che non si può sviluppare ulteriormente, allora si può definire perfetto».

«O estinto, perché non è riuscito a sopravvivere in un nuovo ambiente. La perfezione ha il suo prezzo. Ma tutto questo non è forse del tutto ipotetico?»

«Forse, ma ho chiesto a qualcun altro nel Network, quelli con l’interesse per la biologia. Mi hanno indicato varie specie, tra le altre gli xifosuri».

«Xifosuri? Mai sentiti».

«Sono degli artropodi, di cui pare esistano fossili vecchi di quttrocentocinquanta milioni di anni. Si sono modificati, ma non molto».

«E noi esseri umani abbiamo perso il mignolo del piede».

«No, quello è solo un mito».

Nathaniel odiava quel tono. Come se si stesse dicendo la cosa più ovvia del mondo.

«Ok, ma ancora non siamo arrivati al nesso con la religione».

«Ora ci siamo. Questi creatori sostengono che nei mattoncini dell’universo ci sia il potenziale per un essere superperfetto, o per una razza, se vuoi. E non solo insito nelle cellule, ma fino al più piccolo componente. Per esempio nello stesso modo in cui tutti gli elementi chimici esistono a partire dalla quantità di protoni nel nucleo. Ed ecco l’idea principale: anche se esistono molti esseri perfetti, questi sono diversi fra loro».

«Quindi qualcuno è più perfetto di altri? Un modo davvero politicamente corretto di vedere il mondo». Nathaniel non era sicuro che la piega che stava prendendo la conversazione gli piacesse. Gli ricordava troppo certe ideologie di cui il mondo avrebbe dovuto fare a meno.

«Credono che l’universo finirà col creare questi esseri, ma non sanno dove né quando: solo che si svilupperanno col tempo. Ecco perché sono interessati a far sopravvivere la maggior parte di razze possibili il più a lungo possibile».

Nathaniel si mise a ridere. «E perché non gli mandiamo il film Il quinto elemento e facciamo finta che sia un documentario?»

Arthur si girò e lo guardò senza capire. «Mandarlo? Ma l’hanno trasmesso in TV molti anni fa, ci vuole solo un po’ di tempo perché arrivino i segnali, se i nostri creatori non sono ancora qui».

«Oh, che gioia».

«Non proprio. Ma capisci perché io la chiamo una religione?»

«Capisco che loro pensano al di fuori dei nostri ristretti schemi, questo sì. Dubito che possa avere un grande significato».

In realtà Nathaniel non era sicuro che significasse un bel niente. C’era una delle frasi di Arthur che gli era rimasta impressa: ‘Se i nostri creatori non sono ancora qui’. L’idea che potessero davvero esserci degli extraterrestri sulla Terra apriva troppe possibilità.

La radio venne disturbata da un’interferenza. Due canali combattevano una battaglia invisibile per il diritto a far ascoltare ciascuno la propria canzone, ma tutto ciò che era dato di sentire era una cacofonia di suoni. Arthur la spense, e l’unico rumore che rimase fu il monotono rombo attutito del motore. In quel preciso momento Nathaniel non aveva nulla contro un po’ di silenzio. C’era già abbastanza a cui pensare.

 

 

Arthur non sapeva se credere al Guardiano. Non che avesse una qualche importanza, ma era rassicurante pensare che i creatori avessero una mentalità tale da rendere possibile capirli. Un’intera razza che perseguiva qualcosa che forse non esisteva. Era in conseguenza dell’immortalità che si erano trovati uno scopo che sembrava scientifico, ma che in realtà era più fondato sulla forza di fede e speranza? Sembrava così – non trovò una parola adatta – umano. Era uno dei pochi temi di cui il Guardiano era in grado di parlare. Dall’altro lato non nuoceva chiedere aiuto per qualcosa di specifico, Nathaniel aveva ragione.

Arthur fece slittare il sedile all’indietro e pregò Nathaniel di non disturbarlo per un po’.

Strano come la savana ogni volta fosse diversa. Il cielo aveva sempre una nuova sfumatura di colore, il vento portava con sé odori per i quali Arthur ormai non aveva più i nomi. Più volte aveva cercato di ricordarsi perché avesse scelto proprio quel luogo, ma il motivo gli rimaneva sconosciuto. Forse non era affatto un posto speciale, ma solo un insieme di ricordi, però questo non spiegava la sensazione che provava guardando il lago e le vette coperte di neve in lontananza.

Il Guardiano era seduto accanto a un grosso leone. La sua mano era sepolta nella criniera dell’animale, che sembrava confondersi con il cielo arancione. Arthur si sedette davanti al leone e lo guardò in faccia. Il leone aprì la bocca in un pigro sbadiglio, scoprendo denti che colpiti dalla luce mandarono un lampo quasi innaturale.

