Capitolo 20
Il cellulare giaceva a fianco del cuscino, come al solito. Nathaniel era riuscito a resistere a non guardarlo fino a quel momento. Erano le quattro passate, questo voleva dire che erano almeno due ore che se ne stava a fissare il soffitto. Perché era tornato a casa? Avrebbe potuto benissimo rimanere in ufficio a fissare il muro. Lì almeno aveva accesso a tutte le macchine.
D’altro canto il suo corpo non aveva beneficiato della vita che aveva fatto nelle ultime settimane: sonno scarso e irregolare e troppo pochi pasti gli avevano procurato una sorpresa quando si era visto allo specchio una mattina. Né le occhiaie scure né le labbra secche donavano alla sua faccia rotonda con la barba incolta. Dopo che aveva firmato il contratto, nel giro di due giorni gli avevano dato ufficio, computer e accesso ai satelliti che potevano fornire nuovi risultati del test. Nathaniel non sapeva quanto tempo aveva passato in ufficio. L’unico rapporto che aveva avuto con il mondo esterno, a parte le sorelle, era con un tecnico della Rilchned, e comunque solo via mail.
Non riusciva a vedere la soluzione.
I risultati erano coerenti, proprio come aveva previsto: quattrocentoventuno rilevamenti, di cui soltanto uno si poteva fissare su una carta con coordinate precise. Il resto aveva un margine di insicurezza fra i tre e i cinque chilometri.
Su richiesta di Rilchned, Nathaniel aveva creato un programma che elaborava i risultati di più ricerche e cercava di calcolare la posizione esatta di una persona, ma andava a rilento. La domanda era cosa dovessero fare con quell’unico segnale forte abbastanza da essere localizzato. Aveva comunicato i risultati a Rilchned, e loro gli avevano risposto di aspettare e di continuare a cercare di migliorare i risultati. A Nathaniel sembrava impossibile: non si poteva migliorare il modello esistente, la matematica era quella che era.
Negli ultimi giorni aveva anche cominciato a dubitare dell’intera teoria. E se non erano persone quelle che registrava il sistema? C’era solo un modo di confermarlo, e significava che doveva andare in Norvegia. La questione era se Rilchned gliel’avrebbe permesso. Poteva partire di sua iniziativa, ma questo si sarebbe potuto interpretare come rottura del contratto. E anche se avesse avuto la conferma della localizzazione di quel singolo individuo, in realtà non risolveva il problema. Un sistema in grado di individuare quattrocentoventuno persone in quel modo era forse una rivoluzione scientifica, ma di dubbia utilità. Forse qualche ricerca sugli individui localizzati avrebbe potuto suggerire il motivo per cui i satelliti avevano registrato proprio loro. Nathaniel avrebbe voluto avere una conoscenza più approfondita della neurologia. Se non riusciva ad andare avanti da solo, avrebbe dovuto chiedere a Rilchned di far entrare nel progetto altri esperti. Ma non voleva chiedere, non ancora.
Doveva pur esserci una soluzione.
Tutto ciò che doveva fare era semplificare il problema in parti minori e più gestibili, ma stava per raggiungere il punto estremo di saturazione. Una volta quella situazione gli era sembrata attraente, ora era più come un nodo gordiano che gli pendeva sopra la testa.
Si stropicciò gli occhi e uscì dal letto. Il pavimento era freddo e sgradevole. Andò al frigorifero, prese latte e cacao in polvere e si sedette davanti al computer. Erano arrivate diverse mail, una di queste era dal suo contatto a Rilchned. La lesse in fretta: uno dei dirigenti, una donna, sarebbe venuto a trovarlo, in tutta segretezza, l’indomani.
«Desideriamo discutere gli sviluppi del progetto, e fornire una spiegazione di cosa è all’origine dei segnali».
Nathaniel dovette rileggerla diverse volte. Non aveva senso. Si abbandonò all’indietro sullo schienale e rimase a fissare lo schermo. Non poteva essere vero. Se già lo sapevano, perché non lo avevano detto subito?
«No. No, no, no...»
Quasi gli sfuggì il bicchiere di mano quando fu colpito dalla rivelazione. Quelli di Rilchned sapevano ciò che lui aveva trovato, in realtà lo avevano saputo fin dall’inizio. Ecco perché gli avevano offerto quel contratto. Nathaniel aveva sempre dato per scontato che quei rilevamenti fossero persone, dopotutto era quello lo scopo dell’intero progetto. Ma nella mail loro avevano usato la parola ‘cosa’, non ‘chi’.
Che cosa mai aveva trovato?
A Rilchned stava molto a cuore trovarla, qualunque cosa fosse. E il giorno dopo gliel’avrebbero rivelata.
Una volta tanto, l’ufficio aveva un aspetto ordinato. Nathaniel aveva stipato pile di riviste e articoli dentro un armadio, e buttato i libri in un cassetto. La dirigente doveva venire alle due del pomeriggio, ma l’ora era già passata da dieci minuti. Non gli avevano dato alcun numero di telefono, e nessuno l’aveva contattato per modificare l’ora dell’appuntamento. Provò a tranquillizzarsi col pensiero che i direttori erano persone molto impegnate. Il contratto era sul tavolo davanti a lui.
Alcuni paragrafi li sapeva a memoria, ma non era riuscito a trovare alcuna scappatoia. Aveva anche cercato di scoprire qualcosa di più riguardo a Rilchned, ma invano. Rifuggivano dai media, a dir poco. Un indirizzo registrato in Svizzera era tutto ciò che aveva trovato come contatto. C’era stato un momento in cui gli era venuta la tentazione di scoprire chi o che cosa si celasse dietro l’indirizzo email attraverso cui comunicava con loro, ma poi aveva lasciato perdere.
Che ne era della dirigente?
Nathaniel guardò fuori dalla finestra e in strada, quando bussarono alla porta.
Respira a fondo, abbassa le spalle, non c’è motivo di essere nervoso.
Emma aveva detto che era impossibile sentirsi stressati in fase di espirazione. O era di inspirazione?
Nathaniel si sistemò il nodo della cravatta che aveva lasciato allentata intorno al collo, e si infilò meglio l’orlo della camicia dentro i pantaloni.
Aprì la porta.
Quasi subito questa colpì qualcosa, e Nathaniel udì qualcosa cadere.
«Mi scusi! La porta si apre all’infuori».
Sentì che il proprio tono di voce era stranamente alto, e si chiese se sarebbe riuscito a dire subito altre cose banali. Vide il davanti di una bicicletta che veniva raddrizzato e tirato un po’ indietro. Una ragazzina la reggeva per la sella. Aveva un grosso zaino sulla schiena e un casco che le creava una frangia bizzarra. La prima impressione di Nathaniel fu che fosse latinoamericana, con lunghi capelli scuri e occhi castani, ma a guardar meglio era più probabile che avesse tratti medio-orientali.
La ragazzina appoggiò la bicicletta al muro e gli sorrise.
«Salve» disse, tendendo la mano.
Nathaniel ricambiò il sorriso e gliela strinse. «Ciao, in cosa posso aiutarti?»
«Noorah Lamborn al-Bahri» disse lei seria.
Definitivamente Medio Oriente.
«Nathaniel Wilkins» replicò Nathaniel, senza riuscire del tutto a reprimere un sorriso confuso.
Era una nuova tattica di vendita del reparto femminile degli scout? La bambina non poteva avere più di dieci anni.
«Scusami se sono un po’ in ritardo, ma ci ho messo un po’ di più di quanto avevo previsto a venire in bicicletta».
«Scusa?»
«Dovevo arrivare alle due. Vengo da Rilchned».
Nathaniel si guardò intorno in corridoio. «Hai detto Rilchned?»
«Sì».
Molte domande gli si affollarono sulla punta della lingua. La maggior parte cominciava con un ‘ma’.
«È una specie di test?» chiese.