«Perché stai seduto qui?» domandò Arthur.

«Mi piace questo leone». Il Guardiano grattò la bestia dietro le orecchie, e questa cominciò a ronfare sommessamente. «E poi questo per me è il massimo di vicinanza al mondo reale, o ai leoni, se è per quello».

«Ma non è mica reale, giusto?»

Il leone guardò Arthur di sottecchi ed emise un basso ringhio.

«Tu qui puoi morire, non è reale abbastanza?» rispose il Guardiano.

Il grosso felino inclinò la testa e fissò Arthur leccandosi intorno alla bocca. Era come un enorme gattone in cerca di coccole, ma al tempo stesso qualcosa impediva ad Arthur di allungare la mano e appoggiargliela sulla testa. Cosa assurda, dato che il leone in realtà era lui stesso, esattamente come tutto il resto nella savana.

«Cosa ti tormenta di più, il dubbio o la paura?» domandò il Guardiano, captando il suo sguardo con occhi indagatori, ma miti.

Eppure fu come se tutti i suoi strati protettivi venissero grattati via, lasciandolo scoperto.

Arthur rivolse gli occhi a terra e poi di nuovo al leone. «Non dovresti saperlo tu meglio di me?»

«Io posso vedere i singoli pezzetti del puzzle, ma ciò non significa che mi faccio un’idea dell’intero quadro».

Arthur aveva voglia di chiedere cosa importava se aveva paura o era in dubbio, ma conosceva già la risposta. «Stiamo andando nel Galles».

Il Guardiano annuì come se già lo sapesse, cosa molto verosimile.

«Paolo ci va spesso. Se rimaniamo lì abbastanza a lungo, è probabile che lo incontreremo. Non ho al momento altri piani se non di parlare con lui, e poi presumibilmente ucciderlo. Non proprio una soluzione permanente».

«No» convenne il Guardiano. Per un attimo sembrò voler aggiungere qualcosa, ma poi chiuse la bocca e guardò il leone.

Arthur si alzò. Il leone lo guardò speranzoso. «Nathaniel si chiede se tu potresti aiutarci a migliorare il nostro algoritmo». Non era una domanda, solo la constatazione che avevano bisogno di aiuto. Non nutriva alcuna speranza.

Il Guardiano si alzò e gli tese la mano. «Dammi l’algoritmo, e poi potrò risponderti».

Arthur scosse la testa, un po’ confuso. «Non ce l’ho qui».

«Dammi il ricordo che ne hai».

«Non possiedi già i miei ricordi?»

Il Guardiano sorrise rassegnato. «Non è così che funziona. Ecco cosa devi fare».

Non era difficile approntare un ricordo così come gli aveva mostrato il Guardiano. Ma ricordare l’algoritmo in sé, vederselo nitido davanti, era un’altra storia.

«Posso farlo con tutti i miei ricordi?»

«No, è impossibile, vale solo per la conoscenza che padroneggi».

«Oh» fece Arthur, senza riuscire del tutto a nascondere la sua delusione.

Il Guardiano chiuse gli occhi e per un attimo divenne quasi trasparente. «Non ti posso aiutare» annunciò, e aprì gli occhi. «Hai bisogno del doppio di risultati se la statistica dev’essere significativamente migliorata».

Arthur sollevò il piede e scosse via dei sassolini, che avevano scavato piccole impronte sulla pelle. «C’è qualcos’altro che puoi fare per aiutarci?»

«No».

Il leone si alzò e li guardò entrambi, poi si inoltrò nell’alta erba color dell’ocra e scomparve.

«Sai che cosa questo luogo rappresenta per me, dove si colloca nella mia storia?» domandò Arthur.

«È un bel posto, che esiste soltanto grazie a te. Di più non so» rispose il Guardiano, con un sorriso enigmatico. «Ma non abbiamo bisogno di saperne di più».

Arthur si accoccolò sui talloni, prese una manciata di terra secca e ne inspirò il profumo. «Voglio stare da solo adesso».

Il Guardiano annuì e scomparve dalla sua vista. Arthur si sedette per terra e chiuse gli occhi.

Passi felpati si avvicinarono alle sue spalle. Cauti, in attesa, guardinghi. Arthur udì il respiro molto prima di avvertirlo sul collo. Il muso freddo gli sfiorò delicatamente la nuca. Arthur si girò e guardò dritto negli occhi scuri.

«Lo so» disse appoggiando la mano sulla testa del leone e grattandolo dietro le orecchie.

L’animale gli si distese davanti, con la testa tra le zampe possenti, emettendo un basso brontolio.

«Lo so» ripeté Arthur tra sé.

In lontananza poté vedere un ghepardo abbattere la sua preda.

Veloce, efficace, brutale.