«Sì, in effetti lo è».
«Cosa vorresti dire?»
La bambina lo guardò e fece un breve sorriso. «Forse possiamo continuare nei nostri locali?»
Nathaniel rimase impalato a fissare la stanza dietro di sé.
«Capisco la tua confusione, ma tutto diventerà chiaro quando ti avrò spiegato. Hai visto questa?»
Gli tese un foglio. Era la stampa della mail che gli avevano mandato. Nathaniel non aveva idea di cosa dire, ma fece un passo di lato. La bambina entrò, appese la giacca e si sedette sul divano. Nathaniel la seguì, sempre cercando qualcosa di ragionevole da dire.
Lei tirò fuori un pc portatile e lo accese. «Non è che per caso hai un cavo internet?»
Nathaniel ripescò il cavo che aveva gettato dietro il divano e glielo porse.
«Allora, posso rimanere fino alle sei di stasera, e non è molto tempo considerato quello di cui dobbiamo parlare. Siediti».
Nonostante gli sembrasse stupido farsi comandare da una ragazzina, Nathaniel obbedì.
«Questo sarà difficile da digerire, quindi comincio direttamente. Il tuo sistema indica quattrocentoventuno rilevazioni, distribuite in modo abbastanza uniforme in tutto il mondo».
Girò il computer verso di lui. Sullo schermo c’era un’immagine del mondo con le rilevazioni sotto forma di puntini rossi. Non era la stessa carta che utilizzava lui, ma Nathaniel non ebbe alcun problema a riconoscere il modello. «Come avevi supposto tu, ogni rilevamento è una persona. Quello che non sai è che tutti i risultati sono bambini tra gli zero e i quattordici anni». La bambina premette un tasto, e uno dei puntini rossi diventò blu. «Questa sono io, Noorah, nel caso ti fossi dimenticato il mio nome. In aggiunta, abbiamo confermato con buona probabilità centodiciannove persone, non contando quella che emette un segnale molto più forte delle altre».
Premette ancora una volta, e altri puntini blu apparvero tra l’altro negli USA, in Norvegia e in India. Nathaniel non poté fare a meno di fissare il punto blu sopra la Norvegia.
«Bambini?» domandò.
«Bambini».
«Perché?»
«Non so bene cosa mi stai chiedendo, ma diciamo che chiamarci bambini non è del tutto esatto».
«Ah, no?»
Noorah gli lanciò un’occhiata indagatrice e girò di nuovo il computer senza interrompere il contatto visivo. «Viviamo da diverse migliaia di anni».
Nathaniel si appoggiò all’indietro e cominciò a ridere sommessamente. «Ma davvero. Avrei puntato su alieni travestiti o qualcosa del genere. Hai con te una macchina fotografica? Vuoi che saluti e faccia ciao ciao?» Non riuscì a nascondere l’irritazione nella voce. «Cos’è che vogliono davvero ricavare loro da tutto questo?»
«Chi sono loro?»
«Rilchned, è ovvio».
«Rilchned è un anagramma».
Nathaniel fissò Noorah senza capire. «E allora?»
Noorah girò di nuovo il pc verso di lui. Il nome Rilchned copriva quasi lo schermo intero, poi tutte le lettere cambiarono di posto in continuazione.
«Non mi aspetto che tu mi creda, ma non c’è alcun modo facile in cui spiegarlo».
Era facile rimescolare le lettere, ma Nathaniel lo rifece più e più volte.
«Devi esserti scervellato non poco su cosa esattamente rilevi il tuo sistema, e io ho formulato la mia mail in modo tale da spingerti a fare proprio quello. Noi non sappiamo perché il tuo sistema sia in grado di localizzarci, ma abbiamo le nostre teorie. Capisci di certo perché volevamo il controllo della tecnologia». Girò di nuovo il computer verso di sé.
«E io dovrei credere a questa storia?»
«Dipende da te, ma intendo darti informazioni che si spera ti convinceranno. Dopotutto tu lavori per noi adesso». Guardò l’orologio. «L’orario del nostro incontro d’altra parte non è stato scelto a caso. I satelliti ci rileveranno tra meno di un’ora».
A quello Nathaniel non aveva pensato per nulla, ma la bambina aveva ragione: il rilevamento sarebbe avvenuto di lì a un’ora, ma ci sarebbero volute diverse ore prima che i risultati fossero pronti.
Non desiderava stare lì un secondo di più, ogni fibra del suo essere si opponeva, ma c’era qualcosa in quella bambina che gli impediva di andarsene.
«La via più facile è che io ti spieghi le cose fondamentali prima che tu inizi a fare domande. Suppongo che tu conosca il concetto di reincarnazione».
Nathaniel annuì suo malgrado.
«Be’, esiste. Io ormai sono vissuta per settemila anni, in diversi corpi sparsi in tutto il mondo. Non sono mai arrivata a compiere quattordici anni. Morire è come dormire, finché mi risveglio a una nuova nascita. Sono sempre femmina, e ricordo le mie vite precedenti. Parlo tutte le lingue principali del mondo più una sessantina di lingue minori o estinte. Come me ce ne sono altri, non ho mai saputo esattamente quanti, perlomeno finché non sei arrivato tu. Non sappiamo perché o come ci reincarniamo, non abbiamo altre conoscenze se non quelle di cui abbiamo fatto esperienza, o che ci siamo immaginati. Siamo bambini, ma non siamo bambini. Siamo esseri umani, ma siamo anche qualcos’altro. Scusa, hai da bere?»
C’era qualcosa nella voce di lei, nel suo linguaggio corporeo. All’inizio Nathaniel l’aveva giudicato un atteggiamento da saputella, ma c’era qualcosa di più. Lo guardava come se fosse stato lui a piombare attraverso la porta chiedendo chi e dove fosse. C’erano in lei un’arroganza e un’aggressività che a stento aveva trovato in altri. Sapeva esattamente cosa stava accadendo, e Nathaniel era sicuro di non piacerle.
E lei gli aveva appena fatto una domanda, si ricordò improvvisamente. «Bere? Sì. Cosa vuoi?»
«Quello che hai. Volentieri del tè».
Nathaniel accese il bollitore e tirò fuori una bottiglietta di coca, che aprì e mise sul tavolo davanti a sé.
«Il modo più facile di provare ciò che ti ho detto sarebbe naturalmente che io mi togliessi la vita, per poi telefonarti quando avrò due anni e darti informazioni che solo tu e io possiamo conoscere, ma ci sono un paio di motivi per cui non lo faccio. Il primo è che non mi piace particolarmente essere un bebè, e l’altro è lo spreco di tempo».
Nathaniel prese la bibita, sprofondò di nuovo nel divano e rimase seduto a fissarla.
«Tranquillo, mi crederai».
«È una situazione troppo assurda».
Noorah sollevò un sopracciglio. «Ho una certa comprensione per il tuo punto di vista. Ma finché non mi crederai non potremo andare avanti, dunque abbiamo un problema».
«Ecco, su questo preciso punto possiamo essere d’accordo».
«Ecco perché devo convincerti adesso. Non domani, non tra una settimana, ma adesso».
Nathaniel stava per dire ‘buona fortuna’, ma prima c’era una domanda che doveva fare. «Cos’ha di speciale quella persona in Norvegia?»
Per una volta tanto fu lei a non essere preparata. «Non lo so» rispose esitante.
Nathaniel non aveva idea se lei stava mentendo o no, ma qualcosa doveva pur sapere.
«Quindi tu non conosci quella persona?»
«È uno dei miei migliori amici».
Per un breve attimo Nathaniel non vide una bambina seduta sul divano, ma un’altra cosa. Qualcosa che lo spaventò. Ma di colpo davanti a lui c’era di nuovo una ragazzina. Lo sgradevole silenzio fu interrotto dal borbottio del bollitore. Nathaniel andò a prendere una tazza e delle bustine di tè, oltre allo zucchero.
«Se quello che dici è vero, non capisco bene perché me lo racconti. Non è un segreto?»
«Qualcuno ti crederebbe, se gli raccontassi quello che ti ho appena detto?»
«Probabilmente no, non fino a quando gli avessi mostrato le ricerche e spiegato il nesso tra i rilevamenti».
«E perché lo faresti?»
«Perché magari la gente dovrebbe saperlo? Se si venisse a sapere che ci sono delle persone che vivono in eterno, di sicuro molti dovrebbero cambiare la propria visione del mondo. Per non parlare della vostra conoscenza: è inestimabile. Quante lingue hai detto che conosci?»
Lei lo fissò. «Abbiamo valutato se eliminarti».
Lo disse come se stesse rispondendo a uno che le aveva chiesto l’ora. Un mezzo cucchiaino di zucchero finì dentro la sua tazza. Nathaniel era sicuro che Noorah intendeva veramente ciò che diceva, ma la cosa era troppo assurda. Si limitò a scrollare la testa e a sorridere rassegnato, poi si alzò in piedi.
Noorah sorseggiava il suo tè.
Nathaniel si risedette, più che altro perché non sapeva perché si era alzato.
«E così avete valutato se eliminarmi. Fantastico».
«Certo che lo abbiamo fatto. Pensaci bene. Supponi che tutto quello che ti ho detto sia vero. Cosa credi che ci farebbe la gente se venisse a sapere la verità?»
Nathaniel si contorse sul divano. «Ma io per voi valgo di più da vivo».
Non era sicuro se quella fosse una domanda a cui in realtà non desiderava ricevere risposta, o se volesse farla sembrare una constatazione.
«Sì, e abbiamo concluso che saresti stato in grado di reggere a quello che ti avremmo detto».
«Così mi avete fatto una specie di psicanalisi?»
Noorah si strinse nelle spalle. «Sarebbe dare troppo credito a Freud, ma sì, qualcosa del genere».
«Cos’è che devo fare per voi?»
«Per cominciare, quello che hai fatto fino a ora: continuare il progetto».
«E poi?»
«Questo lo discuteremo. Ci sono molte possibilità».
«Be’, io mi ritiro». Nathaniel la scrutò cercando una reazione, ma non registrò nulla.
«Perché?» domandò Noorah.
«Tutto ciò non è di alcun interesse per me. Quindi mi ritiro, potete tenervi il progetto. Il lavoro è fatto. Il sistema funziona, solo che non fa quello che avevo pensato». Si alzò di nuovo dal divano, e stavolta rimase in piedi.
Noorah era assorbita da qualcosa sul computer. «Quindi d’improvviso mi credi, ma non sei minimamente curioso?»
«Non so a che cosa credo, ma in ogni caso questa non è roba per me». Una voce nella sua testa protestò forte e chiaro, ma la decisione ormai era presa.
«Che cosa ti spinge veramente a ritirarti?»
«È importante?»
Nathaniel aveva molti motivi. Non la sopportava. Non gli piaceva chi era, cosa era, e in definitiva non gli piaceva che avesse rovinato il suo progetto.
«Non c’è niente che io possa dire per convincerti del contrario?»
«No». Una piccola parte di lui avrebbe voluto che ci fosse.
«Avrei capito se tu non fossi stato in grado di reggere la sfida, ma non è questo il tuo problema, vero? E credevi davvero di avere una scelta?»
Girò il computer verso di lui.
Nathaniel era troppo lontano per vedere chi fosse la persona nella foto di sinistra, ma la ragazza in quella di destra l’avrebbe potuta riconoscere anche con un occhio solo e malfunzionante. Anche a distanza, su quel profilo non ci si poteva sbagliare.
«Entrambe le foto sono state scattate ieri, come puoi vedere dalla data».
Era come se le braccia e le gambe fossero pronte a esplodergli, come se il suo corpo aspettasse un segnale.
«Lavori per noi, che tu lo voglia o meno» disse Noorah.
Il corpo scattò come per un riflesso. In un attimo Nathaniel le fu accanto. Le strinse la mano attorno alla gola e la sollevò dal divano spingendola contro il muro, dove lei rimase sospesa scalciando in aria con espressione sbalordita, e il suo respiro lambì la faccia di Nathaniel come un’aria calda e umida. Lui le strinse la gola tanto da farla annaspare, ma solo una volta.
Gli occhi di lei incontrarono i suoi con uno sguardo curioso del tutto privo di paura.
Nathaniel allentò un poco la presa così che Noorah poté appoggiare i piedi a terra, ma la tenne inchiodata al muro. Era molto più alto di lei, ma lei lo guardava senza alcun timore. Alla fine Nathaniel la lasciò andare, si voltò e sollevò il computer.
La foto di Martha era stata fatta davanti a casa loro.
Stava uscendo dalla porta.
Nella foto di sinistra Emma stava in piedi davanti a delle amiche e gesticolava, come faceva sempre. Il suo sorriso mostrava denti bianchi e perfetti, e tutto il corpo emanava gioia.
Nathaniel si girò verso Noorah. Lei lo stava ancora guardando con la stessa espressione.
«Tocca le mie sorelle, e...» cominciò Nathaniel. Non era ben sicuro di quale minaccia potesse far effetto su di lei.
Noorah si risedette tranquilla sul divano. «Non mi aspetto che tu capisca, non adesso. Ma credo che il punto ti sia chiaro. Da certe cose ci si difende con ogni mezzo. Nessuno ha interesse a finire in una situazione lose-lose. Tu forse non vedi questa come una situazione win-win, ma posso garantirti che non te ne pentirai».
Nathaniel scagliò la bottiglietta contro il muro con tale forza che i frammenti di vetro schizzarono dappertutto. Ci volle molto tempo prima che si calmasse. Lo riempiva una mescolanza di sensazioni mai sperimentata prima: rabbia, paura, confusione, curiosità. Avrebbe potuto scoppiare a piangere, ma a tutto c’era un limite. Si sedette di nuovo.
«Cominciamo» disse Noorah, come se nulla fosse accaduto.
Le ore trascorsero molto più in fretta di quanto aveva creduto possibile, ma quando Noorah lo lasciò, Nathaniel non aveva ancora la minima idea di come rapportarsi a tutta quella storia. Il mondo non era cambiato. Era logicamente impossibile. Il mondo era quello che era sempre stato. Era lui stesso la variabile dell’equazione. E allora perché non si sentiva così?
Le settimane passarono senza che Noorah si rifacesse viva. Poi arrivò un pacco per lui in ufficio. Nathaniel fissò i passaporti: uno era il suo, ma lui non si chiamava più Wilkins. L’altro apparteneva a un teenager chiamato Arthur. Avevano dato a entrambi lo stesso cognome. I passaporti erano chiaramente falsi, ma tutto, dall’ologramma alla carta, faceva pensare che fossero veri. Quanto potere avevano quei bambini, o qualsiasi cosa fossero?
Noorah lo aveva chiamato ‘l’inizio di una nuova vita davanti a lui’. La possibilità di comprendere il mondo come solo pochi erano in grado di fare. Nathaniel non aveva nessuna intenzione di chiudere la vita vissuta fino a quel momento, ma il mondo del giorno prima gli sembrava già molto, molto lontano.
Noorah pedalò per dieci minuti prima di chiamare il taxi con cui si era accordata perché venisse a prenderla. Su quasi tutti i fronti Nathaniel era stato esattamente come previsto, ma lei non aveva calcolato il suo temperamento. In quello aveva sbagliato a giudicarlo. La questione era se lui fosse uno che si lasciava governare dalla rabbia, o se fosse lui a governarla. Era senz’altro abbastanza intelligente da farle passare la voglia di averlo come nemico, soprattutto se lui era un tipo calcolatore.
Una possibile amicizia era probabilmente già andata perduta.